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“Diavoletto, smettila di girarmi intorno, mi rendi nervoso”.
“Eh! eh! eh! Lo so perché sei nervoso. Continui a guardare lassù, verso il ponte. Eh! eh! eh!”.
“Lasciami in pace“.
“Rassegnati, il ponte per te resterà una chimera”.
“Fammi provare”.
“Sarebbe inutile, hai commesso troppi peccati”.
“Non è vero!”.
“Sì, invece”.
“Mi avete condannato ingiustamente. Lo ammetto, ho sbagliato qualche volta, ma niente di così grave da meritarmi il fuoco eterno”.
“Eh, dite tutti così”.
“Voglio provare ad attraversare il ponte!”.
“Ti ho già spiegato che sarebbe un tentativo inutile. Concediamo la prova solo a pochissimi, quando sussistono dubbi sulla loro condanna. Nel tuo caso invece…”.
“Non è vero! Sono certo che riuscirei a farcela”.
“Sei proprio deciso? Non pensi ad altro, vero?”.
“Voglio andarmene da questo maledetto posto. Sono stato un buon cristiano, non merito la dannazione dell’inferno”.
“Un buon cristiano?” Il diavoletto scuoteva la testa e si prendeva gioco di me, poi inaspettatamente disse: “E va bene, ti concedo la prova. Preparati”.
Sgranai gli occhi, incredulo. “Davvero? Non mi prendi in giro?”.
“Sbrigati, prima che cambi idea”.
Mi sollevai da terra e guardai ancora in direzione del ponte: rappresentava la libertà. Riuscire ad attraversarlo significava sfuggire alla condanna del fuoco eterno. Si stagliava ad arco sopra le lingue di fuoco che tentavano di farlo sciogliere, ma esso resisteva e rimaneva a brillare, bianco, lucido, per acuire la sofferenza di noi dannati che trascorrevamo il nostro tempo ad ammirarlo, emblema di ciò che avevamo perduto.
“Allora, ti sei addormentato?” mi spronò il diavoletto. “Cosa c’è, ci hai ripensato?”. Se hai paura, sei ancora in tempo a tirarti indietro”.
“Scherzi?”.
“Bene. Prenditi la cesta”.
“Quale mi dai”.
“Quella di vimini, la più leggera. Vedi che in fondo non sono poi così cattivo. Eh! eh! eh!“.
“Grazie“.
Era odioso con quel suo perenne ghigno beffardo, ma rimasi zitto sperando di rabbonirlo. Mi caricai la cesta sulle spalle e mi avviai: era leggerissima. Questo servì a darmi coraggio. Sospirai, il cuore mi batteva forte per l’emozione. Era la mia unica occasione. Il diavoletto mi svolazzava sopra la testa come un calabrone fastidioso, stranamente mi infondeva coraggio. Non riuscivo a comprendere se era sincero o si divertiva a prendermi in giro. “Dai, sei in gamba! Non ti facevo così caparbio. L’importante è riuscire a superare la prima parte, quella in salita”.
I miei piedi scivolavano a contatto con il ghiaccio, annaspavo cercando invano una presa a cui afferrarmi. Gocce di sudore mi colavano dalla fronte, la paura mi attanagliava le gambe ma, nonostante ciò, faticosamente proseguivo. Il diavoletto cominciò ad incalzarmi: “Ti ricordi? Ti ricordi quella volta che rubasti nella bottega del rigattiere?”.
“Ero bambino allora, non sapevo quello che facevo”.
“Erano tutti i suoi risparmi. Il vecchio morì d’infarto per la tua azione”.
Piegai il capo per la vergogna.
“Toh, prenditi il primo mattone”. E dall’alto lanciò il mattone dentro la cesta, facendomi rabbrividire. Cercai di affrettarmi ma i miei piedi scivolavano e dovevo stare attento a non perdere l’equilibrio.
“Ti ricordi a quella festa di compleanno?”.
“Quale festa?”.
“La ragazza che aveva bevuto un po’ troppo. Era in crisi, aveva litigato con il suo fidanzato”.
“Ah sì, mi pare. Mi offrii solo di accompagnarla a casa…”.
“Ci hai provato in macchina. Era la donna del tuo migliore amico”.
Ammutolii.
“Sei un gran vigliacco”.
Chiusi gli occhi aspettando il tonfo del secondo mattone.
Da sotto, le fiamme scioglievano il ghiaccio ed io lo sentivo scricchiolare al mio incedere. Il peso dei mattoni rendeva più difficoltosa la mia prova. Temetti di non farcela.
“E gli anni del carcere, li hai dimenticati? Quella povera donna, tua madre, che saltava i pasti per portarti le sigarette. Quante umiliazioni ha dovuto subire per colpa tua, lei così onesta, a venire in quel posto”.
Le lacrime mi rigavano il volto per la vergogna, il dolore, la fatica immane. Il terzo mattone arrivò con un fragore assordante, facendomi traballare.
“E la volta che testimoniasti il falso? E quell’altra…e quell’altra…e quell’altra ancora?”. La voce aspra del diavoletto mi assordava mentre i mattoni, uno dopo l’altro, riempivano la mia cesta. Caddi in ginocchio, non riuscendo a sopportare lo sforzo. La lastra di ghiaccio cedette e sprofondai sotto il peso dei miei peccati.
©
Salvo Zappulla
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