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Ci fu un periodo (cinque o sei anni fa) che, in parrocchia, da qualunque discussione si partisse, si finiva inevitabilmente di parlare di sfruttamento della prostituzione. A sua (parziale) discolpa c'è da dire che Don Alberto le tentava tutte per scegliere gli argomenti più alati che gli venivano in mente, o che erano proposti da "Famiglia Cristiana", "Città nuova", insomma dalla stampa specializzata. Sarebbe ricorso anche a Frate Indovino, se l'avesse tirato fuori da quel problema: ci voleva una praticità da conventuale che, in tutta franchezza, egli sentiva di non avere. Il sesso degli angeli era già troppo para-erotico, si potevano tentare gli angeli senza sesso, ma in effetti l'ipotesi più praticabile era quella di lanciarsi nell'esplorazione del librone del catechismo, quello senza tagli né sconti, così che almeno un'idea vaghissima delle implicazioni delle Tavole della Legge restasse ad aleggiare nella sala, come una farfallina (un po' in stile "tafano degli Ateniesi"). Tutto inutile: si finiva sempre con quello sciagurato di Stefano, che era però in fondo indispensabile alla disomogeneità del gruppo, a scandire su un ritmo piuttosto metallico: "Si-diver-tono! Me l'han-no detto a me!". Perché Stefano con loro ci parlava, forse le tormentava, ogni sua serata finiva su qualche stradone periferico a mettere in croce quelle poveracce, nell'assoluta convinzione, anzi certezza, che stare a sentire le sue scipitezze aggratis fosse quanto di meglio avevano da fare. Anche perché non rispondevano di no, e non lo trattavano male, di solito (poi, non erano solitamente nello spirito da chiamar la polizia). Le solite serate, parlare, "conoscere le loro storie, le loro avventure, andarci no, non vorrete mica che mi prenda qualche malattia", ma "sono soggetti interessanti, e poi loro sì che sono donne". "Nel senso che fanno" ripeteva cinicamente Stefano "l'unica cosa per cui le donne servono", mentre alcune delle ragazze del gruppo lo avrebbero volentieri incenerito: certe frasacce sarebbero accettabili da uno tipo Raul Bova, al limite Scamarcio, ma Stefano, ehm... insomma, lasciamo perdere (a parte che era stempiato come un lavandino in una discarica). Lo diceva, ma non ci credeva: mica cattivo lui, tutt'altro (andava in parrocchia, no?), è che essere ascoltato era una specie di esperienza nuova per lui, che aveva un padre e un fratello sempre certi come la morte, nonché stentorei. Era un ascolto coatto, nel senso che le ragazze avevano paura fosse un appuntato in borghese, uno della ASL (anche un incrocio tra i due, magari). Specie le nigeriane, quelle sulla Portuense dopo il Ponte Pisano, che parlavano sempre come se stessero nella savana (come parlava Stefano cioè all'incirca, quando voleva che qualche segreto della sua porca vita diciamo sentimentale si risapesse, per puro senso di giustizia verso quei pochi che ne erano ancora all'oscuro). E' chiaro che ci sono i papponi, i magnaccia, per cui non si può esagerare con le confidenze. Ma lui era abile, sempre preciso e in certo senso solenne, ascoltando gli Earth Wind and Fire nella Punto color nocciola, a volte Tiziano Ferro, ma solo quando si sentiva in vena, cioè aveva rimediato (non con una a pagamento, è ovvio). Punto nocciola che restava nascosta in qualche cespuglio solitario, ma non troppo spinoso, che non gli rigasse la carrozzeria. Una delle nigeriane, appunto, una di quelle sere (e Stefano aveva bevuto abbastanza da ricordarsene), era sparita; e non nel senso che l'avevano tolta dal mercato, per così dire, od era partita col primo volo per la savana. Era una dissoluzione vera e propria, tanto che nemmeno le colleghe sapevano che fine avesse fatto. E per colmo di sfiga era proprio quella cui Stefano aveva elargito un racconto molto dettagliato della sua relazione con Iolanda, la ricciolona che somigliava a Manuela Arcuri, cioè aveva una sola cosa della Arcuri, insomma quella più evidente ad un'analisi sommaria (remote sensing). La nigeriana all'ascolto aveva un'espressione molto liquida, praticamente cioccolato fuso, forse perché Stefano le stava virtualmente maciullando la mandibola (ed altro) a forza di gridare, in una fratta sulla Portuense a gennaio (meno tre ed insolito, ma intonato, vento di tramontana), quello che Iolanda era, e che aveva e non aveva, e quello che avevano fatto nella Punto nocciola (e sì che la ragazza color cacao una pallida idea doveva avercela: per puro senso di professionalità, se non altro). Per dare rilievo alla spiegazione, Stefano si lanciava a volte nelle lingue, una via di mezzo tra il Berlitz e l'inglese medio Trambus, o nel francese, come si diceva, cuscè. Insomma, la sdraiò di chiacchiere, e malgrado lei sorridesse vagamente (forse pensando che massacrare a colpi di fratta un appuntato in borghese può non essere una buona idea), fu convinto di averla sfinita, ma di esserle simpatico (sic). Alla faccia di Iolanda e dei suoi due arcuri velenosi puntati contro il suo sterno. Il fatto è che Stefano in parrocchia ce l'avevo portato io: e devo anche ammettere, nella mia ostinata ingenuità, che non avevo valutato correttamente i suoi trascorsi nigerian-portuensi. L'entusiasmo con cui accolse la mia proposta di partecipare agli incontri del giovedì sera mi aveva quasi commosso: sapevo che c'entrava l'idea di incontrare qualche ragazza (perché, a parte la saga iolandiana, sui dettagli della quale si era premurato di informarmi a suo tempo, era da anni a corto, in secco, in bianco, ecc.), ma speravo non mi facesse fare troppe brutte figure (qualcuna gliel'avrei perdonata, lo so). Perché si sa com'è la ragazza di parrocchia (o almeno quelle del mio gruppo): non è che non lo faccia, anzi possiamo dire senza ombra di dubbio che, una volta trovata la persona più o meno adatta e passabile, lo fa. Ma parlarne, ed in quel modo che Stefano prediligeva, non era socialmente accettabile: più che altro, le avrebbe fatte scappare, come anatre sul fiume al primo rinculo di doppietta. (Pensavo anche, allora, che la stessa Iolanda non avrebbe forse gradito una propria descrizione tanto minuziosa, specialmente in certi comparti, con una serie di metafore diciamo bucoliche: mi sbagliavo, ovviamente). Ma Iolanda, in quel momento, era il passato. Invece la ragazza della Portuense, quella che ascoltava, era scomparsa, sicché Stefano aveva ricevuto la visita di un vero appuntato e di un altro carabiniere: era appunto la sera dopo la sua ultima platonica scorribanda tra le fratte, ed una delle ragazze lo aveva descritto abbastanza dettagliatamente. (D'altronde, non c'erano in giro più molte Punto nocciola con la completa collezione di musicassette degli Earth Wind and Fire, rigorosamente piratata e seminata a vista col cruscotto). "Credo di essere nei guai" mi disse Stefano. "Beh, ma hai detto di averle solo parlato" "Sì, ma non ci credono, non ci si va per parlare, solo qualche maniaco lo fa, ed i maniaci sono tutti schedati" Mi stava aprendo un mondo: credo che a questo punto anche Don Alberto (il primo nome che mi viene in mente) si sarebbe detto interessato. Sembrava non la solita esaltazione della vita sulla Portuense accanto ad un falò, fatta dimenticando quasi tutte le circostanze generali ed accessorie: pareva insomma un discorso serio. Guardai Stefano con malcelato stupore, ed egli interpretò avventatamente il mio stupore come preoccupazione per il suo stato. Proseguì: “E considera che hanno una paura del demonio, di solito: per parlare ai Carabinieri, devono aver pensato che la loro amica abbia fatto una brutta fine” Sì, le sapevo queste storie, quelle che piacciono tanto ai giornalisti semicurvi: gli orribili delitti perpetrati da individui insospettabili. Che si dilungano in dettagli, tanto più in nanoscala, quanto più l’assassino non ha lasciato indizi, e non hanno dubbi, già dall’inizio, su chi sia stato a commettere il fatto. Poi cominciano il balletto delle tracce, delle impronte, si è lavato le mani, no, si è lavato anche la faccia, sì è fatto la doccia (eh, ma non da solo…), è sangue, no è ruggine, forse marmellata di mirtilli. E le ipotesi sul computer: ha scaricato un file alle 11.35, no, l’orologio era ancora impostato sull’ora di Londra, e poi il file si scarica anche da solo, comunque abbiamo clonato il disco (perché