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Voleva che la sua vita scivolasse via leggera come un brano di musica pop. Certi pomeriggi metteva su qualche pezzo, che pensava potesse piacerle. Lei abitava al piano di sopra. Lui la sentiva camminare, i passi leggeri sul soffitto. Riusciva ancora a sentirla. In qualche modo erano connessi. Si erano già lasciati da qualche mese. Ma questo non significava niente. C’era qualcosa tra loro. Ancora. Passava le giornate in silenzio. Non poteva parlare. Temeva che lei, dall’altra parte lo sentisse. Nell’appartamento che avevano occupato per un anno e mezzo. Insieme. Ma poi se n’era andato. Lei credeva lontano. Lui invece, aveva preso il monolocale sotto casa. Non poteva fare a meno considerarla casa sua. La loro casa. All’amico, che gliel’affittava, aveva chiesto. - Non dire niente. - Non ti porterà niente di buono. - Forse hai ragione, aveva detto lui, ma poi, si era trasferito. La sentiva, alle sette si svegliava, per andare al lavoro. Sentiva la Lancia y bianca partire, dal parcheggio dietro casa. Si erano fatti un sacco di promesse. Forse era questo il problema. Avrebbero dovuto andare avanti e basta. Lei l’aveva fatto. Lui non ci riusciva ancora. In un certo senso, un po’ morboso e masochistico, gli piaceva quella situazione. Vivere per lei, nell’attesa costante di ogni suo piccolo impercettibile movimento. Lei apriva la finestra, lui trasaliva. Un brivido dolce lungo la schiena. Non l’aveva mai amata così tanto. Massimo, avrebbe dovuto cercarsi un lavoro. Era in bolletta da un po’. Avrebbe potuto continuare quella vita ancora per qualche mese. Svegliarsi la mattina, preparare il caffè, prima che lei si svegliasse, immaginare che in qualche modo, lei sentisse l’aroma al piano di sopra. Aspettare che se ne fosse andata. Uscire. Attraversare il piccolo corridoio di legno che dava all’esterno. Quello era un vecchio stavolo ristrutturato, occupato per la maggior parte da turisti, che venivano per le vacanze estive, invernali, le feste, qualche week-end ogni tanto. Lui saliva le scale dell’atrio fino al piano di sopra. Faceva scorrere la mano sulla loro porta. I suoi polpastrelli scivolavano sul legno di larice, come sulla seta. Gli dava una strana sensazione. Nelle mani rimaneva, come un sottile strato di vibrazione soffice. Era come se avesse toccato con mano il limite. Della sua vita. Della loro vita. Forse era soltanto il desiderio, a renderla così speciale. In fondo era solo una porta. Un mucchio di volte, l’aveva aperta, per potersene andare da quel posto, per respirare. Sbattendola, andandosene. I primi tempi, quando litigavano, alla fine, quando non litigavano nemmeno più. Lara era stanca di lui. Voleva che in qualche modo andasse avanti. Stavano insieme da quasi sette anni, convivevano da tre. Lei si era mossa, aveva conosciuto persone nuove. A lui non piacevano le sue nuove conoscenze. Non gli piacevano i suoi nuovi amici. Non gli piaceva la persona che diventava, quand’era con loro. Lui faceva, l’artigiano. Lavorava sopra i tetti, curava gli interni. Perlinatura, parquet, serramenti, tutto quello che riguardava il legno. Quando avevano comprato quell’appartamento. Lui aveva sostituito la porta di laminato, con una di legno vero. Aveva tagliato personalmente il larice. Un suo amico, aveva una segheria. Aveva tagliato una tavola di duecento dieci per settanta. L’aveva levigata, intagliata, trattata, dipinta. Lara tornando a casa, non se n’era nemmeno accorta. Massimo se l’era presa un po’. Gli aveva tenuto il muso. Avevano litigato. La prima lite da quando erano in quella casa. Poi però avevano fatto l’amore. In piedi contro quella stessa porta. La sua pelle sapeva di lavanda. Anche la mattina presto. Un profumo sottile e rarefatto, che aveva annusato, mangiato, bevuto, si era nutrito fino a riempirsi totalmente di lei. Amava la sua carne, amava le piccole smagliature sulle gambe, la pancetta morbida, amava il suo modo di ridire, di arrabbiarsi, di pensare, il calore del suo corpo, nel letto, contro il suo, amava il suo sospirare leggiero, le frasi appena sussurrate nel sonno. C’erano un sacco di ricordi, un sacco di immagini a cui aggrapparsi. Aveva esplorato il suo corpo, centimetro per centimetro, lo conosceva meglio di quanto conoscesse il suo. Credeva di conoscere anche lei. Ma si sbagliava. Lara voleva qualcuno più intraprendente, più ambizioso, più attivo, uno che prendesse la vita per il collo, la scuotesse fino a farsi dare quello che voleva. Massimo