Criticare o recensire un grande scrittore del passato, ormai diventato classico, è un’operazione rischiosa. Tuttavia, leggendo Il mercante di Venezia, non si può non pensare di paragonare la vita di Shylock alla nostra.
Soffermarsi su un usuraio ebreo è, da parte dell’autore, un’iniziativa degna di lode, dato che ci si aspetterebbe un focus sul mercante Antonio, a cui si riferisce il titolo dell’opera. Al contrario, quest’ultimo è in secondo piano e lascia la scena all’ebreo, che il lettore tende sempre a giustificare sino alla fine dell’ultima pagina. Si tratta, infatti, di un uomo meschino e senza scrupoli, pronto a stringere un patto con il diavolo pur di perorare la sua causa. Eppure noi siamo predisposti a difenderlo, cerchiamo di metterci nei suoi panni e non ci sembra poi tanto cattivo!
Questa tendenza è probabilmente accreditata dal fatto che la sua condizione è molto vicina a noi uomini contemporanei, su cui grava l’insostenibile peso del mondo. Come Shylock, sentiamo di non essere del tutto accettati nel grembo dell’universo. Veniamo ripudiati, divisi, messi gli uni contro gli altri. Shakespeare, ancora una volta, da grande teatrante riesce ad inscenare dei dialoghi estremamente moderni, scavando nella coscienza degli uomini. Il mercante di Venezia è una lente di ingrandimento sulla natura antropica, un bisturi che in maniera meticolosa arriva al cuore del problema: la tragicità della realtà, in continua oscillazione tra morte e speranza, tra assurdità ed equilibrio.
A questo punto, come non citare l’esistenzialista Albert Camus, così consapevole di questo lacerante dissidio? Egli scrive: “Il mondo, in sé, non è ragionevole: è tutto ciò che si può dire. Ma ciò che è assurdo, è il confronto di questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza [...] L’assurdo dipende tanto dall’uomo quanto dal mondo, ed è, per il momento, il loro solo legame.”
E ancora John Milton, che riflette: “Niente muterà questa fermezza di spirito, quest’alto disdegno nato dalla coscienza offesa”.