clonino i dischi, quando basterebbe copiarli, non so: capisco a posteriori che più di una volta mi hanno clonato la versione di latino al liceo). Così si scopre che aveva delle immagini equivoche sul disco rigido (più o meno le stesse che sono in vendita cartacea all’edicola sotto casa), salvate nella cartella “Nonna Giovanna”. Come confermato dalla vicina di casa, le sue nonne, oltre ad avere altri nomi, erano anche poco raccomandabili (una metteva il parmigiano nel risotto alla pescatora, l’altra giocava al lotto sulla ruota di Napoli), il che non ha mancato di insospettire gli inquirenti. E’ chiaro che al mondo succede anche altro, ma di quello i giornali non parlano. Decidemmo di passare a nostre indagini private immediatamente: non sapevamo ancora, purtroppo, che era già tardi. La fratta portuense era scandagliata palmo a palmo da una telecamera portatile del TG della sera. Ma a parte un paio di bottiglie di plastica ed una nutrita collezione di preservativi colorati, non ne tirarono fuori nulla. In apparenza, almeno: e comunque mezz'ora dopo avevamo la riunione del gruppo della parrocchia. Non avevo mai visto Don Alberto sarcastico: arrabbiato nero sì, fumante spesso, perplesso poteva capitargli, e dubbioso lo era di regola. Ma il sarcasmo non pensavo fosse roba da preti (ancora una volta mi sbagliavo, come su Iolanda). Guardò Stefano e disse: "Allora, si divertono, eh?", e l'infame mio amico ebbe un'espressione un po' tra Franti e Elisa di Rivombrosa. Non è facile da immaginare, ma è la similitudine più vicina che mi viene: Franti con la fionda in mano ed il gonnellone, che scappa, mentre il maestro con la penna rossa lo insegue. Molto sessualmente bi-partisan, in certo senso. Credo dipenda dal fatto che ho da lungo tempo l'idea, probabilmente semplificata, che Elisa, che è poi la Vanessa di Richardson, quando non vuole farlo, scappa (non nego che questo abbia una certa logica). Lo farebbe anche più spesso (diciamo continuamente) se non fuggisse; cosa strana, perché nel momento che lo fa, le piace molto (ammettiamo che non lo sapesse, all'inizio: ma alla terza serie dovrebbe ormai conoscersi un pochino). Ecco, la presenza di Franti potrebbe essere una spiegazione: incontrare un amante gallonato davanti ad un bulletto sabaudo che armeggia con la fionda e i cartoccetti è leggermente ansiogeno, specie, credo, se si indossa un gonnellone. Ma mi rendo conto che ho fuso i due personaggi, cosa che probabilmente piacerebbe al ragazzo fiondaiolo: sulla dama settecentesca non mi pronuncio. Comunque sia, Don Alberto tenne per tutta la riunione un atteggiamento molto spumantesco, non nel senso che frizzasse particolarmente, ma per il fatto che non riusciva a ricucire il discorso (gli si sporcava sempre di schiuma). Finché Sandra, che era poi la nostra Elisa, se non altro per gli occhi chiari e il viso ovale e composto (avrei dovuto provare se scappava alla bisogna, ma non è il mio tipo) disse: "Sai, Alberto, io credo che siano cose che noi qui non riusciamo a capire bene". Don Alberto si fermò, pensoso: non credeva esistessero cose che non fossero scritte in quei cinque metri quadri di libri del suo studio; certo altre se ne aggiungevano ogni giorno, e poi c'era la TV, Internet, eccetera, ma insomma la sua conoscenza era aggiornata in tempo reale, con trascurabili lacune. Però insomma Sandra toccava un punto dolente, e forse diceva le stesse cose che avrebbe detto Stefano, solo che i modi erano un po' diversi e produssero in lui un effetto differente: come spostare un bicchiere con una mano o con una ruspa, anche se il risultato forse è lo stesso. "Già" proseguì "è un mondo complesso: e si fatica a girargli intorno. Ma dobbiamo provare, da cristiani" E fu una frase che sfilacciò ogni cosa: si seppe dunque, incidentalmente, ma non a caso, che Gianni aveva dato mezzo euro ad un tipo strano (forse un drogato) che aveva finito la miscela del motorino, e che Andrea aveva lasciato i volantini della caccia al tesoro parrocchiale nel temibile ambiente della cappella della stazione. Pregavo che Stefano non se ne uscisse che con mezzo euro non ci si compra neanche un etto di mortadella, e che alla bisca della piazzetta, non alla stazione, andavano portati i volantini. Perché il buon senso non è sempre roba da parrocchia: alle volte bisogna sentirsi buoni, anche se si fa meno di quelli che sanno di essere cattivi. E poi, diciamolo, Don Alberto un'altra serata sulle solite tematiche non l'avrebbe retta, ora che quella ragazza era scomparsa. Ma Stefano tacque, e l'ombra di Franti si era dileguata dal suo viso: restava quella di Elisa, il che, fosse stato anche solo per l'estetica, era pur sempre un guadagno. Ci congedammo dal lividore della notte parrocchiale, decisi a riguadagnare il tempo perduto, recandoci nella zona già illustrata dal bieco servizio degli scagnozzi del giornalista semicurvo. In quel periodo (sono passati solo cinque anni, ma mi piace dare un po' di profondità al discorso) mi ero comprato una cinquecento, che era sempre in riserva, perché non avevo mai i soldi per mettere benzina, inoltre, dato che il cofano chiudeva male, la mia macchinetta veniva utilizzata dai ragazzini della zona per dare un po' di birra alla miscela dei loro motorini. Stefano non approvava che fossi in riserva, per una serie di motivi che, mentre lasciavamo alle spalle l'incombente palazzone grigio di un chilometro e ci avviavamo verso la relativa quiete suburbana della Portuense, mi elencò. Non ricordo se fossero ventotto o trentadue motivi, comunque mi fece una disamina complessa e totale di ciascuno di essi: gli unici che ora mi ricordo erano che "raccatti tutto lo sporco del serbatoio" e "le ragazze non verrebbero mai con uno in riserva". Potevo accettare il primo, anche se dopo un paio d'anni di riserva, nel serbatoio ci potevi ormai mangiare una frittura di pesce, ma il secondo mi sembrava frutto della sua contorsione mentale: se le ragazze non venivano con te, non era perché avevi poca benzina. Certo, ammettevo, una sosta forzata per mancanza di carburante nei pressi del Ponte Pisano poteva rappresentare un inconveniente in più nella relazione. Ma io sapevo quantificare la riserva: c'è la lucetta intermittente, quella che smette se freni, e poi quella che non smette neanche se inchiodi. Dopo questa terza fase, restavano da percorrere una trentina di chilometri col piede leggero. Di solito, nell'eventualità improbabile che una ragazza che avesse un minimo di trasporto per me (e viceversa) si trovasse seduta al mio fianco, all'inizio della terza fase occorreva cercare un benzinaio. Non qualunque benzinaio, però: quelli troppo vicini a casa conoscevano la mia macchinetta, c'era qualche basista che avvertiva i ragazzini, ed il serbatoio veniva svuotato in meno del tempo necessario a riempirlo (sapevo di un paio di "poeti del risucchio" nella banda sotto casa mia). Quindi bisognava allontanarsi: ovviamente, di meno di trenta chilometri (di solito due o tre bastavano). Cercai, nel tempo residuo, di spiegare queste cose a Stefano, ma lo vedevo sorridere, forse anche un po' sarcasticamente. Devo essere onesto, a questo punto: non ho capito che ci andavamo a fare, nella fratta sulla Portuense. A meno che qualcuno non avesse lasciato una traccia, che so, un CD degli "Earth, wind and fire" e non volesse farla sparire. Ma, una volta passata la squadraccia del giornalista semicurvo, c'era poco da trovare. E poi, era buio, e neanche la luna s'era affrettata per noi quella sera (non che ce lo meritassimo, ma un po' ci speravo in verità). Stefano, che era un profondo conoscitore del poliziottesco anni '70, mi disse, anzi mi intimò di accendere i chiamiamoli pure abbaglianti della Cinquecento. "Si scarica la batteria" replicai, e Stefano ebbe una smorfia che mi ricordava Thomas Milian, anzi no, Bombolo, un'espressione blesa. Sì, era una risposta mediocre, lo ammetto; lui mi ringhiò qualcosa in ritorno. Eseguii, pensando se avevo mai conosciuto un elettrauto aperto all'una di notte. Stefano mi apparve splendido nel piccolo cono di luce: "Tutto qui?" urlò. "Eh..." "Potevo portare la Punto, ma mi si riga la carrozzeria" "Serve per molto, la luce?" "Certo che sei un miserabile" "No, un povero autentico" "Fammi dare un'occhiata intorno" e disparve fin dove lo guidava la luce dei fari, cioè