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Il sorriso dello straniero
di Davide Mannucci
Pubblicato su PBSA2021


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Il sorriso dello straniero

Oggi il cielo non ha nuvole nere, oggi Kabul è silenziosa e pacifica. Niente aerei, nessuna esplosione; papà stasera tornerà a casa, e noi mangeremo di nuovo Kebab. Sembrano immagini ormai lontane le fughe improvvise dalla piazza giù per le vie.

Sento la voce di Karima accanto a me e il suo profumo mi inebria. Adesso un brivido, la solita farfalla nello stomaco; mi ha preso la mano e le sue dita sono tra le mie. Ma non stiamo fuggendo e nessuno ci insegue. Camminiamo e pensiamo al nostro futuro; oggi Karima mi chiede come si chiameranno i nostri figli; la guardo, è bellissima. Allungo la mano per accarezzarla come piace a lei: la mano sulla guancia e il pollice che si muove lento sullo zigomo. Mi avvicino ai suoi capelli, neri come la notte senza luna di Kabul. Il suo profumo è come la canzone che mia madre mi cantava e che mi è rimasta dentro; una cosa che niente riesce a cancellare. Karima pronuncia il mio nome e la farfalla nello stomaco sembra impazzita. Mi avvicino, attratto dai suoi occhi; vorrei darle un bacio, ho bisogno di dirle che la amo. Le nostre bocche si sfiorano, ma un lampo improvviso porta via tutto. Improvvisamente è buio. Sento una voce dentro di me che non riesco a comprendere, non è la mia lingua. Adesso capisco che sono seduto e che i miei occhi sono chiusi, ma soprattutto so che stavo sognando. Rumori, voci e ancora quella lingua strana; e quel rumore, forse un treno. Mi decido ad aprire gli occhi. La mia testa è appoggiata a un vetro da cui riesco a vedere case e alberi che passano veloci. Il rumore è lo stesso ed è sempre più familiare. Mi trovo davvero su un treno. Mi volto, scosso da quella voce strana. Appartiene a quello che pare essere il capotreno e sembra che mi stia chiedendo il biglietto. Apro il marsupio ed è lì, il mio passaporto per la libertà. Subito accanto c’è la sua foto, la mia Karima. Col groppo alla gola mostro il biglietto allo straniero che mi sorride.

Lo guardo forare il mio “passaporto”, certificare la mia libertà. Sono legalmente in fuga e ho lasciato il mio paese che però continua ad amarmi e mi aspetta, come un padre che sa che il figlio non tornerà, ma che vive inseguendo una speranza che ogni giorno veste gli abiti dell’illusione. Lo straniero mi sorride di nuovo e mi restituisce il biglietto. Gli sorrido consapevole di non saperlo più fare; sorridere non è più una cosa che faccio con naturalezza da quando lei non c’è più. Spero non se ne accorga o che capisca e lo apprezzi lo stesso. Guardo fuori dal finestrino incuriosito dalle auto che sembrano in gara col treno. Corrono impazzite ad occhi chiusi schivando gli alberi che continuano la loro fuga, senza provare a fermarsi e rendersi conto che almeno loro non sono costrette a rispettare orari. Non corrono sugli stessi binari. Possono fermarsi, rallentare, scegliere di tagliare per la campagna o fermarsi a guardare i girasoli. Quelle auto sono treni liberi che hanno il potere di creare le stazioni che preferiscono, ma continuano ad inseguire un percorso che non è il loro. Per un attimo penso alla mia vita bruscamente trasportata su binari sconosciuti che non voglio percorrere e mi assale la paura. Ma è solo un attimo perché la stanchezza mi porta di nuovo ad appoggiare la testa al vetro. Chiudo gli occhi e riprendo il mio viaggio. Sento la sua voce e di nuovo il suo profumo. La mia Karima, la mia Kabul. La notte senza luna. Non voglio addormentarmi. I sogni a volte sono pesci contro corrente. Apri gli occhi Aleem.

