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L'insostenibile leggerezza dell'etere
di Giuseppe Vella
Pubblicato su SITO
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Ore 23 e 30’ di un giorno qualunque. L’auto blu si infilò in Via dell’Anima e proseguì per Piazza delle 5 lune, la serata era splendida, di un fine aprile che sembrava maggio inoltrato. Le strade erano ancora piene di gente e la macchina doveva proseguire lentamente, facendo attenzione al traffico e ai pedoni. Svoltò per Corso Rinascimento e poi per Corso Vittorio Emanuele secondo. L’onorevole era stanco ed ansioso di poter andare a casa. Michele, il fidato autista, sentiva il suo fiato sul collo e, anche se non parlava, l’onorevole silenziosamente imprecava contro quella gente che, non avendo altro da fare, si metteva a viaggiare ed andava a fare turismo proprio a Roma dove lui aveva tanti impegni. L’onorevole non concepiva il viaggiare tanto per viaggiare, chi si muoveva doveva avere uno scopo, un obiettivo da raggiungere. Si doveva viaggiare per lavoro, per affari, per andare a trovare qualcuno, ma perdere il tempo per passare cinque minuti vicino alla Fontana di Trevi o vedere di sfuggita il Colosseo, spesso senza conoscerne né la storia, né le vicende, per lui era tempo speso inutilmente. Da qualche giorno sentiva dentro di se una crescente inquietudine, come se avesse un grande desiderio irrisolto, una mancanza di fondo, una insopprimibile esigenza umana che non riusciva ad esprimersi. Eppure non sapeva cosa gli mancasse davvero, quale era il motivo del suo disagio: non riusciva più, lui che aveva raggiunto tutti i suoi più rosei obiettivi, a provare piacere per le cose che aveva. Non riusciva a capire se il suo era un malessere leggero o un vero e proprio dispiacere dell’anima, qualsiasi cosa di buono gli capitava non era più appagante. Avrebbe voluto a tutti costi esorcizzare il dolore, uscire da questa sospensione tra luce ed ombra, avrebbe voluto gustare con entusiasmo gli aspetti più vitali della sua ovattata esistenza. Via del Pellegrino e Via Giulia per fortuna erano meno affollate, poi i tre vicoli, quello del Polverone, quello delle Grotte e quello del Giglio, finalmente fu in Via dei Balestrari. L’autista fermò la macchina e con il telecomando aprì il portone di casa, l’onorevole spense due dei tre cellulari, li lasciò sul sedile e scese dalla macchina. L’appuntamento era per le undici della mattina dopo. L’ascensore lo portò direttamente nel suo appartamento, non vedeva l’ora di spogliarsi, di mettere il pigiama, mangiare un poco di frutta, che avrebbe già trovata pronta sul tavolo della cucina insieme al termos dell’acqua calda per la camomilla, e mettersi a letto cercando di addormentarsi guardando un film. Prima doveva telefonare a casa, la moglie non sarebbe andata a dormire se non dopo il suo ritorno a casa. Erano pochi i momenti della giornata che poteva dedicare, sia pure da lontano, alla sua famiglia. Avevano così stabilito il rituale della telefonata mattutina e della telefonata prima di andare a dormire. Staccò il cordless dalla base e fece il numero di casa, con il telecomando accese la televisione in cucina e cominciò a sbucciarsi la mela. Cara, sono tornato in questo momento, mangio un poco di frutta e vado a letto. Problemi con i figli? Sicuro che tutto va bene? OK. Ti richiamo domani mattina, linea sette. L’onorevole Mario Rossi, padano ma non leghista, aveva ideato e realizzato un sistema di comunicazione anti intercettazione a prova di bomba. Incontrando Massimo D’Alema, dopo le note intercettazioni del “facci sognare” gli disse: quando vuoi, nel primo pomeriggio, faccio lezioni private su tecniche e metodi anti intercettazioni. D’Alema lo guardò con il solito sorriso che nello stesso tempo era amaro e ironico, proseguì continuando a parlare al cellulare senza rispondergli. Mario Rossi era perito informatico, aveva cominciato a fare politica quando il Presidente della Provincia di _______ lo chiamò per installare una piccola