invece non sembrava voler niente dalla vita, se non quello che già aveva. E magari su questo aveva ragione. Eppure si era laureato, non era uno stupido, altrimenti non avrebbe perso con lui tanto tempo. Solo che gli mancava quella voglia, quella fame, il desiderio di emergere. Massimo affrontava la vita in maniera troppo passiva. Anzi non l’affrontava nemmeno, la subiva. Gliel’aveva detto in tutte le salse. Massimo non sapeva cosa rispondere. In fin dei conti era vero. Cosa ci poteva fare. Cambiare. Cambiare? Le persone rimangono sempre le stesse, nessuno cambia, veramente. Gliel’aveva detto, e adesso era finita. Veramente. E le cose erano cambiate per tutti. Non ne era sicuro. Per lui sicuramente sì. Aveva mollato il lavoro, fatto un mucchio di colloqui, ma la sua laurea in ingegneria civile, non valeva più come un tempo. C’erano un mucchio di giovani, freschi di laurea, con una voglia matta di arrivare. Lui voleva solo dimostrarle che si era sbagliata. Sul suo conto. Su tante cose. Sarebbe ritornato, con un lavoro, nuove prospettive, un futuro diverso per entrambi. Lara il sabato tornava a casa alle quattro. L’aspettava alzato. La sentiva. Camminare per il corridoio, alla ricerca dell’interruttore, un po’ ubriaca. Il suo corpo che cadeva pesante sul letto. Le molle che cigolavano. Era da sola. Ma non significava niente. Era stata con qualcuno, fino a quell’ora. Qualcuno che non conosceva, qualcuno che non era lui. Era geloso, anche se non ne aveva il diritto. Non più. Dopo due mesi. Massimo la stava aspettando. Domenica sera. Fuori stava scendendo il diluvio. Di quelli che vengono giù a Sauris, improvvisi violenti. Le sei, e lei non era ancora tornata. Guardava fuori dalla finestra, attraverso la sottile trama delle tendine bianche, cercando di non farsi riconoscere. Lei era tornata con qualcuno. Forse l’avevano soltanto accompagnata. La macchina non era la sua. Forse aveva bevuto e non se la sentiva di guidare. Quando stavano assieme era lei a portare lui a casa. Quando beveva un po’ troppo e cominciava a diventare noioso. Lo chiamava in quel modo, per non dire disgustoso, oppure patetico. Anche se lo pensava. Avrebbe anche smesso di bere, si sarebbe trovato un lavoro, una casa. Sentì la porta al piano di sopra aprirsi. Il rumore distinto di due persone. Ormai era diventato un esperto. Da mesi viveva più con le orecchie che con gli occhi. Sentì i due ridere, parlare. Forse aveva prestato casa sua a qualcuno. Forse non era lei. Eppure non poteva sbagliare, il suono cristallino della sua risata, quel modo di ridere così personale, unico. Le labbra che si inarcavano, il balenare dei denti. La risata più dolce che avesse mai sentito. Avrebbe voluto avere una figlia da lei. Con la stessa identica risata. Ci avevano provato, poi Lara aveva abortito. Preeclampsia aveva detto il medico. Lara era distrutta. Massimo non sapeva cosa dire o fare. Lei aveva perso parecchi chili, quella pancetta che tanto aveva amato se n’era andata, i lineamenti del suo viso si erano fatti più duri, angolosi. Massimo passava più tempo che poteva al lavoro. Sentiva che lei non lo voleva in casa. Odiava sentirsi così impotente e inutile. Poi col tempo, aveva ricominciato a vivere. Mangiava, usciva. Faceva lunghe passeggiate, fin sul Ruke. Trovò un nuovo lavoro. Adesso faceva l’assicuratrice. A Tolmezzo. Si era buttata a capofitto nel lavoro. Si era fatta nuovi amici. Ma non si era mai veramente ripresa. Massimo riusciva a vederlo. Quel velo di tristezza che copriva i suoi occhi verdi, una traccia di rabbia e delusione, che riposava in ogni suo gesto. L’aveva persa, aveva perso un sacco di cose. Era autunno sugli alberi, il quattro d’ottobre, il giorno prima del suo compleanno. Avevano pranzato, poi Lara si era sentita male. L’aveva portata al pronto-soccorso. Durante il viaggio, l’aveva rassicurata. - Vedrai non è niente. Lara non rispondeva. Era pietrificata dalla paura. Aveva aspettato ore in sala d’attesa. Poi era entrato. Lara piangeva. Il medico lo prese da parte. Sua moglie ha avuto delle complicazioni. Non si ricordava altro, delle complicate spiegazioni del medico A parte quel nome. L’aveva cercato su internet. .Preeclampsia, una forma ipertensiva della gravidanza, caratterizzata dopo la ventesima settimana da un aumento ipertensorio accompagnato da protoenuria. Aveva voluto dirlo lui, a Lara. Lei per questo l’aveva odiato. L’odiava ancora. Anche se non glielo diceva più. Quello era stato il giorno peggiore della sua vita. Peggio