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 Carlos Drummond de Andrade


A maquina do Mundo
di Carlos Drummond de Andrade (1902-1987)
trad di Giuseppe Butera

A maquinda do mundo di Carlos Drummond de Andrade è considerata da molti la poesia brasiliana più bella di tutta la storia della letteratura. La versione italiana che vi propongo è l'unica che conosco, cioè la mia. Giuseppe Butera

L'originale in portoghese
La traduzione di... Giuseppe Butera

E como eu palmilhasse vagamente
Uma estrada de Minas, pedregosa,
E no fecho da tarde um sino rouco

Se misturasse ao som de meus sapatos
Que era pausado e seco; e aves pairassem
No céu de chumbo, e suas formas pretas

Lentamente se fossem diluindo
Na escuridão maior, vinda dos montes
E de meu próprio ser desenganado,

A máquina do mundo se entreabriu
Para quem de a romper já se esquivava
E só de o ter pensado se carpia.

Abriu-se a majestosa e circunspecta,
Sem emitir um som que fosse impuro
Nem um clarão maior que o tolerável

Pelas pupilas gastas na inspeção
Contínua e dolorosa do deserto,
E pela mente exausta de mentar

Toda uma realidade que transcende
A própria imagem sua debuxada
No rosto do mistério, nos abismos.

Abriu-se em calma pura, e convidando
Quantos sentidos e intuições restavam
A quem de os ter suado já perdera

E nem desejaria recobra-los,
Se em vão e para sempre repetimos
Os mesmos sem roteiro tristes périplos,

Convidando-os a todos, em coorte,
A se aplicarem sobre o pasto inédito
Da natureza mística das coisas,

Assim me disse, embora voz alguma
Ou sopro ou eco ou simples percussão
Atestasse que alguém, sobre a montanha

A outro alguém, noturno e miserável,
Em colóquio se estava dirigindo:
O que procuraste em ti ou fora de

Teu ser restrito e nunca se mostrou,
Mesmo afetando dar-se ou se rendendo,
E a cada instante mais se retraindo,

Olha, repara, ausculta: essa riqueza
Sobrante a toda pérola, essa ciência
Sublime e formidável, mas hermética,

Essa total explicação da vida,
Esse nexo primeiro e singular,
Que nem concebes mais, pois tão esquivo

Se revelou ante a pesquisa ardente
Em que te consumiste... vê, contempla,
Abre teu peito para agasalha-lo;

As mais soberbas pontes e edifícios.
O que nas oficinas se elabora,
O que pensando foi e logo atinge

Distância superior ao pensamento,
Os recursos da terra dominados,
E as paixões e os impulsos e os tormentos

E tudo que define o ser terrestre
Ou se prolonga até nos animais
E chega às plantas para se embeber

No sono rancoroso dos minérios,
Dá volta ao mundo e torna a se engolfar
Na estranha ordem geométrica de tudo,

E o absurdo original e seus enigmas,
Suas verdades altas mais que tantos
Monumentos erguidos à verdade;

E a memória dos deuses, é o solene
Sentimento de morte, que fioresce
No caule da existência mais gloriosa.

Tudo se apresentou nesse relance
E me chamou para seu reino augusto,
Afinal submetido à vista humana.

Mas como eu relutasse em responder
A tal apelo assim maravilhoso,
Pois a fé se abrandara, e mesmo o anseio.

A esperança mais mínima, esse anelo
De ver desvanecida a trava espessa
Que entre os raios do sol inda se filtra;

Como defuntas crenças convocadas
Presto e fremente não se produzissem
A de novo tingir a neutra face

Que vou pelos caminhos demonstrando,
E como se outro ser, não mais aquele
Habitante de mim há tantos anos,

Passasse a comandar minha vontade
Que, já de si volúvel, se cerrava
Semelhante a essas flores reticentes

Em si mesmas abertas e fechadas;
Como se um dom tardio já não fora
Apetecível, antes despiciendo,

Baixei os olhos, incurioso, lasso,
Desdenhando colher a coisa oferta
Que se abria gratuita a meu engenho.

A treva mais estrita já pousara
Sobre a estrada de Minas, Pedregosa,
E a máquina do mundo, repelida,

Se foi miudamente recompondo,
Enquanto eu, avaliando o que perdera,
Seguia vagaroso, de mãos pensas.