rete di computers, interna all’Amministrazione, alla quale potevano accedere solo lui ed i suoi Assessori. I soldi per realizzare la rete erano pubblici, anche i dati in essa contenuti riguardavano tutti i cittadini ma la rete di computers doveva essere a prova di intrusione e tutti i file ed i messaggi dovevano essere criptati. Solo i destinatari dovevano avere la possibilità di leggerli e nel caso di intrusioni, l’archivio centrale doveva autodistruggersi senza dare a nessuno la possibilità di ricostruire i dati. Il lavoro e la discrezione di Mario parlarono per lui, divenne ben presto consulente informatico della Provincia di _______ e consigliere personale del Presidente. Nella nostra epoca chi ha grande dimestichezza con l’informatica viene visto dai politici come una sorta di padreterno, se poi si aggiunge anche quella capacità, innata in alcuni, di saper essere complice e confidente allora è fatta, si ottiene la loro fiducia, li hai in pugno. Due anni dopo era Consigliere Provinciale, poi Presidente della stessa Provincia, Assessore alla Regione _____ e dulcis in fundo deputato. La televisione non trasmetteva nulla di gradevole, le solite inchieste giornalistiche ed i soliti talk show: non era serata. Si sintonizzò sulla parabola alla ricerca di un film che avrebbe dovuto contribuire a quello che lui definiva l’effetto “valium”: conciliargli il sonno. Santoro, Floris, Gad Lerner e sopratutti Ferrara gli procuravano nervosismo, ansia, orticaria, reflusso grastroesofageo. La sola vista di Marco Travaglio gli causava inspiegabili coliche biliari. Sentiva e vedeva i colleghi, che erano invitati come ospiti alle trasmissioni che questi giornalisti conducevano, come dei predestinati a figuracce o a dare ottima impressione di se, a seconda del feeling che avevano con il conduttore. Eppure, provava molta invidia per i politici famosi che, come il gioco dei quattro cantoni, passavano da una trasmissione all’altra senza stancarsi mai di apparire. Erano sempre gli stessi, dicevano sempre le stesse cose scontate ma erano onnipresenti. Erano come prostitute di alto bordo, si affidavano o facevano finta di affidarsi totalmente nelle mani del conduttore. Guai a non essere della banda o a dissentire dalla linea della discussione, il conduttore con premeditazione li portava, con l’aiuto consapevole o meno degli altri, dove voleva lui, li metteva in difficoltà, li faceva reagire e li infilzava come il toro nell’arena. Una volta finito provvedeva a tagliare le orecchie al politico che aveva interpretato il ruolo del toro o, se ben evidenti, gli attributi, per mostrarli come trofei al pubblico osannante. Uno dei canali stava trasmettendo il dottor Zivago, film già visto un milione di volte, cosa importava, una storia d’amore ambientata in tempi ormai passati era quello che ci voleva. Si versò l’acqua bollente nella tazza dove era stata amorevolmente riposta una bustina di camomilla, chiuse il televisore della cucina e si spostò in camera da letto. Accese il televisore posizionato in alto su una mensola della camera, si sintonizzò sul film, aggiunse due cuscini e si sdraiò sul letto accavallando le gambe allungate. Voleva a tutti costi far uscire dalla testa i pensieri della giornata, quelli che avevano animato le chiacchiere politiche, le richieste di favori e le cose che doveva fare domani. Voleva diventare il protagonista del film, uscire dal suo ruolo per entrare, sia pure per poco, in un altro personaggio, già vissuto nelle passate visioni, senza la trepidazione che danno le nuove storie, sapendo già come va a finire. Vedeva il dottor Zivago camminare a stento nella neve, cercava di provare la stessa sensazione di freddo, l’ansia del ritrovare la casa di Lara, il piacere di scoprire che la chiave di casa era sotto il solito mattone, dove c’era anche un biglietto per lui. La stanchezza che aveva addosso cercò di sentirla come la malattia del protagonista del film e poi il piacere di essere curato da Lara. Ma, il sentimento che il dottor Zivago