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Capolinea
di Davide Procopio
Pubblicato su PBSA2021


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Capolinea

Non sapevo nemmeno in quale giorno della settimana o del mese mi trovassi. Era da troppo ormai che, persino il tempo, aveva perso quasi del tutto il suo significato. Vedevo il sole sbiadito della sera, a poche ore da uno di quei tramonti estivi così lunghi e lenti che sembrano non finire mai. Quasi con la stessa lentezza viaggiavo lungo le strade della periferia, attraverso gli scorci di vallate e di campi che a poco a poco venivano offuscati dall'ombra della sera. Lungo quelle curve, mentre mi accorgevo di quante volte mi fossi distrattamente perso la bellezza di quei paesaggi, provai come un brivido sempre più forte, mano a mano che mi avvicinavo alla meta. Non aspettavo altro che giungere a destinazione per potermi fare, ma continuavo con inesorabile lentezza, cercando di pregustarmi quel momento, persino nell'attesa. Riuscivo a sentire solo il rumore del motore della mia vecchia berlina, esitare ad ogni cambio di marcia, per le salite contorte lungo il solito tragitto, della solita strada, così mi decisi ad accendere la radio. Muovevo il cursore tra le frequenze alla ricerca di qualche stazione dal suono nitido, ma non trovai niente. Ero troppo lontano dalla città e nemmeno i ripetitori riuscivano a raggiungermi. Tenni quel ronzio torbido come sottofondo, preferendolo al suono annaspante del motore. Cercai l'ultima sigaretta del mio pacchetto un po' accartocciato nel cruscotto. Mi rendevo conto di quanto l'astinenza provocasse in me, una voglia smodata e ansiosa di fumare. Probabilmente sommerso dai documenti e da quel mucchio di carte che ogni volta mi dimenticavo di buttare, non riuscivo a trovarlo e continuavo a rovistare nervosamente dentro il cassetto, gettando a terra qualunque cosa vi trovassi, ma ancora niente. Tutto a un tratto il rumore della macchina, il ronzio dell'autoradio e persino quel paesaggio verde e rilassante che intravedevo tra i cespugli e gli alberi posti ai bordi della carreggiata cominciava a darmi sui nervi. Con fare frenetico, continuavo a frugare, trovando solo inutili fogli, pacchetti vuoti e una vecchia bottiglia di plastica ancora mezza piena, che subito, con un impeto, scagliai sotto il sedile. Finalmente, dal caotico disordine del cruscotto, venne fuori il pacchetto. Con una moderata e fugace soddisfazione estrassi l'accendino dalla tasca, girai la rotella e portai la fiamma verso la bocca. Solo per un secondo o forse meno distolsi gli occhi dalla strada, convinto com'ero di conoscerla ormai quasi a memoria. Rialzai lo sguardo proprio all'imbocco di una curva. Mi resi conto che il pedale del freno era bloccato e senza ragionare su cosa lo stesse ostruendo, con uno scatto, d’istinto, tirai la leva del freno a mano. Gli pneumatici erano ormai consumati dai troppi anni passati e la strada dissestata e sporca. La macchina perse aderenza e iniziò a scivolare bruscamente lungo il ciglio della strada, verso il dirupo. In un attimo di lucidità tentai di raggiungere lo sportello del passeggero, ma fortunatamente l'auto sobbalzò e si fermò. Dal parabrezza potevo vedere solo il burrone, sotto di me, sembrava esserci solo il vuoto. Volevo uscire ma ero come pietrificato e il sudore freddo misto di adrenalina e astinenza dalla droga mi scivolava lentamente sulle tempie fin sotto al mento. Guardando fuori, mi rendevo conto di essere finito, sul ciglio di un precipizio. La valle ormai quasi completamente oscurata dall'ombra, mi appariva come un buco nero pronto ad inghiottirmi. La mano e il braccio irrigiditi, tutti i muscoli, dall’avambraccio fino alla spalla, tesi in una morsa serrata sulla leva del freno a mano. Ero immobile, inerme, completamente bloccato. Non ero in grado di muovere un dito. Guardando a terra, sotto il volante, vedevo la bottiglia di plastica incastrata nel pedale del freno. Sentivo solo il cuore battere forte contro il petto e il ronzio costante dell'autoradio. La macchina ormai si era spenta. Sapevo che in qualche modo sarei dovuto uscire, ma per quanto la mia testa lo desiderasse, i miei muscoli non riuscivano a reagire. Cercavo di respirare