L’odore del treno mi riporta al sapore amaro della realtà, l’amarezza di quello che ho lasciato. Le auto fuori dal finestrino si fanno meno limpide, qualcosa mi impedisce di vedere chiaramente. Gli occhi si gonfiano, si fanno umidi, non devo piangere. L’angolo esterno dell’occhio destro fa fatica ad arginare una lacrima che ha deciso di farsi sentire. Non resiste e comincio a sentire la solita sensazione di bagnato sotto l’occhio. Mi arrendo e la lacrima impazzita si lascia andare lungo lo zigomo, rigandomi la guancia e si ferma, forse per riposarsi, sull’angolo della bocca, offrendomi la possibilità di sentire tutta l’amarezza degli ultimi mesi della mia vita. Penso all’ultima volta che ho sentito il sapore di una lacrima e avverto la solita fitta alla tempia. Ancora quelle immagini impazzite, la folla del bazar, le risate di mio fratello Jaber. L’esplosione improvvisa e il silenzio intorno a me. Poi il caos, le mie grida e il sangue di Karima. Lascio che il sapore della lacrima si confonda nella mia bocca perdendo tutta la sua amarezza. Cerco lo straniero per avere ancora il suo sorriso. Lo vedo in fondo al vagone che fora altre libertà, altre fughe, altre abitudini, altri dolori. Una ragazza alla quale ha chiesto il biglietto indugia imbarazzata; controlla prima nello zaino, poi nel marsupio e, per ultima, la nuovissima giacca rosa. Quella non è proprio adatta per portare un biglietto del treno. La guardo bene: in realtà non sembra neanche una cosa da indossare per andare a scuola. Sorrido guardando quella ragazza che ha escogitato la sua fuga, pensando a tutto ma non a comprare il biglietto. È in difficoltà ma niente però potrà fermare quel viaggio. Il capotreno è solo una stazione intermedia, una fermata che il destino ha inventato per dare ancora più colore alla sua giornata. È strano, fugge per uscire dalla normalità, cercando di spezzare la linea di tante giornate uguali. Ripenso alla mia vita, a quando era normale. Vorrei tanto annoiarmi, sentire addosso la lentezza di una noiosa giornata afgana. Io sto fuggendo perché nel mio paese la noia e la normalità non ci sono più. Osservo lo straniero; sempre quel sorriso. Il mio sguardo sembra chiamarlo, perché si volta verso di me. Ci guardiamo per qualche secondo e con un gesto di intesa decidiamo di graziarla. Si gira verso la fuggitiva e la guarda per un attimo, ammirandone probabilmente la bellezza. Le sue labbra pronunciano parole a me incomprensibili ma che la fanno sorridere, subito sollevata. Deve averle detto della grazia perché intuisco le sue parole di gratitudine verso lo straniero insieme, probabilmente, alla promessa di scendere alla stazione successiva. Ritorno alla fresca compagnia del finestrino. Guardo ancora fuori. Tutto si allontana velocemente; gli alberi, le case, le auto in gara mi lasciano andare. Rimane solo la danza scomposta della strada che si muove come un serpente ferito che non ha perso la sua velocità. Le colline si allontanano in modo più discreto, si muovono più lentamente. So che è dovuto alla prospettiva, ma adesso mi piace pensare a quelle colline come a un messaggio di speranza. Quel giorno al bazar è cominciato per me un viaggio che non mi ha mai permesso di rallentare, di respirare. Tutto è trascorso correndo davanti a me, proprio come le case e gli alberi. Le colline che rallentano sembrano annunciarmi l’arrivo di una stazione; forse c’è speranza. Me lo ripeto mentre osservo sorpreso una delle auto in gara deviare improvvisamente per una strada in mezzo ad un campo di girasoli.

Quel giorno, il bazar. No, non adesso Aleem. La fitta alla tempia stavolta mi trova impreparato e non lo controllo. Rivedo tutto e sento la sua voce. Sta succedendo di nuovo, stavolta senza chiudere gli occhi. Non mi difendo e riesco a vedere tutto. Il ricordo anticipa le immagini disegnandole aldilà del finestrino. Gli ultimi momenti con Karima. Vedo quel giorno e lo vivo.