provava, la passione, l’assoluto annientarsi per amore, il senso di colpa per il tradimento di cui era protagonista, l’amore per la sua terra, per il suo popolo, sentiva che gli erano del tutto estranei. Benché facesse di tutto per cercare di essere empatico col Juri del film, capiva, con rabbia, che le emozioni, gli affetti, le passioni, gli impulsi dello spirito, dell’io più profondo, se non sono dentro di te non te li puoi inventare e lui tentava, provava a scoprire cosa si potesse provare ad annullarsi per essere dediti ad un’altra persona. Voleva a tutti i costi, come Juri, sentire la voce dell’anima, ma niente, non gli riusciva proprio. Poi nel film arrivò Komarovskij, con la sua praticità, il suo intrigante egoismo e li capì che nella vita se si è pratici ed opportunisti, voltagabbana e trasformisti non si può essere protagonisti di grandi storie d’amore, non si può essere poeti: se si è Komarovskij non si può essere Zivago. Spense con rabbia il televisore quando Komarovskij, cacciato fuori da Juri, grida, mentre cade dalle scale: siamo fatti tutti della stessa creta…. Questa battuta del film, un tempo condivisa, gli era diventata insopportabile, anche da sentire solo. Aveva da qualche tempo cominciato a pensare che non siamo tutti uguali e che dunque non possiamo avere tutti gli stessi diritti. Una volta comandava la forza bruta, il diritto del più forte ma poi è prevalsa l’intelligenza, la furbizia, la scaltrezza. Perché chi prevaleva in intelligenza, furbizia e scaltrezza doveva sentirsi fatto con la stessa creta di chi le stesse qualità non ha? E, perché chi non ha queste qualità vuole avere gli stessi diritti, o per meglio dire, gli stessi privilegi di chi è meglio dotato? Si accorse, con rammarico, che nella sua vita il modo di vedere le cose era cambiato. Si chiedeva: - perché oggi penso in modo opposto a come pensavo ieri? - Sono cambiato io o sono cambiate le idee, o è cambiata la società in cui quelle stesse idee si muovono. - Ma le idee, quelle vere, quelle grandi, quelle forti, in pratica gli ideali, non dovrebbero essere immutabili? - Sbagliavo quando mi emozionavo al sentire “siamo fatti tutti della stessa creta” o sbaglio adesso che odio quella frase e tutti i pensieri, buoni o sbagliati, che si porta dietro? Restava immobile sul letto sorseggiando la camomilla e guardando fisso il lampadario spento. Si accorse che non erano poi tanti gli anni passati da quando pensava che solo la vita uguale a quella di tutti gli altri, la vita che sfiora e respira la stessa aria di tutti gli altri è vera vita, che la felicità derivante dal privilegio non è vera felicità. Allora cosa stava facendo? Perché era cambiato così tanto? Quale era il ruolo che il parlamentare doveva svolgere? Ripensò agli inizi della sua carriera, a quando era solo un consigliere provinciale. In quel periodo notava, con disappunto, le stranezze ed i capricci che gli allora privilegiati della politica facevano a spese dei non privilegiati. Quante volte aveva dovuto ingoiare, coram populo, un:”tu non hai capito niente” , dal politico potente di turno. Gli altri, i presenti, avevano preso, con pazienza, l’arroganza e la stupidità di questo personaggio, scambiandola per originalità, per stravaganza, molte volte per segno di carattere. Ripensò, ancora, che negli ultimi tempi aveva usato lui, l’arroganza e la stupidità, dando a chi non se lo meritava del cretino in pubblico. Avrebbe voluto parlare con qualcuno, l’ora non era delle più adatte. Se avesse accennato ai suoi colleghi più vicini i suoi pensieri sarebbero venute fuori battutine e derisione, gli mancava l’amicizia di un intellettuale. Poi pensava che un intellettuale vero avrebbe anche lui riso davanti ai suoi dubbi, gli intellettuali spesso fanno finta di avere dubbi ben più seri. Ma con chi confrontarsi, con chi trovare il coraggio di aprire un discorso che non è fatto di intrighi, di potere, di prebende, di sostegno a lobbie di potere o peggio ancora di pettegolume politico. Gli amici di partito