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Picari
di Piergiorgio Leaci
Pubblicato su PB5


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Ci ritrovammo ancora, come prima, nervosi, eccitati, con l’anima davanti, fremendo e paventando morti imminenti, senza alternativa e convinzione, credendo di fare bene e, invece, girando intorno le cose, a vuoto, con la birra in mano, tra buoni propositi e centinaia di futili sogni in sterili composizioni. Lui alzò la mano, sbadigliò e si lasciò cadere sulla poltrona.
“La mattina mi alzo dal letto e mi guardo attorno!”
Sorrisi.
“Alex, lo faccio anch’io!”.
Prese la birra e sorseggiò.
“Mi chiedo perché continuare? L’alba ritorna comunque.”
Versai del Brandy, portai il bicchiere alle labbra, le bagnai, poi lo fissai dritto negli occhi. Intuii la fine delle cose. Arrivava per tutti prima o poi. Come un muro di mattoni che da lontano s’avvicina. Un giorno lì piantato davanti, con quell’ottuso color rosso e l’odore di cemento fresco. Lo abbracciai.
“Helena non chiama più. Le avevo dato un ultimatum. Me o lui.”
Sorrisi.
Il Brandy finì. Aprii una bottiglia di vino. Mikulov per la precisione.
“Be’, Zdenek aveva meglio da offrire. Ma poi che te ne frega. Fosse una donna ad accomodare i problemi!”
Prese il bicchiere e bevve. Accese un sigaro.
“Aiuta! Non è lo stesso stringere la tua mano!”, insisté ansioso.
“Ma va’. Ti mancano solo le labbra carnose. Quelle le trovi per cinquecento corone. E non dice nulla se ti puzzano i calzini.”
Scoppiò a ridere. Saltò sulla sedia, aprii la credenza e tirò fuori un lungo rotolo di carta. Tornò a sedere. Lo guardai svolgere i papiri polverosi e ridere.
“Qui c’è la storia della mia vita. Ci aggiungo dei capitoli non appena posso.”
Aspirai e buttai la cenere in un bicchiere sporco.
“Questa è la parte di quando vivevo in Brasile. Avevo un ristorante a Rio. Anche una ragazza. Un cane.”
“E poi?”, domandai.
“Niente licenze e permesso di soggiorno. Un giorno mi hanno beccato e sbattuto fuori dal paese! Me li aveva mandati mio fratello.”
Lo guardai sorpreso.
“Un Caino?!”
“Già!”
“Dov’è ora?”, chiesi mescendo.
“Non lo so! Spero sia morto!”
Un ombra grigia gli passò innanzi agli occhi. Fiutavo cattiveria in quelle parole. Gli versai del vino e leggemmo qualche passo. Fluiva adrenalinico, con rapide rotture ed accelerando a fine rigo. Le frasi si materializzarono davanti, elettriche e nervose, penetrandosi, estendendosi, urlando morte e dolore nell’aria etilica e calda. Svuotò il bicchiere e lo riempì di nuovo. Fu un rimestare di sentimenti, odio, passioni, vecchi rancori e minacce, donne dalle cosce tornite e i fianchi larghi, carri di lenti con variopinte scandinave dai seni gonfi, e poi lei, con un seguito di luttuosi veli neri, passo da gatta, mulatta dal ritmo caldo. La vidi baciarlo, accenderlo, desiderarlo e poi sciogliersi in un antico pianto.
Versai dell’altro vino. Gli avvicinai il bicchiere.
“Non ha senso ricordare. Come puntare un stiletto avvelenato dritto al cuore!”, dissi piano.
Alzò la testa, tirò indietro i lunghi capelli e inspirò.
“Troverò il modo. Non so quanto ci vorrà.”
S’alzò, accese la radio e la sintonizzò sulla stazione della BBC. Parlavano dell’attacco americano in Afganistan. Alex storse il naso. Prese il bicchiere e lo svuotò. Lo seguii. Poi sparì sotto il tavolo e ne uscì con un grosso vaso.
“Guarda!”
Lo poggiò sul tavolo. Della terra nera cadde sulla tovaglia.
“Cresce pian piano. Non siamo esattamente nella stagione giusta, ma il caldo dell’appartamento l’aiuta.”, disse accarezzandola.