Adesso mi trovo nella mia camera, a casa mia, a Kabul. Mi sto svegliando e dalla finestra sento il calore dei raggi del sole entrare nella stanza delicatamente, come una madre che va a svegliare il figlio e aspetta che apra gli occhi prima di chiamarlo. Jaber irrompe nella mia stanza e pronuncia quella frase, parole semplici e allegre ma che oggi se ne stanno nascoste dentro di me come lupi affamati, pronte a farmi male alla prima occasione: “Aleem, alzati, Kabul ti aspetta, oggi è il nostro giorno!”. Kabul, il nostro giorno. Sono di nuovo con la fronte sul finestrino ad osservare il serpente ferito e le auto in gara col treno. Chiudo gli occhi. Ancora l’Afghanistan e l’odore del mio paese; adesso sento davvero una cosa che niente può togliermi. Gli odori del bazar, i passi scomposti e affrettati della gente, i toni di voce sempre più alti e le risate. Jaber mi ha fatto una sorpresa e ha chiamato Karima, che ci ha aspettati qui. Sono felice, la guardo mentre si avvicina e sento l’allegria di Jaber, che non smette di ridere. È ancora lontana per dirle qualcosa ma le sorrido e con lo sguardo le regalo quello che non le ho mai detto: occhi neri ti amo. Occhi neri, io e te per tutta la vita. Mi guarda felice e mi lascia un sorriso, mi affida il suo sguardo sereno, per sempre. Ritorno alla realtà del finestrino, perché terribilmente reale è quello che è accaduto. Una bomba si è portata via la mia donna, i miei sogni e il mio viaggio con lei. Un treno sicuro ha deragliato all’improvviso e mi ha portato qui, migrante regolare, ma clandestino in una nave che non mi appartiene. Il suo cuore ha smesso di battere durante la notte. La sua voce è debole. “Aleem, non viaggiamo da soli, mai”. Se ne è andata così, dicendomi la verità: non viaggio da solo. Lo straniero mi guarda, come rapito dalle mie immagini, come se le vedesse. Non sorride. Il treno si ferma; mentre a fatica leggo il nome della stazione, qualcosa attira il mio sguardo. Una giacca rosa cerca l’uscita, per entrare nel sogno che l’ha spinta fin qui. Non ha mantenuto la promessa, non è scesa prima. Mentre la seguo con lo sguardo non posso fare a meno di notare una cosa che non credo di aver mai visto in nessuna stazione. Il muro è attraversato da un grosso squarcio, visibilmente di vecchia data ma mai riparato, anzi, tenuto coperto solo da un grosso vetro, sicuramente di quelli antiproiettile. Questo vuol dire che è una cosa da non dimenticare. Il significato di quel che vedo è perfettamente racchiuso in una parola che ancora una volta mi provoca la nausea: bomba. Subito accanto allo squarcio vedo una grossa lapide di marmo con scritto qualcosa, forse dei nomi. Voglio andarmene, ho paura. Per un attimo vorrei anch’io avere vent’anni, una giacca nuova e un sogno. Voglio capire cosa si prova ad uscire da una stazione che ha conosciuto l’orrore di una bomba, senza rendersi conto di cosa sia un’esplosione, che odore abbia la morte quando si presenta in brandelli. Guardare quello squarcio senza rabbrividire, senza tremare. La bomba del bazar mi ha portato via tutto, e mi ha lasciato questa lapide sul cuore; c’è scritto il solito nome ed è sempre più pesante. Il treno riparte. Cerco lo straniero ma non lo vedo. Di fronte a me si è appena seduto un uomo, dall’aspetto sereno e rassicurante. Lo guardo frugare nella sua borsa e tirare fuori un libretto verde con molti segnalibri a cordicella, tutti colorati. Dall’aspetto mi sembra un libro di preghiere. Ho visto bene, l’uomo sta pregando. Si fa il segno della croce e comincia a leggere con attenzione. Penso a come reagirebbe il figlio di Kaleb a quel gesto. L’uomo è fortunato. Ha