circa dieci metri più avanti. Passarono alcuni secondi, io pensavo sempre agli elettrauti di turno, finché non lo udii esclamare: "Vieni, Mauro, è bellissimo!": per un attimo pensai che avesse trovato un mosaico imperiale. Misi la retromarcia, tirai il freno a mano, che grugnì come se fosse l'ultima volta, e scesi. Aveva ragione: lo spettacolo valeva la pena. Dietro la prima cortina di canne e arbusti, a destra c'era uno spazio lindo e tirato a lucido, perfetto, una specie di Wembley in notturna. Tutto quel che c'era, e molto che era stato portato lì apposta, era invece a sinistra: preservativi, siringhe, scatole di medicinali, bottiglie, lattine, fazzolettini di carta, Pagine Gialle, libri della collezione Harmony quasi intonsi, Topolino, mozziconi di sigaretta, una decina di Guide TV. "Però, che fari, eh? Illuminato a giorno!" ero sinceramente orgoglioso della mia macchinetta. "Fari un par de... Guarda che me so' fatto" Lo guardai, sanguinava dalla guancia destra: "Con che?" "E che ne so? Se non c'avessi quella bestiolina, ma una macchina vera... Potrebb'essere un ramo spinoso, ma magari una siringa" e furono le ultime parole che disse per una buona mezz'ora: seguirono dei mugolii e qualche sommessa maledizione. Mi pare ce l'avesse con quelli che non hanno una lira e vanno in parrocchia, ma feci finta di non cogliere l'allusione: io non ho la coda di paglia. La bestiolina, nel seguito, si comportò bene: riuscii a disinserire il freno a mano, ed addirittura a farla ripartire, dopo tre o quattro colpi di tosse. Al Pronto Soccorso del San Camillo, Stefano riprese colore e purtroppo anche la parola. Nel corridoio, uscendo, mi afferrò per un braccio. Notai subito che parlava a bassa voce, doveva essere l'effetto del cerotto, ma comunque faceva strano. Disse: "Hai visto come lavorano quelli del semicurvo? Monnezza raccattata da mezzo mondo, e dove stanno loro a filmare, pulito come un campo da golf" "Beh, è metaforico" "Forse, intanto però è da fiji de 'na mignotta" "Frase che non dovresti dire, proprio tu, che fai sempre l'esaltazione della loro vita" "Boh, lascia perdere. La verità è che non mi capite. Nessuno" Il venerdì mattina che seguiva purtroppo immancabilmente alle riunioni del giovedì sera, era anche il giorno che avevo sei ore di lezione, e quindi a Trastevere prendevo il 6.52 per Civitavecchia. Non ci arrivavo proprio sveglio, bastava fossi passabilmente funzionante per le 8.10, ora della prima campanella, ed approfittavo del treno per fare un supplemento di abbiocco. Quel giorno, dato che m'ero coricato alle tre meno dieci, mi sentivo bagnato, gonfio e giallastro come una bustina di camomilla a mollo (verso l'alba aveva piovuto furiosamente, ancora l'aria sgocciolava nel vento). Avevo anche una borsa, che di per sé non era essenziale, ma mi serviva per disseminarvi, insieme a qualcosa per la scuola, qualche romanzo che mi andava di leggere al ritorno. Nello specifico, quella mattina avevo in borsa "Il grande Gatsby", che, sebbene si fosse parzialmente unto intorno a pagina 100, a ricordo di un recente panino con la mortadella che avevo impacchettato molto di fretta con dei tovagliolini di carta, restava un gran romanzo (anche se, per essere proprio sinceri, non ho mai capito come Gatsby sia morto, e specialmente perché: comunque è prematuro parlarne, perché quella mattina grigiastra e uggiosa ero solo ad un terzo, forse meno). Civitavecchia è una città che ha i suoi vantaggi: prima di tutto, piove raramente, e forse per questo lo spiovere è estremamente fascinoso di rumore di tacchi nel bagnato, di vento che s'acqueta e luce sbieca (o succede perché, pur insegnando topografia, sono un poeta). Più concretamente, c'erano i maritozzi con la panna dell'intervallo in un posto dalle parti di Viale Traiano; in pratica, Civitavecchia mi dava delle idee, e spendevo parecchi soldi nelle cabine telefoniche (non avevo ancora il cellulare) per divulgarle. Spesso erano idee mediocri, un suggerimento a qualche amico, una proposta per il fine settimana. In quel momento ero teso alla risoluzione del caso che mi premeva, con una certa vitalità residua e puramente fisiologica, un po' come le rane di Galvani. Questo perché quel giorno non ero sveglio neanche alle 11 (mi spiaceva per gli alunni del III A e III B, che avevano vissuto l'esperienza di una lezione di sonnambulismo geometrico), il che contribuiva alla mia sensazione molliccia e un po' ondulante di ebbrezza da Luna Park. Dormivo, forse sognavo: tanto è vero che vidi Stefano sul lungomare, che si fumava una delle sue innumeri sigarette (era odioso che fumasse, gliel'avevo detto cento volte, beh trenta, forse ventidue-ventitré, in ogni modo non aveva smesso). Il lungomare era ancora bello con tutti i suoi binari, i suoi carri merci e la rete aerea, una volta avevo anche visto una 835 al traino di due Centoporte castano-isabella (gran giorno quello). Poi hanno deciso che dovesse diventare normale (per conto mio piatto e insignificante), ed hanno rimosso tutto: per coerenza avrebbero dovuto anche piallar via pure tutte le auto, ma si sa che questo non è possibile, insomma non sta bene in Italia, non si fa. Certo, a non tutti piaceva così corrusco di impianti e di vita ferroviaria: per esempio Stefano stava fissando accigliato la scritta Attenti al sezionamento. Accarezzai per un attimo la malsana, ma in fondo seducente, idea che mi chiedesse qualcosa sulle correnti in alternata da 3000 volt, ma invece mi ringhiò quasi addosso: “Ma dove accidenti sei venuto a lavorare? Sembra l'inferno!” (ah sì, c'era anche un 143 che faceva la spola per assemblare dei mercini) “E poi il mare dov'è?” “In fondo, dietro il parco” risposi, un po' seccato nell'accorgermi che dalla sua bocca usciva più fumo che dallo scappamento della 143. “Parco lo chiama...” soggiunse con un certo disprezzo, come tra sé, aggiungendo poi: “Ma non dovevi uscire alle due?” “Difatti, ora sto per tornar dentro, ho solo otto minuti. Se ci facciamo la strada insieme, possiamo fare due chiacchiere introduttive. Alle due, se vuoi, ti porto a mangiare il pesce vicino al porto” Non amavo il fritto di pesce, cioè: i calamari e le seppioline, quella roba più o meno gommosa, comunque non da sezionare, sviscerare ed aprire, potevo tollerarli. Li mandavo giù, condendo con abbondante, anzi esagerato limone. Purtroppo, c'erano anche i gamberetti, quella specie di grilli marini che si aprono come lattine, cosa nella quale piace da queste parti mostrare una sostanziale, per quanto animalesca, abilità. E lì fingevo uno smodato senso di rispetto e di timore, e prendevo porzioni da scricciolo. Riducendo la questione all'osso, anzi alla chela, stavo portando un amico a mangiare qualcosa che non mi piaceva, ma che sapevo lui gradiva, e molto. Era puro altruismo? Non siamo ingenui: l'altruismo, per come la vedo io, è solo una versione più socievole della presunzione e della strafottenza (ho fatto una vita in parrocchia, e lo so). Avevo i miei scopi. “Nessuno fa niente per niente” mi aveva detto una volta Stefano. Tranne le ragazze del Ponte Pisano, occorre aggiungere. E penso lo confortasse molto il fatto che anch'io facevo qualcosa per qualcosa, cioè che malgrado tutte le mie arie, non ero esente da difetti (cosa che, devo dire, mi rilassava alquanto). Anche Stefano era a Civitavecchia con un obiettivo preciso, che aspettavo mi esponesse. Mi stupii che fosse venuto in treno, dato il suo rancore tipicamente italiota per qualunque trave di ferro con sezione a fungo. “Ho la Punto dal meccanico” disse cupo. Non replicai, sperando si rasserenasse. Stefano continuò invece su un tono, se possibile, ancora più torvo: “Mi è scoppiata una gomma sull'autostrada. Avevo fatto la rotazione che si fa ogni anno, l'avevo gonfiata, c'era un sole strano per gennaio, era quasi mezzogiorno. Ed appena fuori dal Raccordo, bum! Ma per fortuna, con una manovra da grande guidatore, sono riuscito ad accostare. Da centotrenta, quarta, terza, seconda. Quasi perfetto, peccato solo aver perso tempo”. Mi guardò aggressivamente: “Tu la fai la rotazione dei pneumatici sulla Cinquepiotte?” Ignoravo di cosa stesse parlando: riuscivo, con qualche sforzo, a localizzare la ruota di scorta ed il cric della macchinetta, avevo anche la bomboletta che ti fa arrivare dal gommista prima che gli altri