per far calmare le pulsazioni e riacquistare un po' di lucidità. Ancora oggi non sono certo di cosa accadde in quel momento ma, forse, persi i sensi. Ricordo la vista annebbiata e il battito cardiaco che lentamente si normalizzava e, d'improvviso, cominciai a vedere o forse immaginai, oltre il parabrezza, lontano, nella valle sotto il dirupo, si stagliava con nitidezza l'immagine di un vecchio casale diroccato, al centro dei terreni ancora perfettamente coltivati. In prossimità del tetto rosso di mattoni, un piccolo sentiero di selciato, di un marrone opaco, conduceva verso l'ingresso. All'istante, quasi come se vi fossi entrato, quell'immagine mi riportò alla mente il vecchio condominio di centro dove ero cresciuto e le partite a pallone nel giardino comune, con mio fratello e gli altri ragazzi del palazzo. La fretta che avevo nel finire i compiti delle elementari, quando nei pomeriggi primaverili, dal nostro appartamento al terzo piano, cominciavo a sentire il rumore sordo della palla che rimbalzava sull'erba e capivo che la partita stava per iniziare. Cominciai a ricordare di quando ancora vivevo in quella casa con la mia famiglia e mi tornarono in mente, una serie di immagini dei momenti passati con loro. Come quando mio padre costruì il canestro da basket, che non smisi di usare prima dei diciott'anni quando ormai il tabellone di condensato, pitturato di bianco, cominciava a sgretolarsi sotto il peso degli anni e delle intemperie e di quel po' di orgoglio che provavo nel sentire mia madre vantarsi dei miei successi scolastici con gli altri genitori. Mi rendevo conto di come esistesse una specie di muro, a dividere due periodi così diversi della mia vita. Cercavo di capire come fosse possibile, quale percorso mi avesse condotto fin lì, ritrovandomi a guardare, il giardino dove da bambino giocavo serenamente coi miei amici, stando ora invece, in bilico, sopra il ciglio di un burrone. Lo spazio vuoto della vallata che campeggiava di fronte ai miei occhi era come uno specchio della sensazione di inconsistenza che provavo dentro. Mi accorgevo di quanto avessi perso e non capivo come fossi arrivato a quel punto. Forse, pensai, è semplicemente il tempo che cambia tutto, forse è tutta una questione di fortuna, come quando si mischia un mazzo di carte. Certe volte non puoi proprio darti la colpa per aver perso una partita. Ci sono troppe variabili, sono troppe le cose da prendere in considerazione, troppe le possibilità d'errore. E, più si commettono certi sbagli, più le tue carte sembrano diventare peggiori e le tue partite sempre più difficili, fino ad arrivare al punto di realizzare che in quel momento, non ti conviene più nemmeno continuare a giocare. Cercavo di trovare un filo logico che collegasse tutti quei bellissimi ricordi, al punto in cui mi ritrovavo. Ma continuavo a non trovare un senso. Ed in fondo, mi rendevo conto, che era proprio la stessa sensazione che provavo ogni mattina, ad ogni risveglio. Ogni volta che iniziava una nuova giornata, mi ripromettevo di cambiare, che da quel momento in poi sarebbe stato tutto diverso, che finalmente sarei riuscito a trovare un significato, a quel giorno e poi a quello dopo, rimuovendo così per sempre, quella sensazione di inettitudine, che mi accompagnava ormai da troppo tempo. Ma mi bastava poco, il semplice alzarmi dal letto, perché tutta questa vana volontà, svanisse, come un sogno a occhi aperti. E le ore passavano senza che me ne accorgessi e mi rivedevo ancora in strada, alla continua ricerca della mia dose giornaliera, come se nulla fosse accaduto, per ritrovarmi poi, nella notte, a chiudere gli occhi, con la stessa voglia di cambiare, proiettata in un domani che forse non sarebbe mai arrivato. Era la stessa sensazione di vuoto che quel giorno mi aveva condotto lontano da tutto e da tutti, che mi trascinava nella perseveranza dei miei errori, che mi aveva quasi tolto la consapevolezza, come in un vortice pieno di forza ma privo di anima, che mi costringeva a girare su me stesso, senza mai lasciarmi il tempo di poter capire cosa avessi dentro. Riaprii gli occhi. All'orizzonte un sole, ormai schiacciato tra le montagne oltre la vallata, colorava il cielo con sfumature rossastre. Quella era forse l'unica