incontrato un afgano che non riesce a sentire la presenza di Dio. L’uomo è fortunato, perché sente la presenza di Dio. Le parole di Karima, la sua ultima frase quasi mi fa sussultare. “Aleem, non viaggiamo da soli, mai”. Mi lascio andare, sto piangendo. L’uomo alza gli occhi verso di me, mette la mano in tasca e mi porge un fazzoletto di carta. Lo prendo e lo ringrazio sorridendogli. Mentre mi asciugo gli occhi lo vedo portarsi una mano sul cuore, poi indicare me e, infine, con entrambe le mani, rivolgersi verso l’alto. Credo che mi abbia augurato la pace di Dio. Mi tornano davanti gli occhi di Karima, quel nero che diventa grigio. Il velo del silenzio. Ricordo la rabbia provata in quel momento, le mie parole contro Dio. “Perché? Tu, Allah, Dio, non so neanche come devo chiamarti, in tanti ti pregano, in tanti modi e in diverse lingue. Perché? Che bisogno avevi di lei? Delle gambe di Jaber?”. Penso a mio fratello; non camminerà mai più. L’esplosione si è portata via le sue gambe da mezzofondista, insieme alle sue risate. Ricordo la rabbia e la solitudine che ho provato in quella notte. Solo, senza Karima e senza Dio. Quel gesto però mi ha colpito. Una nuova sensazione. Osservo gli occhi dell’uomo che prega, sono sinceri. Io mi trovo sopra ad un treno, la mia anima cerca risposte e riposo; un tizio che prega mi dice, almeno così credo, che non sono solo. Chiudo gli occhi e ascolto quello che il mio cuore prova in questo momento. Di nuovo quella strana sensazione, un’emozione nuova. Mi sento come uno a cui il padre ha appena rivelato di avere un fratello, cresciuto in un altro paese, allevato da un’altra donna. Scoprire di avere un fratello e ritrovare un padre. Asciugo una lacrima ritardataria e alzo lo sguardo verso l’uomo. Vorrei fargli conoscere la mia scoperta, la buffa sensazione che provo adesso. Sembra che abbia capito qualcosa, perché mi guarda e mi dice “pace”, nella mia lingua. Rispondo come mia madre mi ha insegnato da piccolo. Non so se è comprensibile per lui, ma i miei occhi sanno come far arrivare quelle parole. Cerco di ricordare gli insegnamenti che ho ricevuto da bambino, le preghiere che sentivo, le frasi del mullah. Non riesco a trovare la parola che meglio descrive quello che sto vivendo in questo momento, mentre i miei occhi non si staccano da quelli dell’uomo. È qualcosa di simile a “comunione”, ma non è quella. So che nella mia lingua, nella tradizione del mio paese c’è una parola che è nata apposta per fotografare quello che sto vivendo su questo treno. Adesso lo vedo con chiarezza, Karima. So che puoi sentirmi, non sono solo, non lo sono mai stato. Cerco il finestrino per trovare di nuovo quelle immagini, stavolta le voglio vedere. Guardo fuori e tra il serpente ferito e le colline della speranza, cerco il mio paese, le voci di Kabul, la luna che ritorna a colorare la notte di blu. Guardo le auto che si inseguono e chiudendo gli occhi ritrovo lei. Mentre la immagino sorridente e più bella dei miei sogni, sento un leggero torpore partire da dietro la nuca, mi sto addormentando. Lei però resta davanti a me. Mi trovo in ospedale, in quella stanza dove l’ho salutata per l’ultima volta. Tutto sembra uguale a quella notte. Il letto è accanto alla finestra che dà sul parcheggio, le lenzuola sono state appena cambiate, come allora. Le immagini sono le stesse. Karima è sul letto, come l’ho lasciata quando l’ho vista morire, quando sono scappato per non vederla più senza colore, senza vita. Ma è diversa, non è più pallida. I suoi occhi sono di nuovo neri e la sua pelle non sta perdendo il suo colore. Le sfioro una mano; mi faccio coraggio e