Riempii i bicchieri.
“Non sapevo che t’interessassero i cavoli.”
Prese il bicchiere e accese una sigaretta.
“Mi tengono compagnia.”
Scoppiai a ridere.
“Sei grande. Vuoi un figlio e coltivi un cavolo.”
Arrotolò i fogli e li raccolse con un elastico.
“Sono troppo vecchio per un figlio. Devo comprare una donna russa. Ora le danno via a poco.”
“Brutte notizie!”, esclamai imbronciato.
“Quali?”
“Abbiamo finito le sigarette!”
“Aspetta! Ho del tabacco!”
Scivolò via e ritornò dopo pochi minuti. Poggiò cartine e tabacco sulla tavola. Rollai diverse sigarette. Mi fissò le dita che s’agitavano. La mano gli tremava da sotto il bicchiere.
“Facciamo un giro! Qui è moscio!”, dissi rollando l’ultima sigaretta.
Alzò la testa, infilò il cappello e sorrise. Uscimmo e salimmo in macchina.
Percorrevamo la Kartouzskà ulice1. Pioveva forte. Slittava sulla strada, inchiodando quando vedeva una bionda. La salutava, stentando con il suo ceco dall’accento francese.
“Amo questo paese! Ti sorridono dietro! In Francia non è mica così!”
Lo colpii sulla spalla.
“Se la Francia e l’Italia fossero come questo paese, non saremmo qui!”, aggiunsi immusonito.
Prese contromano una stretta via e spinse l’acceleratore. Mi vennero i brividi. Circolava liquido nero in quelle vene. Gli occhi gli luccicavano del riflesso delle vecchie luminarie. Gli sentivo il cuore pompare livore e disperazione. La fronte gli sudava. Stringeva i denti. Cadevamo tutti a terra alla fine. Lui non ne accettava la sconfitta. Sognava un angolo asciutto dove curare le proprie ferite e raddrizzare la spina dorsale. La chiamava Andelskà Zeme2. Glielo lasciavo credere. Non rimanevano poi tante cose per cui valeva la pena vivere.
“Ti porto in un bel locale. È in una sklep3 di un vecchio edificio gotico. L’alba batte sulla finestra e copre metà della pista. Tutti quei corpi neri avvolti in quella pallida luce. Sembra di stare per morire.”
Chiusi gli occhi e lo immaginai. Buio, torce sulle pareti che illuminavano sino al soffitto. Toccai una parete. Fredda e umida roccia. Odore di anime andate a male. Al centro figure curve e demoniache improvvisavano una tregenda. Mi girai per cercare Alex. Sorrideva mefistofelico. Riaprii gli occhi.
“Mi dispiace Alex. Non riesco ad immaginarlo. Aspetto che tu mi stupisca!”, feci calmo.
“Accontentato.”
Parcheggiò sul marciapiede destro, buttando a terra un bidone dell’immondezza. Saltammo fuori e cercammo l’entrata. Le porte uguali sull’immenso edificio gotico. Gargolie nere ne proteggevano le entrate. Ne accarezzai una. Ne percepii quasi il pelo irto e spinoso, il fiato pesante e caldo. Continuammo avanti. Trottò verso un punto preciso, dove ombre incerte esalavano vapori cilestrini dalle bocche larghe e nere.
Un porta, una scala, un corridoio. Uscimmo in un ampio salone, con la musica assordante e le luci fioche. Baristi deliranti shakeravano davanti corpi femminili dalla pelle slavata. Lunghe gambe fuori di quei vestiti, accavallate, polpacci sodi e tacchi a spillo. Non sorridevano. Mescevano e ingollavano come medicinale amaro. Alex, giovane diblìk4, sfilò davanti, passando la mano sulle natiche appollaiate su trespoli di quercia. Un cocente brivido le prese lungo la schiena, intorno ai fianchi, sui capezzoli turgidi e acuminati. Alex, mladý zlý duch,5 sorrise ed andò a sedere. Buttai la cicca e la spensi con il tacco. Logori pneumatici da autocarro ed una misera lastra di vetro i tavoli. Sedili posteriori di secolari škoda le poltrone. Presi un’altra sigaretta e fumai.
“Fammi spazio, Francese!”, feci ingrugnito, “Non conoscevi un locale meno doloroso?”