ancora del giorno in cui era tornato a pranzo, e l’aveva trovata. Seduta al tavolino di cucina. Le valigie già pronte. -Vado da mia madre, gli aveva detto. - Perché?, aveva chiesto lui. – Niente. – Voglio solo sapere perché, cosa ho fatto di tanto grave. Ti ho mai maltrattata, ti ho picchiata, ti ho tradita. – Forse, sarebbe stato meglio. - Meglio di cosa? - Lo sai. - Mi dispiace per te, mi dispiace per Angela, ma non è stata colpa mia. Mi rifiuto di sentirmi in colpa per questo. - Non è questo il punto. - E qual’è il punto? - Se non lo capisci da solo, non so cosa dirti. Silenzio. - Sei sempre lo stesso di sette anni fa. - Tu credi di essere cambiata invece, vestiti nuovi, un nuovo taglio di capelli, lenti a contatto, un nuovo lavoro, amici nuovi. – Già, tu invece cosa hai fatto? A parte dire che ti dispiace. - A me piace il mio lavoro, a me piacciono i miei amici. Perché dovrei cambiare? - E’ questo il punto. Così come stanno le cose, io non posso più vivere qui, io devo andarmene - Questa è casa tua. - Non più. - Sì, invece, te l’ho detto il primo giorno. Questa sarà casa tua per sempre. - Hai detto un sacco di cose. - Mi dispiace che la pensi così. - Anche questo l’hai detto parecchie volte. - Me ne vado io, piuttosto. Aveva fatto le valigie, e se n’era andato. Lara non aveva detto niente. L’aveva visto uscire da quella casa, senza dire una parola. Massimo si era trasferito per un paio di settimane da un amico, e poi lì, a soli venti centimetri da lei. Li sentiva sul letto. Lei ansimava piano, fra un po’ avrebbe iniziato a gemere più forte. Conosceva a memoria il rituale del sesso. Lei si faceva trasportare sempre di più, fino a perdere il controllo. Quante volte l’aveva spogliata toccata stuzzicata, titillata, giocato col suo corpo, solo per il gusto di osservarla mentre raggiungeva l’orgasmo. Gli piaceva farla godere. A prescindere dal piacere che ne riceveva in cambio. Era strano. Con le altre donne era stato diverso, aveva sempre e soltanto pensato a se stesso. Ma lei. Il suo modo di guardare, di respirare, di sorridere, di pensare. Avrebbe fatto di tutto per lei. Tranne lasciarla andare. Era salito, un gradino alla volta, senza pensare a cosa dire, a cosa fare. Si era ritrovato sulla porta. Aveva bussato piano, segretamente sperando che all’interno, non l’avessero sentito. Aveva aspettato in silenzio. Per qualche minuto. Era rimasto immobile, sperando di diventare invisibile, intangibile, un fantasma. Per un momento, desiderò di essere già morto. Ma fu solo un attimo. Ritornò nel suo appartamentino al piano di sotto. Mise una canzone, alzò il volume al massimo. She’s the one. La loro canzone. Quella che la radio mandava, quando si erano conosciuti. L’aveva qualche volta, in giro per il paese. Si era trasferita da qualche mese con la madre. A Sauris di sopra. La madre lavorava in pizzeria. Lei faceva la cameriera al Morgenleit. Lui l’aveva notata subito, i capelli corti, gli occhiali con la montatura viola, l’aria timida e un po’ spaesata. Era pazzo di lei, dal primo momento. Lara ci aveva messo un po’ di più. A innamorarsi di lui. L’aveva marcata stretta, l’aveva corteggiata a scapito della sua dignità, del suo amor proprio, e alla fine ce l’aveva fatta. Aveva ottenuto un appuntamento. Cena e cinema. Niente di impegnativo. E poi l’aveva riaccompagnata a casa. E alla radio c’era il Boss, che cantava. Erano arrivati da un po’. Fermi nel parcheggio, dietro la pizzeria. Nella macchina, parcheggiata da qualche minuto. Seduti, senza dire una parola. And her eyes that shine like a midnight sun. Oh-o she's the one, she's the one. L’aveva baciata, ed era iniziato tutto. Non così naturalmente come si racconta nelle storie d’amore, nei film e nelle canzoni. Ma qualcosa, aveva cominciato a muoversi. E nonostante tutto, lui credeva che quel qualcosa, potesse scattare di nuovo. Il cuore che batte più forte, il sangue che scorre più veloce, lo stomaco che si stringe, il cervello che smette di pensare, la vita che ricomincia. Lei era venuta da qualche minuto, l’altro aveva grugnito soltanto. La canzone era finita. Non c’era niente da fare, per l’amore e tutto il resto. Massimo sarebbe rimasto. Ad ascoltarla vivere e cambiare. Anche quando non ci sarebbe più stato niente per cui tornare. Perché lei era lì. E lui l’amava. Il Boss aveva ragione, aveva sempre avuto ragione. No matter where you sleep tonight or how far you run, Oh-o she's the one.
©
Massimo Siardi
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