l’accarezzo. Mi aspetto di sentirla gelida, di avvertire di nuovo quel freddo che solo la morte può dare; il freddo che viene da dentro. Karima invece non è fredda. La mia carezza la fa muovere. Anche i suoi occhi, sembrano più vivi, mi osservano. “Aleem, sei arrivato”. La sua voce è improvvisa, mi riporta con la fronte sul finestrino. Il treno è fermo. L’uomo davanti a me non c’è più. Mi volto e guardo fuori. È sceso; lo guardo, forse sperando che si giri verso di me, anzi, sicuro che lo farà. Non mi sbagliavo. L’uomo si ferma e mi sorride. Con un gesto della mano mi saluta, poi guarda verso il cielo e riparte, prendendo la via dell’uscita. Rimango con la fronte sul vetro e ripenso alle parole di Karima nel sogno. Sono arrivato. Una mano sulla spalla mi fa trasalire. È lo straniero che mi sta dicendo qualcosa; non capisco le sue parole ma intuisco il significato; sono arrivato. Mi alzo senza smettere di guardarlo; sorride di nuovo. Ha ritrovato quel sorriso che non avevo visto quando ci siamo fermati alla stazione con lo squarcio nel muro. Raccolgo le mie poche cose, le metto nello zaino e mi avvicino alla porta. Lo straniero mi blocca, tenendomi per un braccio, ma non c’è niente di aggressivo nel suo gesto. Lo guardo con espressione interrogativa, ma sono tranquillo. Mi sorride, porta la mano destra all’interno della giacca e tira fuori qualcosa. La foto di una ragazza. Mi fa capire che posso prenderla, posso guardarla. Mentre la prendo, vedo la mia mano tremare. Una foto in tasca, una foto nel marsupio. Ricordi di persone che non ci sono più. Non posso non ammirare la bellezza della ragazza della foto. Sul retro c’è scritto qualcosa ma riesco a leggere solo la data. Guardo lo straniero e capisco dall’età che dimostra e dalla data recente della foto che questa ragazza deve essere sua figlia. Se ne è andata come Karima. Adesso ricordo. Quando ci siamo fermati alla stazione della bomba, non solo non sorrideva, ma stava piangendo. Anche a lui quello squarcio ha ricordato qualcosa di violento, una fermata improvvisa, un deragliamento crudele, proprio quando il viaggio sembrava tranquillo. Guardo fuori la gente che affolla la stazione. Molti arrivano, tanti se ne vanno e alcuni aspettano. Stazioni, arrivi, partenze, attese. Siamo in viaggio caro straniero e questa stazione non è l’ultima. Restituisco la foto e lo ringrazio con un sorriso. Mi ha fatto capire che non sono solo. Il viaggio è lo stesso per tutti. Le stazioni sono diverse, le mete anche, ma i binari nessuno li cambia. Non riesco a sorridere come lui sta facendo ma dentro di me sento una cosa nuova, una volontà che prima di questo viaggio non avevo. Voglio il sorriso che ho visto sulle sue labbra da quando mi sono svegliato su questo treno. 

Lo saluto con lo sguardo e scendo dal treno. Un vento delicato mi accarezza il viso. Sento la sua presenza. Non se ne è mai andata. Apro il marsupio e prendo la sua foto. Occhi neri mi guarda come se volesse dirmi qualcosa. Lo so Karima, vale la pena continuare questo viaggio.

Non so cosa farò per vivere. Mio cugino mi aspetta in questa città, dice che ci sono possibilità di lavoro. So pochissime cose del mio futuro, perché non ho niente. Ma chi mi ha fatto bruscamente cambiare treno conosce il mio percorso, sa in quali stazioni mi devo fermare. Quello che so è che voglio continuare, non mi voglio fermare. Desidero ritrovare la voglia di sorridere. Voglio anch’io pensare a Karima facendolo come questo viaggio mi ha insegnato. Farlo con una speranza, un sorriso. Con il sorriso dello straniero.

© Davide Mannucci





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