o di cordata, i politici di sua conoscenza, gli sembrarono vaghi e confusi, privi di una vera personalità, di profondità di idee che li rendesse degni della funzione che erano chiamati ad assolvere. Eppure, quando era ragazzo e vedeva i politici solo dalla televisione, gli apparivano come uomini di grande genio e di grandi ideali. Erano cambiati col tempo o li aveva sopravvalutati allora? Capì che la televisione, i giornali, gli altri mezzi di comunicazione hanno un effetto distorsivo sulle persone. Come i bambini vedono grandi e protettivi le persone adulte, come gli appaiono immensi, spazi angusti di piccoli appartamenti, così la gente normale vede, o ascolta, chi appare in video o rilascia interviste, come persone di talento anche quando affermano autentiche banalità Ripensava a Zivago alla sua vita piena di affetti veri, anche nella assoluta solitudine. Nonostante bevesse camomilla sentiva salire dentro di se un nervosismo ed un’ansia che gl’impedivano di stare fermo. Scese dal letto e andò a guardare dalla finestra, in alto c’era un bellissimo cielo stellato, in basso, un poco più il la, dietro i tetti, si scorgeva parte della solita vecchia statua di Giordano Bruno che sovrintende Piazza Campo dei Fiori. Erano più di cinque anni che abitava in quella casa, che di giorno spesso passava per Piazza campo dei Fiori e non si era mai posto il problema di chi fosse la persona a cui era stata dedicata la piazza. Pensava: Ma chi era sto’ Giordano Bruno, cosa aveva fatto sto’ monaco per essere bruciato vivo in piazza. Accese il computer e digitò: www.google.it, e di lì cominciò le ricerche su Giordano Bruno. Trovò un vecchio articolo Giordano e i tribunali della coscienza del 17/07/1998 pubblicato dall’Avvenire e scritto da Roberto De Majo. Il dolore più grande di Giordano Bruno erano le istituzioni universali, come il cristianesimo, che perdevano il senso dell'infinito e si restringevano in regime. Ciò era l'opposto della sua via: Bruno infatti spezzò il cerchio del cosmo per dirottare l'uomo verso «infiniti mondi», ma anche attestò, sino al sacrificio della vita, che il mondo più esteso, sacro e inviolabile è la coscienza, dove si deve svolgere l'altissimo dramma dell'esperienza del vero. L’ultimo rigo: il mondo più esteso, sacro e inviolabile è la coscienza, dove si deve svolgere l'altissimo dramma dell'esperienza del vero, lo rilesse almeno dieci volte. Lui conosceva bene la matematica, la fisica, era in confidenza con i segreti dell’informatica, ma la filosofia non era mai stata pane per i suoi denti. Non aveva mai sentito il bisogno di studiare il significato della conoscenza, di amare la sapienza in se. A che cosa sarebbe servito, non gli avrebbe risolto alcuna faccenda esistenziale. La filosofia non ha un campo materiale d'indagine specifico, come le scienze empiriche, quindi, non l’aveva mai sentita adatta a se. Continuò a leggere l’articolo e si soffermò incantato sull’ultimo rigo: Fu dunque Bruno un martire? Fu certamente caso unico nella storia della martirologia: non morì per un'idea, né per una istituzione, ma per il pensiero in sé: per il diritto umano a pensare senza costrizione. Passò alle pagine di Wikipedia, una nuova scoperta: L'8 febbraio 1600 è costretto ad ascoltare inginocchiato la sentenza di condanna a morte per rogo; si alza e ai giudici indirizza la storica frase: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam» (forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla). Finalmente tornò a letto e si addormentò con “il diritto umano a pensare senza costrizione” che gli ritornava di continuo nella mente. Nel dormiveglia che precede il sonno si sentiva piccolo piccolo e disorientato come quando da bambino lo mettevano a dormire nel lettone dei genitori. Si sentiva oppresso da se stesso e non capiva di che natura era questa sensazione che gli si stava rivoltando contro. Non dormì molto serenamente, da qualche tempo gli capitava di rado.
©
Giuseppe Vella
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