automobilisti ti sbranino sulla corsia d'emergenza. La mia conoscenza del mondo pneumatico mi sembrava completa. Ora Stefano mi dimostrava che forse non lo era (non che mi importasse: speravo solo smettesse, se possibile, di guardarmi come un rifiuto indifferenziato). E, comunque (cosa che non osai dire) se ruotandole, le gomme scoppiavano, grazie, non mi interessava. “Sai l'anellino che avevo al dito? Sparito. Dall'ultima sera che avevo parlato con la ragazza, temo”. No, non sapevo, uno dei (tanti) motivi del mio insuccesso direi fisiologico con le donne era che non mi ricordavo come fossero vestite, pettinate, che scarpe portassero, figurarsi collane, anelli, e cose del genere. Figuriamoci con Stefano, che, come magari vi sarete resi conto da queste prime pagine, non era manco il mio tipo. E poi, Stefano era monotematico, quasi maniacale: se era uscito con una ragazza, tutta la sera era dedicata a lei (anche se stava parlando con me), nel periodo del militare non parlava che di mostrine, rancio, “cubo”, camerata, caporali, ecc. (almeno avesse parlato di tradotte, avrei potuto mostrare un po' d'interesse: ma pensate che Stefano sapesse se era trainata da una 424, da una 656 o magari da un diesel?). Così, dal momento che cercava un anello, lo descrisse da tutte le angolazioni, al punto da ingenerarmi il sospetto che avesse una forma dodecagonale o tetradecagonale. L'anellino lo rivedemmo molto presto, quella sera stessa al Telegiornale. Mio padre, da quando era rimasto solo, aveva sviluppato una certa dipendenza dalle notizie del piccolo schermo. Gli interessi si erano liquefatti, nipoti non ce n'erano, con un figlio unico e probabilmente (lo ammetto) immaturo per un rapporto sentimentale appena dignitoso; a volte riusciva a rimediare qualche lavoretto, specialmente traduzioni dal francese, e allora riprendeva un po' quota, leggiucchiava qua e là, capitava anche in qualche biblioteca pubblica: ma quell'anno, nove mesi su dodici li spese a guardare le stesse identiche litanie, recitate da voci monotone ed ansiogene. Non era mai stato un tipo da bar: riceveva qualche rara telefonata da amici, cui replicava molto di rado. Devo dire però che, a differenza della maggioranza del pubblico televisivo, papà, malgrado i suoi riflessi stessero degenerando in modo che mi preoccupava, credeva soltanto parzialmente a quel che la TV gli proponeva. Con una mentalità molto sperimentale, per correggere gli errori di un servizio televisivo, assisteva ad altri servizi televisivi, su altre reti: ecco, il fatto è che già qualche anno fa i servizi si assomigliavano tutti, già i titoli erano gli stessi ed a volte anche i filmati. Avevamo già cenato: cucinare per mio padre non era difficile, direi piuttosto inutile, e questo aveva depresso le mie capacità, invero mai eccelse, in quel campo, sicché non avevo superato mai lo stadio pasta con sugo della bottiglia di passata + fettina tictac con insalata a pranzo, ovvero minestrina col dado + piatto freddo la sera. Davo il meglio di me nella disposizione geometrica degli elementi del piatto freddo, oppure nel lavaggio dell'insalata. A volte riuscivo ad insinuare, profittando della distrazione di mio padre, un gambo di sedano nel brodo. Speravo che, un giorno o l'altro, mi desse l'OK per preparare una frittata, anche semplice, benché il mio ideale sarebbe stato, a dire il vero, farne una teglia con patate e falci di cipolla (ed anche mangiarmela, meno una fetta che gli avrei elargito, come dimostrazione della mia perizia). Ma invece, tutto ciò che usciva da questo schema ristretto, erano “pasticci” e uno che ha l'ulcera non si ciba di “pasticci”, specialmente a cena. Mi sfogavo preparandomi grandi fette di pane casareccio con su spalmata la marmellata di arance, e bevendoci su un caffé lungo, che saliva dal bollitore nel tempo che spreparavo la tavola. Erano due cose che mio padre disapprovava dal profondo del cuore, la marmellata d'arance ed il caffé lungo la sera, ma tanto lui si era già portato lentamente in salotto, ed aveva acceso la TV. Non quella sera: ci avviammo insieme, perché volevo uscire dopo cena, forse citofonare a qualcuno per far due chiacchiere, non sapevo. Avrei rigovernato al mio ritorno. L'anellino era ora in uno di quei sacchi neri che le forze di polizia scaricano su un tavolo davanti alle troupes televisive. Non fece una gran figura, l'anellino, perché era roba da lattina della Fanta, ma ebbe l'onore di un paio di secondi di primo piano a centro schermo. Questo mi ingenerò il sospetto che forse la malavoglia che avevo ostentato nella boscaglia la sera precedente per il recupero degli effetti personali di Stefano doveva essere solo dovuta alla mia scarsa familiarità con la bigiotteria, ma con ogni probabilità il vagare della telecamera era casuale. Frattanto il mistero sulla scomparsa della ragazza del Ponte Pisano, più che infittirsi, si stava aggrovigliando come un tessuto di fibre d'ortica (non so se ricordate la favola: c'entrano dei principi che sono cigni ed una ragazza di grande abilità all'uncinetto). Serviva riflettere, insomma concentrarsi: ma alcune sere dopo (era martedì e non avevo rivisto Stefano), per quanto sottoesame e pieno di ripetizioni per via della fine del quadrimestre, realizzai che ero impossibilitato ad agire come avrei voluto. Come lo capii? Fu per il regalo di compleanno di Valeria. Solita storia: colletta, chi va chi non va, in breve mi offersi io, e trotterellai verso la Upim. Forse Valeria, che era simpatica e gentile, si sarebbe meritata qualcosa di meglio, ma non ero proprio il tipo che aveva fantasia per gli acquisti: dare un incarico a me era come assicurarsi un lavoro sì ben fatto, ma per nulla al di sopra della media. Niente voli pindarici, nessuna ispirazione. Almeno ai grandi magazzini facevo in fretta, potevo calibrare il regalo sulla cifra senza avanzi né ammanchi, e tornavo verso casa per i miei vari impegni. Invece andare alla Upim fu una pessima idea, perché mi fece capire subito che stavo subendo una metamorfosi, temporanea sì, ma devastante. Ancora adesso non mi do pace: non sono ingenuo al punto da non capire cosa accadde, anche perché ne portai i segni per un tempo che mi parve eterno. Fu quando andai per pagare: c'era una commessa molto giovane con gli occhiali montati su della celluloide rosso-arancio, più o meno vagamente bionda, e decisamente molto magra, con una camicetta lilla che le lasciava scoperto un filo, ma veramente un filo di pelle alla vita: e solo se si sporgeva in qualche modo, cosa che ella fece pochissimo e senz'intenzione. Quando avevo dei problemi, ero solito andare a prendermi un tè da Paola, cosa che feci il giorno dopo. L'amica Paola, quella che guarda le cose da un altro punto di vista. Ecco sì, ma non avevo mai avuto questo genere di problemi. Paola sorrise: non c'erano molte cose che potevano stupirla, ma in effetti non mi aveva mai visto tanto sconvolto. Mi feci forza, almeno con Paola, e cercai di spiegarmi: "Ho avuto un istinto" "Di provarci: può succedere" sorrise Paola, mi sembrò con indulgenza. "Ma prima le avrei voluto strappare tutto, a cominciare dalla camicetta lilla" dissi in un fiato, e tacqui per lo sforzo dell'improvvisa sincerità. Non vorrei che credeste che sono il tipo che va in giro per la città a strappare camicette lilla, un colore che trovo eccitante come una vaccinazione; cioè, di solito no: ma quando, dopo aver pagato e per fortuna non avendo dato corso ai miei propositi, vidi un gruppetto di ragazze entrare nella Upim, e realizzai che il desiderio dello strappo persisteva, caddi vittima di una profonda prostrazione. Anche perché, sotto il neon sparato a manetta della Upim, il mio turbamento si vedeva (in basso, se avete presente) e mi sembrò che una di quelle ragazze sorridesse, forse di scherno. Vedete, io sono stato educato in un certo modo, e dopo una ventina d'anni di parrocchia, riguardavo tutto ciò che concerneva la sessualità come un incidente di percorso. Avrei voluto avere una ragazza, avevo avuto un paio di storie non esageratamente vivaci, ma insomma pensavo che la pubertà fosse passata da un pezzo: invece ne ebbi un supplemento, che durò circa una settimana e lese fortemente le mie abilità sociali. Per farla breve, mi alzavo eccitato, persistevo eccitato quasi tutto il giorno, e mi coricavo eccitato