volta in cui non sentivo il peso opprimente dell'astinenza. Se solo mi fossi soffermato per un attimo a guardare, mi sarei accorto delle mani fredde e sudate che tremavano sulla leva del freno a mano, delle ossa che scricchiolavano contro lo schienale e di quella sensazione di nausea che mi chiudeva lo stomaco. Mi sentivo come svuotato, non riuscivo nemmeno più a provare la paura di cadere. Uno sguardo nell'abitacolo sorprese le dita esitare sulla leva del freno. Iniziai a pensare che il mio corpo volesse mollare la presa. Mi rendevo conto di aver perso tutto, di essere arrivato al capolinea e non riuscivo a smettere di pensare che fosse tutta colpa mia. Immaginavo quale sensazione si potesse provare cadendo nel vuoto. Forse era proprio come negli incubi che, a volte, mi svegliavano nel cuore della notte. Realizzai che quella non era affatto la prima volta che mi trovavo in bilico sul bordo di una voragine. Era forse quella stessa sensazione di vuoto che mi aveva condotto lontano da tutti, per guardare finalmente, quel vuoto, dritto negli occhi, costringendomi ad una decisione. In quel momento tutto dipendeva da una mia scelta, in quel preciso istante ogni cosa si riduceva ad una questione di volontà. Credo che non dimenticherò mai quell'attimo in cui capii di essere molto diverso da come pensavo, che l'immagine del mio viso pallido e spaventato, sul retrovisore, non riflettesse nemmeno la più piccola parte della mia anima, che fosse solo una copia della mia figura, nient'altro che un riflesso delle decisioni sbagliate che mi avevano condotto fino a quel punto. Abbandonare la mia casa, la mia famiglia, il volermi isolare in un appartamento fuori città, per sfuggire ad ogni controllo e alle persone che nonostante tutto continuavano a volermi bene. A dispetto del tempo passato, degli errori commessi, malgrado tutte le partite che avevo perso sino ad allora, ero ancora molto più simile al bambino che giocava nel giardino, nei ricordi o nei sogni, in cui mi ero appena ritrovato. Ripensando ai miei genitori, alla mia famiglia, agli amici veri che non avevano mai smesso di cercarmi, non potevo fare a meno di chiedermi come fossi riuscito a fare a meno di loro fino a quel momento. Pensavo che in fondo non fosse affatto necessario prendere una macchina e fuggire il più lontano possibile per isolarsi dal mondo, per sentirsi soli. E in quei momenti, in cui del sole restava solo uno spiraglio ad illuminare le cime delle colline oltre la valle, mi accorsi che forse, proprio in quel giorno, in quel posto così desolato, non ero mai stato così vicino alle persone a cui tenevo. E l'idea costante che, in realtà per tutta la vita, abbandonando tutto ciò a cui tenevo, non avevo fatto altro che lanciarmi nel vuoto e che ogni maledetto giorno, io, mi ritrovavo di fronte allo stesso burrone e ci scivolavo dentro senza neanche accorgermene, ad occhi chiusi, gettavo la mia vita, senza neppure riflettere per un secondo, con la paura di guardare in faccia l'abisso che da solo mi ero creato. Giunto a quel punto, però, decisi che quella volta sarebbe stato veramente tutto diverso, di continuare a tenere gli occhi aperti, senza lasciar disperdere quella voglia, così forte, di cambiare. Dovevo essere finalmente libero di guardare e di decidere, "oggi", pensavo, non mi sarei lasciato trascinare come tutti gli altri giorni, "adesso”, riuscivo finalmente a vedere la differenza che c'è tra una voragine che ti trascina dentro di sé, nel vuoto e quella che ti convince, a tornare indietro. Questa era la mia direzione, la mia strada, pronta a condurmi verso tutto quello che mi aveva riempito la vita, prima della dipendenza. Con un movimento lento e fluido, tolsi la mano dalla leva del freno, lentamente aprii la portiera alla mia sinistra, e misi i piedi a terra. Senza nemmeno pensarci, gettai la bustina con la roba il più lontano possibile, sotto la scarpata, con gli occhi socchiusi e un piccolo sorriso, iniziai a risalire la china erbosa verso la strada. Sapevo che prima o poi avrei incontrato qualcuno durante il tragitto, ma mi sentivo comunque pronto, a camminare da solo, per quanto lungo fosse il percorso, fino a casa.

© Davide Procopio





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