Carlos Drummond DeAndrade


E mentre incerto percorrevo a piedi
Una strada di Minas, ciottolata,
E una campana roca all'imbrunire

Si mescolava al suon delle mie scarpe,
Pausato e secco; e uccelli volteggiavano
Nel ciel di piombo, e quelle forme nere

Lentamente venivano a diluirsi
Nel maggior buio, sceso giù dai monti
E dal mio proprio esser disingannato,

La macchina del mondo si socchiuse
Per chi a romperla ormai si ricusava
E a sol pensarlo si rammaricava.

Si aprì sì maestosa e circospetta.
Senza emettere un suon che fosse impuro
Né un baleno maggior del tollerato

Da pupille guaste nell'ispezione
Continua e dolorosa del deserto,
E dalla mente esausta a elucubrare

Su tutta una realtà che assai transcende
L'immagine sua stessa delineata
Sul volto del mistero, negli abissi.

Si aprì con calma pura, ed invitando
Tutti i sensi e le intuizioni restanti
A chi da tanto sudarli li avea persi

E neanche voglia avrebbe di riaverli,
Se invano e eternamente ripetiamo
Stessi peripli tristi senza rotte,

Invitandoli tutti quanti, in schiera,
A dedicarsi all'inedito tema
Della natura mistica dei fatti,

Così mi disse, pur se voce alcuna
O soffio od eco o semplice battuta
Attestasse qualcuno che, sul monte,

A qualcun altro, notturno e miserando,
In colloquio si stesse dirigendo:
"Quel che cercasti in te o fuori del

Tuo essere ristretto e mai si espose,
Pur fingendo di darsi o si arrendendo,
E ad ogni istante più si contraendo,

Guarda, rifletti, ascolta: la ricchezza
Che abbonda in ogni perla, questa scienza
Sublime e formidabile, ma ermetica,

Questa piena lezione sulla vita,
Questo nesso primevo e singolare
Che più non concepisci, tanto è schivo,

Si rivelò nella ricerca ardente
In cui ti consumasti... ve', contempla,
Apri il tuo cuore per dargli ricetto";.

I più superbi ponti ed edifici,
Quel che nelle officine costruisce,
Quel che pensato fu e presto attinge

Distanza che oltrepasserà il pensiero,
Le risorse terrestri dominate,
E le passioni, gli impulsi ed i tormenti

E quanto l'esser terrestre definisce
O si prolunga fin negli animali
Ed alle piante arriva, per imbeversi

Nel risentito sonno minerale,
Gira il mondo e torna ad ingolfarsi
Nell'ordine geometrico del tutto,

E l'assurdo d'origine e i suoi enigmi,
Le verità sue più alte ancor di tanti
Monumenti alla verità elevati;

E la memoria degli dei, é il solenne
Sentimento di morte, che fiorisce
Nel caule di esistenza più gloriosa.

Tutto si presentò a me in quello squarcio
E mi chiamò verso il suo regno augusto,
Infine sottomesso a vista umana.

Ma siccome io riluttavo a rispondere
A quell'appello sì meraviglioso,
Con la fede smorzata, e anche la brama,

La minima speranza, quell'anelo
Di vedere svanir la spessa nebbia
Che tra i raggi del sole ancora filtra;

Poiché morte credenze convocate
In fretta e furia non si disponevano
A tingere di nuovo il neutro volto

Che vo' lungo il cammino dimostrando,
E siccome un altro essere, non quello
Che dentro me abita da tanti anni,

Mia volontà passava a comandare
Che, già volubile, si richiudeva
A mo' di certi fiori reticenti

In se stessi dischiusi e poi serrati;
Come se un tardo dono non più ormai
Desiderabile, anzi, disprezzato,

Abbassai gli occhi, incurante, lasso,
Sdegnoso di ricevere l'offerta
Che si apriva gratuita al mio ingegno.

La tenebra più fitta ormai posava
Sulla strada di Minas, ciottolata,
E del mondo la macchina, respinta,

A poco a poco venne a ricomporsi,
Mentre, ancor valutando le mie perdite,
Venivo lento, mani penzoloni.

Carlos Drummond DeAndrade
Trad. di Giuseppe Butera

butera@ucdb.br



 

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