la sera. E notate che spesso, per tutta la giornata, vedevo ben poca gente, men che meno ragazze che potessero destarmi qualche interesse. "Forse sei represso" concluse Paola "come me, come molti da queste parti" Queste parti voleva dire nel gruppo di Don Alberto: comunque, che Paola fosse così diretta mi fece bene, e tornai al mio tè con maggior ardimento. Che c'entra questo con Stefano? E' che, dopo aver curato le sue ferite morali e fisiche, avrebbe voluto che "ci ritagliassimo" come mi disse "il nostro spicchio d'indagine". Ma io non avevo più la calma olimpica che credevo, ero agitato come una lampreda, e per giunta fantasticavo di strappi, bottoni e fettucce, come un merciaio in protesto. Perché, vedete, nel bene o nel male, l'energia che ci spinge, dico noi uomini, è di origine sessuale: sono duemila anni che cerchiamo di nasconderlo, ma la realtà ci è inoppugnabilmente davanti. Sì, anche i santi, anche i martiri, non parliamo dei religiosi, figuriamoci un poveraccio di studente fuori corso e supplente come me. Quel che è certo, è che il mio arrapamento globale e fuori programma non dispiacque a Stefano, anzi lo mise di buonumore, come un difetto che mi rendeva meno perfettino e più simpatico: "Magari" aggiunse "con questa spinta troverai qualche sguincia": ecco, con tutti i problemi che ci sono al mondo, dovevo anche sopportare Stefano che diceva sguincia, come se stesse masticando pan di Spagna. Simulai indifferenza. "Direi anzi che viene a fagiolo: perché ho ricontattato Iolanda, ora fa la giornalista, credo scriva su Repubblica o sul Corriere, mica su un giornaletto di quartiere come te, ed appunto stiamo per andare a trovarla" Sento che avrei dovuto gridare: "No, Iolanda no!", ma invece, come il pusillanime che sono, mormorai: "E lei ti vuole vedere?" "Deve ancora nascere una spitinfia che non mi vuole vedere" Credo volesse dire sì, comunque sia la prostrazione mi riprese violentemente almeno per il 99%, tranne il coso in basso, che sembrava vivere di vita propria ed avrei volentieri punito con un bagno nell'aceto. L'ingresso in scena di Iolanda che, per peggiorare le cose, si occupava anche di cronaca nera, quella aspra e legnosa, piena di schizzi, tipo splatter, fu abbastanza devastante per il mio 1%: una presenza abbagliante, un tailleur color banana con sotto un girocollo nero, una massa di riccioli castani di cui non si vedeva la fine, due scarpe a gondola modello Rialto e, sorprendendomi alquanto, era pure alta quasi quanto me, quindi parecchio più di Stefano, che sembrava sparire al confronto. Disgraziatamente, faceva pure abbastanza caldo, sicché Iolanda si tolse la giacca del tailleur: in quel momento capii tutto. Annaspai. "Un gran paio di tette" disse Paola senza perifrasi al nostro tè del giorno dopo. Ecco, non sempre mi piaceva che fosse così diretta, dopo anni ed anni di parrocchia pure lei, ed ancor meno mi piacque quando, per rinforzare il concetto, si volse verso di me con un mezzo sorriso: "O no?" Capii perché gli uomini sono inferiori, e mi ricordai di un libretto che avevo trovato in uno scaffale basso nella camera da letto di Stefano: "Como quitar (el sostén a una mujer)". Una lettura interessante, che avevo giudicato però un'opera di fantasia: ed in effetti, oltre a sembrarmi di poca utilità nel mio caso specifico di parrocchiante, non si arrivava a capire perché la faccenda dovesse essere così problematica da meritare una trattazione piena di classificazioni e tavole esplicative (e serissima, peraltro, senza un filo d'ironia). In realtà, ragionavo così perché non conoscevo Iolanda, malgrado i racconti (forse) esagerati che me ne faceva Stefano, aggiungendo che la passione amatoria era perfettamente proporzionata alle dimensioni fisiche: in quel momento, devo dire, mi stupì che il mio amico non fosse stato stritolato nelle (diciamo) spire dell'amante. Sempre che avessero veramente avuto rapporti: i racconti di Stefano, benché dettagliati, potevano anche essere degli abilissimi falsi (era già successo, e l'avevo scoperto per caso: andare a verificarne sistematicamente l'attendibilità non mi andava, anche perché erano uno per sera, ed avrei dovuto annotarmi i dati salienti di ogni storia). Paola mi incalzò, anche se con la solita discrezione: "E che cosa ha detto Iolanda, poi?": immagino che volesse scoprire che era un po' scemetta (o scemona, forse). Qualcosa disse senz'altro, ma chissà cosa. Non ero certo il più indicato a ricordarmelo, perché il mio coso stava dettando legge e avevo le meningi ridotte a gel per capelli, del quale, in ogni modo, Iolanda non sembrava aver mai avuto bisogno. Quel che ricordo dalla nebbia della mia pubertà morosa, è che il giorno dopo Stefano si presentò con un articolo, a firma I.C. (che stava per Iolanda Castellano): manco la forza di firmarsi per esteso aveva avuto. Però, a parte quello, all'articolo non mancava nulla, dico come genere giornalistico, anche se la tendenza allo splatter (immaginario per ora) era in fondo prevalente. "Era presente quella sera, la sera in cui Esiri Usiku scomparve. Era presente, ma lo ammette soltanto ora. E' passata una settimana, e sono giorni che pesano in un'indagine giudiziaria: eppure ha deciso di tacere. S.M., praticante legale, non ha dubbi: Esiri è stata uccisa. Lo dice, mentre guarda serio davanti a sé, quasi con durezza, gli occhi celesti che diresti inespressivi. Nessuna commozione. Eppure, è stato uno di quelli che più recentemente è stato visto accanto alla vittima: l'andava a trovare, le parlava, ci dice. Mi permetto di dubitarne: mostra qualche esitazione, forse un principio di reazione. Ma è un attimo. Riprende lentamente il suo discorso: troppo calmo per non essere in qualche modo coinvolto. Sembra recitare bene la sua parte" "Eppur si muove, no?" dissi a Stefano dopo aver completato la lettura (continuava per un'altra colonna e mezzo, ma il tono era quello). Non apprezzò. "Non sembro nemmeno io, io sono un emotivo. Comunque, grazie per il colore degli occhi. Credevo di averli verdi" "Grigiazzurri" replicai. "Non mi sembra il caso di fare i poeti" "Era una considerazione cromatica, non letteraria" "Cretina, se permetti" Inutile insistere: e, devo dire la verità, un articoletto tanto falsuccio quanto insipido, non credevo potesse fare gran danno. Beh, naturalmente mi sbagliavo un'altra volta. Mia mamma, voglio dire quando c'era ancora, mi diceva sempre: "Mauro, non strafare". Mi conosceva sul serio, lei. Strafare era prendere 10 al tema di letteratura, come anche mangiarsi diciassette ciambelline al vino, cose accadute entrambe, anche se in momenti diversi. Non perché mi sballassi, ma perché lo strafare escludeva il fare. Nel senso che per esempio per prendere 10 al tema mi ero assorbito talmente tanto che non avevo studiato per la settimana più cruciale, quella di fine quadrimestre, per cui il voto di italiano scritto si erse nella pagella come un relitto in mezzo a vaste macerie, ed anche le diciassette ciambelline avevano prodotto una contro-reazione, su cui non mi dilungherò. L'unico settore nel quale non strafacevo era quello connesso in qualche modo alle ragazze (posso ammettere che ero timidissimo?); per questo la storia della Upim era ancora più sospetta: forse ero stato colpito da una mutazione genetica on-the-spot. Quella notte sognai che Iolanda era stata colpita da un'inattesa passione per me, che sfogliavo freneticamente il testo spagnolo: mi svegliai in uno stato miserevole e troppo tardi per far qualcosa di buono. Mio padre si era affacciato, mugugnando qualcosa, e aveva richiuso la porta. Come al solito, l'amico Sigmund mi aveva rivelato i veri sentimenti per la chiomata, anzi chiomosa, giornalista. Occorreva che la rivedessi, anzi bisognava che scappassi il più lontano possibile. "E tuo padre ti ha detto che aveva telefonato Stefano" Bisogna dire che Paola è una ragazza perspicace: oggi poi ha comprato (così ha detto) il tè alla vaniglia apposta per me, perché sapeva sarei venuto, anche se un po' tardi. Paola la mamma ce l'ha ancora, ha una serie interminata di malanni, l'ultimo è stato la cataratta, ma ha una forza dentro di quelle che per fortuna non servono che raramente alle donne di oggi, una forza da cavare l'acqua da un pozzo semiarido ad un'ora di cammino da casa, se avete presente. Davanti alla mamma, che