Scosse la testa, scomponendo i lunghi capelli. Poi sorrise storcendo gli occhi. Spensi la sigaretta e poggiai la testa sul sedile. Il soffitto un groviglio di filo spinato, vecchie rivoltelle, torti caschi da motociclista, fucili dalla canna ricurva e lampeggianti sirene della polizia. Ballavano flettendo i corpi e le teste come spighe sottovento. Mi unii al loro fluttuare. La musica assorbita dalla pelle, s’agitava dentro. Divenimmo un immenso campo di papaveri blu, tra vapori e fumi, con il cuore al centro del petto, fremendo d’energia e terrore, salivando e sognando, eclissando poi in mesti pensieri dalle grigie cortine di luna.
Andai a sedere sudato. Tremavo. Alex mi strinse forte un braccio e mostrò il palmo con una pillola rossa.
“Avanti. Mandala giù. Ti prende l’anima! Camminerai come un vecchio ŠaŠek6 malandato!”
La presi e la ingoiai con un sorso di birra. Ordinai una Velvet. Scese dritta al cuore per pompare sangue al cervello. Chiusi gli occhi. Acido nello stomaco. Inspirai e ruttai forte. Niente elefanti rosa. Accesi una sigaretta e riflettei. Ne era passato di tempo da quando giravo per le strade di Aarhus, in primavera, tra amici, chiacchiere e fresca birra su un marciapiede, toccando le morbide gambe delle ragazze. Non era successo nulla di buono d’allora. Solo quel maledetto senso di precarietà che mi veniva dietro. Spensi la sigaretta e strinsi la coscia del mio amico. Lo invidiavo. Sempre all’erta, bicipiti duri e un triste sorriso sotto folte sopracciglia. Sbalestrava sogni come un arciere distratto, li scriveva su un taccuino e alla fine ci credeva.
“Lo so che senti la morte vicina. È un problema comune, rassegnati!”
Rispose con una smorfia.
Mi alzai per cercargli una ragazza.
Filavano frizzanti dalla pista al bar, tornando con gli occhi luminosi e l’anima accesa, cicalando e civettando tra loro, con femminilità, come giovani lesbiche calde e inesperte. Immaginai sfogare su quelle bianche carni seme nero viscoso, impregnarle lo spirito di denso catrame nero e saziarle avide e fameliche, prodigo e misericordioso come un antico profeta, spruzzando e aspergendo sulle loro bocca rosa, sui visi candidi e negli occhi celesti. Ne afferrai una. Girò la testa e sorrise. Le toccai il culo, lo strizzai e le strinsi la vita. La bocca vicino al mio naso. Fiato al whisky. La baciai piano e in profondità. Non fu male. Mi entrò dentro e mi scosse. Sentii aghi battere nella calotta cranica, il cuore gonfio e le gambe tremare. Le misi la mano sulla fica e fregai. Allargò leggermente le gambe e mi soffiò in un orecchio. Poi mi strinse forte i testicoli e corse via. Inspirai, trattenendo il dolore e andai al bar. Lo poggiai su uno scanno e ordinai una tripla tequila per narcotizzare il dolore. Alex ronzava innervosito intorno a due bionde, sulla pista, una di fronte l’altra, con la sigaretta tra le lunghe dita e sorridendo con gli occhi grandi ed un’espressione stupida. Presi il bicchiere e buttai dentro. Funzionò. Non sentii più nulla. Accesi una sigaretta. Alex venne avanti.
“Puttane!”, fece incollerito con il suo accento francese.
“Che diavolo hai? Fatti un Brandy!”
“La prima volta che vedo qualcuno buttare le cicche per terra. Non appena vanno via, le blocco e gliele do in mano, puttane, avete dimendicato queste!”, e rise.
Gli ordinai un Brandy. Lo prese e sgusciò via. Spensi la sigaretta nel bicchiere e tornai in pista. Una donna non avrebbe risolto nulla. Ma nemmeno l’amore solitario, consumato in un angolo della mia stanza. Bisognava mescere una giusta dose d’entrambi per avere un equilibrio decente.
Ballai. Non parevano interessate. Sinuose, serpeggiando con i corpi lunghi e sottili, vicine come complici amanti, strofinando i fianchi e i seni, lisciando i colli con le lingue e le mani.