era silenziosa, ma insolitamente presente, riassunsi abbastanza celermente la vicenda notturna ed umidiccia. Paola mi sorrise comprensiva e fece un gesto rotondeggiante che, confesso, mi turbò abbastanza: pativo ancora le promesse negatemi nel sogno. Perché, credetemi, tra me e Iolanda non ci fu nulla: in certo senso eravamo a letto (almeno io), ma dire che fossimo insieme era forse troppo. La mattina presto, Stefano camminava verso lo studio dell'avvocato Bianchetti. Camminava, perché la Ritmo era ancora dal suo laconico ed infallibile meccanico. Aveva avuto una serie di guasti, culminati in uno splendido avanzamento di risposta dello spinterogeno che aveva portato il motore ad un fuorigiri (la relazione tra le due cose mi è poco chiara, nella mia macchinina lo spinterogeno è quella latta di pelati col gommino che si bagna quando piove: non so nella Ritmo, forse cambia la misura della latta). Era sceso dal 23, cercando di non sciuparsi il gessato: non so se avesse una gardenia all'occhiello, certo recava una grossa cartella da praticante legale sottobraccio. Era in ritardo, come sempre, quindi praticamente puntuale: per lunga consuetudine, dava ai clienti appuntamenti comprensivi di ritardo. Tanto Bianchetti, che un'emiparesi aveva reso, se non inefficiente, sicuramente molto orientato, anche politicamente, firmava tutto quello che gli portavano sotto, a qualunque ora e sotto ogni pretesto. Soltanto, inforcava gli occhiali per dare una mezz'idea di concentrazione, poi restava incerto e meditabondo per un minuto, un minuto e mezzo se l'atto era più di due facciate (si poteva cronometrare), infine sussurrava a mezza bocca un: "Bene, bene!" che si spegneva a tre dita dal foglio protocollo, e faceva un ghirigoro a sei zampette, come il simil-cane Agip. Allora Stefano e gli altri praticanti partivano al galoppo, e dopo un attimo erano già sul pianerottolo. Ci sarebbe voluta la porta girevole come nelle biblioteche (e nei saloon). Quella mattina invece, all'angolo di Lungotevere Arnaldo da Brescia una macchina accostò, come per chiedere un'informazione ad un passante: da essa scesero quattro individui con goffi maglioni scuri che placcarono molto delicatamente Stefano e lo introdussero in posizione carpiata sul sedile posteriore. Una scarpa rimase sul marciapiede, tra una sparuta pozzanghera ed il bordo di travertino. Mezz'ora dopo, una troupe televisiva scendeva su quello stesso marciapiede, con ben altri mezzi che i muscoli: fecero un primo piano rasoterra, oltre che sulle caviglie dell'inviata, che, come già sperimentato in varie occasioni, facevano accorrere come mosche il pubblico catodico. "Siamo a Lungotevere Arnaldo da Brescia, in una quieta mattinata romana: qui poco fa Stefano Palazzini, il maggiore sospettato per la scomparsa di Esiri Usiku, è stato fatto salire a forza su un'auto, e di lui si sono perse le tracce. Tutte: tranne questa. Una scarpa (inquadratura di collo pieno) elegante, numero 44: apparteneva a Stefano Palazzini. Stefano, ci permettiamo di chiamarlo così perché potrebbe essere uno di noi, stava andando al lavoro. Una mattinata qualunque, nella capitale, i soliti impegni di ogni giorno. Ma oggi, forse era scritto nel destino, non doveva essere un giorno come tutti gli altri per il praticante legale Stefano Palazzini". La proprietaria delle caviglie Auditel finse un mesto e un po' bieco sorriso, aspettando che la telecamera si dileguasse: la vista di quella scarpa le aveva messo voglia di liberarsi dei maledetti tacchi e metter i piedi ben in alto, magari anche in faccia all'operatore se necessario, in un cuscino di piume. "Grazie Corinna. Dobbiamo tuttavia precisare che, benché noi stiamo mostrando immagini della Capitale, non vorremmo che credeste che i fatti si limitano a quanto avete visto. Episodi come questo, anche più gravi ed esecrabili, si verificano ogni giorno, nelle strade e nelle piazze di ogni città, grande ed anche piccola, d'Italia. Una piega di inaudita violenza che ha colto il nostro paese negli ultimi anni, peggiorando mese dopo mese, nell'assoluta indifferenza, ci occorre dirlo con la forza e la sincerità che ci è consueta, dell'attuale compagine governativa" Ma non vidi il servizio che in replica la sera, per fortuna: Stefano era pur sempre un mio amico, mi dava i nervi tre volte al minuto, però aveva una sua forma di nobiltà d'animo, un po' nascosta e difficile da decrittare, ma indubitabile. Insomma mi sarebbe dispiaciuto. Invece, ricevetti una sua telefonata, dove mi implorava, in modo abbastanza inconsueto per lui, che lo venissi a prendere al commissariato in Prati. Partii con la macchinina, sperando che non chiudessero Stefano fuori prima del mio arrivo. Non credo di averci messo molto meno di sei ore-sei ore e mezza: per trovare il posto in tripla fila col botto (allora non c'erano ancora le strisce blu dappertutto) feci sei giri dell'isolato. Credo che ci fosse qualcuno che prendeva i tempi ad ogni passaggio, ma forse mi sbaglio. Avrei sostato con le quattro frecce, perché ero praticamente in mezzo alla strada, ma la macchinina ne aveva solo due, azionabili una alla volta, e sufficienti comunque a scaricarmi la batteria. Per dare una parvenza di indicazione simmetrica, aprii i finestrini da entrambi i lati, per cui cominciai a tremare dal freddo. Una signora col carrellino, diretta al mercato, mi vide e disapprovò silenziosamente. Stefano non mi sembrò turbato per l'attesa, solo mi sembrò strano che avesse una scarpa e una ciabatta, non secondo il proverbio romano, ma letteralmente. Appena salito, iniziò a parlare a mitraglia: "E' per la ragazza dell'anellino: m'hanno spiegato con una certa energia che sarebbe stato meglio che avessi chiamato il semicurvo, prima di fare le mie indagini nella fratta. Sembra si sia arrabbiato molto. Questa è la cosa grave. Ce n'è anche una meno grave, e cioè che pensano che l'abbia fatta fuori io" "E l'hai fatto?" Mi guardò come se fossi il tritone della fontana, con un pesce in bocca peraltro, poi piagnucolò: "Neanche tu mi credi più" "No, no, ti credo. Dico soltanto che capisco il loro punto di vista" "Punto di vista! Una scarpa nuova, con la tomaia in vacchetta" "Se ce l'hanno loro, la rivedremo presto. La scarpa, dico": era un po' nervosetto, ed era meglio precisare ogni frase. La scarpa in vacchetta ebbe, come previsto, anch'essa il suo quarto d'ora di popolarità: prima della scarpa, rivedemmo Iolanda, appostata sotto casa di Stefano con un microfono in mano, che stringeva distrattamente con entrambe le mani chiuse a conchiglia, e con strascico di operatore, muto e gestuale come uno di quei mimi delle farse settecentesche. Molto erotica (o ero io che ero ingrifato): i capelli erano gonfi ed enfatici come al solito, una specie di Gorgone o meglio una Zelda senza pupazzo ubriacone e presuntuoso di contorno. Più abbondante però dell'originale. "Che fai qui?" chiese Stefano, e, dato lo stato penoso in cui si trovava, mi sembrò molto appropriato, quasi elegante. Sorrise gioiosamente: "Mi hanno mandato ad intervistarti: dato che sei un assassino e ho la fortuna di conoscerti, non ho fatto fatica a farmi dare il servizio per un network privato: ho una consulenza. Oltretutto, gli altri non hanno ancora capito bene chi sei e dove abiti. Sono ancora una volta la prima: stavolta al semicurvo le immagini le vendo io" "Arrivi dappertutto" "Lo sai, no?" "Beh, allora che aspetti? Intervistami, e facciamola finita" Scosse la testa: "Non si fa così: prima sali, io citofono, e risponde tua madre, sgarbatamente e con accento pugliese, o siciliano, e mi passa te, solo perché insisto come una disperata. Il citofono si mette a gracchiare, non preoccuparti, abbiamo tutto l'occorrente, e tu rispondi di lasciarti in pace" Il mimo annuì servilmente. "Mia mamma è marchigiana, veramente" "Non fa nulla: avrà visto Placido, la Proclemer, qualche pugliese insomma, ci vuole quella leggera inflessione drammatica, ma non da attori come loro, da dilettante, da Filodrammatica. Però Banfi no, troppo caricaturale: sei un assassino, ricordatelo, un violento, forse perverso, e ti abbiamo citofonato mentre stavi in bagno. E comunque, basta che fate gli scocciati, al resto pensiamo noi" Confesso: non sono un violento (o non lo ero, prima di entrare alla Upim), ma desiderai per un attimo che la avvitasse