Mi sentii idiota. Andai a sedere. Accesi una sigaretta. Mi passavano davanti e non ci potevo fare nulla. Un gran peccato. Tutta quella carne liscia e vellutata. Ruttai. La tequila venne su. La trattenei in bocca, feci dei gargarismi e rimandai giù.
“Ahoj, chlapec!”7, una voce da dietro.
Mi voltai. Viso ossuto e affilato, naso leggermente aquilino, capelli lisci biondo paglia e piccoli bottoni blu come occhi. Sorrise. Gli offrii una sigaretta. Fumammo.
“Non parli? Mi chiamo Agatha, e tu?”
Mi sentivo impacciato. Preferivo affrontarle io.
“Wilem!”, feci sforzando. Buttai la cenere in un bicchiere.
“Ti va di ballare?”
“No!”, replicai. Accesi un’altra sigaretta. Sedette vicino e strinse una gamba.
La guardai negli occhi. Vidi qualcosa di rassicurante. Piegai la testa e le baciai il collo. Odorava di formalina. Le strinsi un seno. Tastai. Fu triste e sgradevole. Solo un reggiseno imbottito ed un capezzolo di dura gomma. Come stringere la mano di plastica ad un monco. La guardai dritto negli occhi. C’era ancora un po’ di vita che cercava di uscire. Aveva scelto me, per quella notte e ne fui particolarmente grato. Le strinsi una mano e ci alzammo. Cercai Alex. Sfarfallava sulla pista al ritmo africano. Gli feci cenno d’avvicinarsi.
“¿Què tal Chico?”
“Dammi le chiavi della macchina! Ho qualcosa da consumare!”
Scattò con le chiavi in mano. Le presi e uscimmo. Aprii la macchina e salimmo.
“Ha il volante a destra?!”
“È inglese!”, risposi accendendo il quadrante e mettendo in moto.
“Ma il tuo amico parlava con l’accento francese!”
Sorrisi.
“Ha il diavolo dentro. Sono cose che non sai.”
Andammo in fondo la strada, girai a destra e proseguii per un posto tranquillo. Lo trovai in un vicolo cieco, con i lampioni gialli che si riflettevano sulle lastre di pietra di quella vecchia città. Lei tolse la camicetta.
“Non così in fretta! Non rimane poi molto dopo!”
Ci baciammo e accarezzammo, come un antico rituale. Le afferrai il torace e le succhiai i capezzoli. Vibrò dentro e gemette piano, stringendomi forte i deltoidi. Le baciai il collo e dietro l’orecchio. Si sciolse, mi sbottonò i pantaloni e lo prese rigido tra le mani, lisciandolo e lambendolo tra le dita sottili. Esplodevo dalla gioia. La vita non era così terribile, poi. Riservava ancora fugaci rivelazioni. Affondai le dita nei suoi glutei e mi concentrai sui ritmi interiori. Prese il pene da sotto i testicoli e fregò energica e passionale su, fino al glande, poi giù da dove era partita. Mi sentii caricare la cartucciera e pronto ad infierire i primi colpi. Non avrei resistito. Stesi il sedile alla mia sinistra, la adagiai, le abbassai pantaloni, spostai il perizoma e lo infilai. Scivolò veloce e deciso, allargandole la vulva, tormentandola caldo e assatanato dritto fino l’orgasmo, con uno swing vivace ed erompente.
Ci ricomponemmo e tornammo per le nostre strade. La mia, dritta tra le braccia di Alex. Sorrise e intascò le chiavi.
“Allora? Sesso spedito tra la polvere e i tafani dei miei vecchi sedili?”
“Sì, ma l’amore va consumato in silenzio e piano. L’anima è un fragile cristallo di Boemia!”
“He, He, He, ma non era mica amore quello...”
“Allora è meglio scrivere!”
Contraccambiò con una pacca sulla schiena. Comprammo una bottiglia di Martini rosso da consumare in silenzio e andammo.

SMS:
Oggi ho toccato una donna ed è stata una cosa buona. La prima commestibile dopo un mese di avanzi. Che mi sia innamorato?

-Va’ a farti fottere...

© Piergiorgio Leaci





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