al lampione, anche se, considerando la stazza di Iolanda, non era facile. Invece Stefano si piegò: nella terra del semicurvo, lo scoprii prono e disposto a tutto. "Siamo davanti alla casa dove si nasconde il maggiore indiziato del caso Usiku": l'inquadratura vagava spersa tra i nomi sul citofono, lasciando leggere i telespettatori, anche se circa a 60°, indugiando infine con voluta distrazione su Palazzini-Cerioni. Il ronzio del citofono, esagerato, caricato: "Pronto" "Signora, siamo della televisione: cerchiamo il signor Stefano Palazzini" "Non può venire" "Ma è in casa?" "E' in casa, ma non può venire" "Solo qualche domanda..." "Non insista, la prego, le ho detto che non può venire" "Come sta suo figlio?" "Non posso risponderle..." "Ha avuto l'ordine di non rispondere?" Segue rumore di colluttazione, grida sommesse e supplicanti, forse qualcosa in frantumi. La voce di Stefano tuona: "Pronto!" "E' lei Stefano Palazzini?" "Sono io, che volete?" "Cosa sa della scomparsa di Esiri Usiku?" "Quel che so, l'ho detto nelle sedi apposite" "Ha parlato con la polizia?" "Sì, ma non posso dirvi di più. Arrivederci" L'immagine balla, si allontana dal citofono, si perde tra le foglie di un platano, poi torna a Iolanda che si tiene i capelli scomposti nel vento: "Questo è tutto quel che siamo riusciti ad ottenere. Le indagini proseguono, anche se Stefano Palazzini, il praticante legale Stefano Palazzini, rimane l'unico indiziato per ora" Quella sera, Don Alberto non era più sarcastico: aveva ripreso la sua sostanza pretesca, con in più una certa solennità, che lo rendeva coriaceo anche da lontano. Si era tagliato nel radersi, ma questo non scalfiva la sua espressione meditabonda: fissava il posto accanto a me, che era rimasto vuoto, perché tutti pensavano prima o poi Stefano si sarebbe materializzato, forse per magia. Invece nulla accadde: con un atto d'imperio, un po' fastidioso, ma decisamente ecclesiastico, Don Alberto aveva cambiato la tematica della serata. Si sarebbe parlato della preghiera. C'era appunto un documento della Conferenza Episcopale che si attagliava molto bene al proposito. E finalmente (sollievo) non si sarebbe partiti per la tangente verso le strade consolari (o meglio, verso i cigli delle stesse). Si armò di una prepotente mellifluità, e cominciò a girar parole in tondo, aspettando che mi tradissi: sedette al limite dell'area, insomma. Ma io tacqui (in verità tutti tacquero: quindici persone, di cui dieci donne, e non una sillaba, per quasi cinque minuti, che scorsero pesantissimi; si udivano le rade automobili del tardi svoltare nel viale e, fra l'una e l'altra, lo stormire ondeggiante delle foglie: al terzo minuto una lattina rotolò, sola e triste). Finché, come era accaduto anche l'altra volta e dopo circa trenta secondi di muti tentativi, che incresparono la sua fronte di solito così liscia, Sandra parlò. Disse, senza ulteriori preamboli: "Vorrei pregare per una persona che stasera non è qui, ma che credo abbia bisogno del nostro aiuto di cristiani". Molto ben detto, pensai: avrebbe potuto aggiungere una locuzione del tipo "accusato ingiustamente", ma non si hanno gli occhi chiari e la fronte liscia per aver eccessivamente voglia di far la fine di Giovanna d'Arco, specie in prossimità del sabato sera. Comunque, questa fu la fine del suo intervento; ciò che fu anomalo, fu che Don Alberto sbuffò. Ora (e vi prego di credermi, dopo vent'anni di parrocchia) i preti normalmente non sbuffano, o almeno si premurano di nasconderlo (credo seguano dei corsi appositi in seminario). Infatti Don Alberto si riprese subito, e sublimò il fiato in preghiera (anche la Creazione iniziò così): "Signore, ti preghiamo perché Tu ci aiuti a capire i tuoi disegni. Anche quando ci sembra di aver fallito, perché una persona che avevamo affidato alle tue cure prende una strada che non comprendiamo, forse Tu vuoi insegnarci qualcosa, il cui senso ci è ancora nascosto. Svelacelo, se questa è la tua volontà. Amen" Poi prese, come in trance, a fissare un punto indefinito tra me ed il posto dove ancora lo spirito di Stefano (che suppongo fosse esprimibile da una delle sue solite frasi romanesche) aleggiava. Quanto questo durasse, non saprei dire: quel che so, è che fu più insopportabile dei cinque minuti precedenti; devastante, in una parola. Me lo ricordai qualche sera dopo, quando mio padre, arresosi a seguire il tronfio programma del semicurvo, "perché tutti lo guardavano, specialmente adesso", tacque anch'egli per vari minuti, mentre di solito punteggiava la serata televisiva, se non con parole, con starnuti e qualcosa che definirei genericamente come altri versi, tanto che ad un certo momento, pensai con orrore che mi avesse lasciato. E fu un sollievo, anche se un po' spaventoso che, quando stavo per alzarmi per verificare (avevo un velo di sudore sulle tempie), prorompesse in un tonante: "Tu conosci quel ragazzo di cui parlano, no?" Era comparsa una gigantografia di Stefano in costume da bagno, con gli occhi semichiusi perché accecato dal sole di luglio (ricordavo bene il fatto: era una foto che avevo scattato io, quindi tecnicamente nulla, oltretutto gonfiata a dimensioni insostenibili). Poi mio padre soggiunse, con una serenità agghiacciante: "Dì: non è che siete froci?" Disse proprio così: sembravo caduto in un film di Verdone con Mario Brega, sapete quel film quando lui si vuole sposare la figlia, e Brega, che sarebbe il padre di lei, gli spiega cosa farebbe, ipoteticamente, ad uno che ci provasse soltanto con la figlia, senza poi onorare i suoi impegni. Ma non avevo un padre-Brega, almeno non fino a quella sera, anche perché, nella fattispecie cinematografica, sarei stato fratello di un'Eleonora Giorgi giovane cosa alla quale, devo ammetterlo, non ero preparato, specie dopo essere passato alla UPIM. Non so cosa risposi: è uno di quei casi non ben decifrabili, nel senso che se dici sì, sembra una presa in giro (e comunque hai detto sì), se dici no, dipende: se lo dici nervosamente, vuol dire sì, se lo dici calmo, vuol dire che sei un freddo, un insensibile (e magari vuole dire sì lo stesso). Insomma, come la metti la metti, sei fregato. Non che mi interessasse: avevo un amico molto caro accusato di omicidio, e discutere di inclinazioni sessuali mi sembrava del tutto superfluo nella circostanza. Così non era però per il semicurvo, che doveva aver insinuato qualcosa, descrivendo i suoi soliti giri di parole, con la storia del costume da bagno. E mi rendevo conto che la foto, benché orrenda, così ingrandita mostrava con gran dettaglio un particolare che a quelli della TV evidentemente interessava. Arrossii (vent'anni di parrocchia, come dicevo) e farfugliando qualcosa, sparii in cucina, dove mi sparai tre fette di pane casareccio con la marmellata di mandarini (era in offerta alla COOP, e volevo provarla, confidando nella distrazione televisiva di papà). Dopo, mi sentii meglio, anche se iniziai a fare altri versi anch'io. "Allora" mi dissi andando a letto dopo una lunga seduta in bagno "domani tè con marmellata di mandarini da Paola", pensando che se Stefano, che non mi aveva più cercato, aveva anche ceduto la foto alla banda del semicurvo, era veramente finito. O era stata sua madre, dopo esser divenuta foggiana? Invece, l'indomani alle nove (stavo per uscire) mi chiamò Iolanda. Non passò molto tempo, e me la trovai in casa, che mi era seduta davanti. “Allora, come stai? Ci conosciamo poco, ma io so tutto di te, dagli archivi e dalle varie soffiate. Poi c'è quel tuo amico, l'assassino, che chiacchiera come una grondaia da una settimana” “Stefano non può aver ucciso” Iolanda sorrise, mettendosi di tre quarti, mossa apprezzabile peraltro: “Che abbia ucciso o no, non importa: è un assassino, come confermato ormai da palate di informazioni” “False: è tutto falso in questa storia” “E' vero, ed è comprovato, come ti dicevo” “E magari sai pure che fine ha fatto Esiri” Corrugò un po' le labbra verso l'interno: l'avevo colpita, anche se di striscio. “Non esageriamo” precisò “l'ipotesi più probabile, che ti lascio perché tu non sei ancora nessuno, voglio dire televisivamente parlando, è che se la siano riportata in Nigeria, o che sia fuggita coi soldi che aveva fatto con la sua attività. Probabile, non certa, ma in ogni modo nessuno andrà mai a verificare, perché la Nigeria è un caos endemico, e ci sono più Esiri lì che gatti al Colosseo” Ebbi una sensazione un po' strana, come un calore improvviso: “Quindi non c'è stato nessun assassinio” “Beh, no, l'assassinio c'è stato, eccome, tutti ne parlano da una settimana: poi, il corpo può trovarsi, o meno, può riapparire dopo anni, quando è necessario rianimare un po' la notizia. Non si fa fatica a trovare un corpo, sai, se si vuole davvero? Anche del colore giusto: è solo questione di tecnica, di esperienza. Il fatto certo, ed indubitabile, è che il tuo amico, o ex-amico, perché non è detto tu lo riveda tanto presto, è un maniaco sessuale ed ha infierito sulla donna scomparsa” La testa cominciava a girarmi, non so (perché sono un pusillanime, anche un po' bestia) se per il fatto di star vicino ad una donna agghindata (pur se professionale) ed indubbiamente attraente (stava dando il suo meglio) o perché non capivo più come uno poteva essere un omicida, se nessuno era morto. Aveva una camicetta lilla, e questo spiega qualcosa: stavo diventando un maniaco anch'io? Non ebbi neanche la forza di risponderle. “Il quadro è quasi completo, sai?” disse, posandomi una mano sulla spalla “Manca solo un dettaglio, ma importante: il malato, cioè il tuo ex-amico Stefano, non è un tipo da impresa solitaria, un uomo solo al comando; troppo estroverso, troppo pieno di vitalità, almeno superficialmente, troppo privo di segreti: un solo vizietto, ma sociale, conversativo, non patologico. Insomma, mi serve un complice, così chiudo il pacchetto e mando il tutto alla TV, prima della banda del semicurvo, che, se vuole, deve comprare da me. Da Iolanda Castellano, capisci?” Sì, capivo benissimo, e devo confessare che quella donna non cessava di eccitarmi. L'avrei picchiata con un mestolo, ma mi attraeva: alla larga! Ne era conscia, naturalmente, cosicché, dopo avermi portato al giusto grado di cottura, con un'ulteriore inclinazione del busto, aprì la borsetta e sparò le ultime cartucce: “E tu sei un complice ideale, fantastico: impeccabile, ma un po' liso e distratto, studente fuori corso, cucina per il padre, frequentatore della parrocchia, nessuna storia importante: sai che belle interviste verrebbero fuori coi tuoi colleghi cattolici, col tuo parroco?” non so, non ricordo se si sia fregata le mani, forse lo fece dopo, o forse l'aveva già fatto e non me n'ero accorto. “Ma se non c'è stato nessun assassinio?” chiesi, come a me stesso, sgranando gli occhi. “Capisco quel che vuoi dire: vorresti gridare, negare di essere il complice. Io però ho questa” Mi mostrò una foto, decisamente meglio di quella che avevo scattato a Stefano, anche se anche questa chiaramente amatoriale: c'era una ragazza coi capelli lunghi, di cui si vedeva forse un terzo del viso, ed uno voltato, vagamente riccioluto come me, ma che non ero io. I due forse si baciavano, di sicuro erano in intimità. Però la ragazza l'avevo vista: dove? “Non affannarti a cercare: la ragazza è quella che tu chiami Elisa di nascosto, in certi momenti, e che in fondo ti piace, anche se non lo ammetti” “Sandra!” gridai “ma come fai a saperlo?... Cioè: perché non ne sono sicuro neanch'io” “Tesorino, tu hai microspie dappertutto, anche nel portafoglio: solo nei capelli non ne hai, perché sono troppo radi”; aggiunse poi con decisione: “Insomma, se rifiuti, io mostro questa foto in parrocchia, e tutti ti vedranno nella foto, perché la TV li martellerà, e naturalmente il semicurvo ci metterà del suo, e sai di cos'è capace. Sandra sarà spacciata, perché l'avranno vista col complice del maniaco, e molto coinvolta, per così dire. Ah, dimenticavo: a casa tua troveremo un coltello da pane, l'arma del delitto, che il tuo amico Stefano ti ha affidato: ho già pronto il nastro della registrazione” “E poi?” “Poi, basta una coserella facile facile, tipo una foto di Sandra a seno nudo, anche in spiaggia, pur se a casa sarebbe meglio: a letto sarebbe l'ideale. Vedremo quel che si può fare” “E dove...” Non dovevo chiederlo: il corpo di Esiri, la foto di Sandra, la mia, che poi non era mia, quella di Stefano, il coltello da pane, tutto si trovava, tutto si poteva avere, in televisione. Non fabbricare: era tutto vero, lo avevano detto loro. Bastava essere arroganti e carismatici come Iolanda, in pratica farsi valere. Mi arresi, bisbigliai qualcosa, e come in un incubo, Iolanda sparì, ma prima mi disse, quasi materna (il fisico ce l'aveva): “Ecco, rimani seduto qui: ora arriveranno, tempo dieci minuti-un quarto d'ora che gli venda il servizio, prima la polizia, poi la banda del semicurvo. Forse arriveranno insieme, tanto si conoscono. Collaborano” Rimasi fermo in quella posizione, sul divano dove ero stato accanto a Iolanda: ora potevo sentire il ronzio della TV, non udivo le parole, ma capivo che davano delle notizie sul delitto di Esiri Usiku, e mio padre, silenzioso ma presente, se le stava bevendo, una ad una. Appena il flusso fosse cessato, avrebbe toccato un pulsante e subito tutto sarebbe ripreso dall'inizio, le stesse immagini, gli stessi volti, commentati con le stesse frasi. Mi ricordai all'improvviso di Paola, del tè, della marmellata di mandarini: non era ancora mezzogiorno, ma lei era sicuramente a casa, lavorava da lì, mentre accudiva sua madre, che ormai muoveva quasi solo gli occhi. Non avevano la TV, loro: era anche arrivata la Finanza a verificare l'anno prima. Al telefono le dissi che sarei venuto per le cinque, aggiunsi poi che sentivo di non poter vivere senza di lei, insomma (anche se mi era costato un po' di sforzo rendermene conto) che le volevo bene, che l'avrei voluta qui con me. “Anch'io” rispose: per la prima volta non mi sembrò comprensiva, né diretta. Invece la sentii piangere silenziosamente. Riattaccò senza salutarmi. La storia degli ultimi cinque o sei anni la conoscete tutti.
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Carlo Santulli
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Prefazione / Indice / Scheda
Ghigo e gli altri di Carlo Santulli
2007 pg. 204 - A5 (13,5X21) BROSSURATO
Prezzo Amazon 8.31 euro
Altre informazioni / L'autore
Pochi autori, come Carlo Santulli, sanno giocare con le parole, intarsiandole in piccole storie che si snodano tranquille (mai lente) attraverso una realtà quasi ordinaria e che, pure, riescono ad affascinare il lettore costringendolo a leggere fino all'ultima riga. Personaggi stupiti, a volte impacciati, si aggirano tra le pagine di questo libro, alle prese – come tutti noi – con le incongruenze e le follie del vivere quotidiano, non si abbandonano però all'autocommiserazione, non si ribellano, non cedono a tentazioni bohemien e, se cercano una via di fuga, questa è piuttosto interiore che esteriore. Un cammino, a piccoli passi, che li porterà, forse, verso un punto di equilibrio più stabile. Irraggiungibile (ma reale) come un limite matematico. Siano essi alle prese con una Quinta Arborea, un mazzo di chiavi che si trasforma nel simbolo di un'esistenza, un Clostridio tra i Pirenei, o passeggino, semplicemente, per le strade di una sonnolenta Roma anni trenta.(Marco R.Capelli)
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Prefazione / Indice / Scheda
Ghigo e gli altri di Carlo Santulli
2010 pg. 200 - A5 (13,5X21) COPRIGIDA
Altre informazioni / L'autore
Pochi autori, come Carlo Santulli, sanno giocare con le parole, intarsiandole in piccole storie che si snodano tranquille (mai lente) attraverso una realtà quasi ordinaria e che, pure, riescono ad affascinare il lettore costringendolo a leggere fino all'ultima riga. Personaggi stupiti, a volte impacciati, si aggirano tra le pagine di questo libro, alle prese – come tutti noi – con le incongruenze e le follie del vivere quotidiano, non si abbandonano però all'autocommiserazione, non si ribellano, non cedono a tentazioni bohemien e, se cercano una via di fuga, questa è piuttosto interiore che esteriore. Un cammino, a piccoli passi, che li porterà, forse, verso un punto di equilibrio più stabile. Irraggiungibile (ma reale) come un limite matematico. Siano essi alle prese con una Quinta Arborea, un mazzo di chiavi che si trasforma nel simbolo di un'esistenza, un Clostridio tra i Pirenei, o passeggino, semplicemente, per le strade di una sonnolenta Roma anni trenta.(Marco R.Capelli)
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