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Il vampiro delle Ande
di Gordiano Lupi
Pubblicato su PB20


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Il vampiro delle Ande

Quando alla Oriental Oil mi dissero che avrei dovuto lasciare Bogotà per trasferirmi in una località sperduta delle Ande non fui certo entusiasta. Il cantiere si trovava oltre Bucaramanga, in un luogo sperduto abitato solo da indios e animali selvatici. Avrei guadagnato almeno il doppio che starmene nella capitale e quella fu l’unica cosa che mi convinse ad accettare. Lasciai mia moglie e i ragazzi a Bogotà. Dove ero diretto non c’erano scuole ma solo montagne rocciose, foresta amazzonica e petrolio. Avrei avuto l’incarico di coordinare la messa a regime del nuovo impianto.
Alla Oriental Oil non fecero mistero di niente.
“Non sarà un compito facile”, disse il direttore.
“Non è la prima volta che lavoro fuori sede. Ho abbastanza esperienza”, risposi.
Anni addietro ero stato in Brasile e Argentina, ma anche nella Terra del Fuoco, in Patagonia.
“Dovrai fare molta attenzione agli indios U’wa.”
“Sono pericolosi?”
“Credo di no. Però sono convinti che la terra sia di loro proprietà e sabotano gli impianti, impedendo la costruzione di nuovi pozzi”, concluse.
In aereo cercai di distrarmi e di non pensare. Soffrivo il distacco dalla famiglia e già mi mancava il fresco inverno di Bogotà, mentre immaginavo i monti delle Ande e un posto senza nome, al caldo dell’equatore. Dovevo dimenticare le partite di calcio allo stadio, il teatro, le feste a base di cumbia e rum. Sapevo che in quella foresta mi attendevano solo giorni di lavoro e solitudine, in compagnia di pochi libri e qualche tazza di mate. Avevo con me i racconti di Carver, che a Bogotà non ero riuscito a finire. Quella sarebbe stata l’occasione giusta. Sorvolavo le montagne che separano la capitale dalle regioni orientali e sfogliavo di mala voglia le pagine sgualcite di un quotidiano, leggendo qua e là pochi titoli in grassetto, poi venne il sonno a tenermi compagnia. Quando mi svegliai ero già a destinazione
Il cantiere si trovava vicino al confine con il Venezuela, tra catene montuose e sconfinate pianure e non fu facile raggiungerlo. Per fortuna la compagnia aveva messo a disposizione un autista esperto e una jeep cingolata.
Quando intravidi in lontananza i pozzi mi sorprese il fatto che molti sembrassero inattivi.
Il capo cantiere confermò la mia impressione.
“I lavori ristagnano da almeno sei mesi. L’unico pozzo attivo è quello per le prospezioni”, mi disse.
“Non siete stati capaci di fare altro in tutto questo tempo?”, domandai.
L’uomo aveva l’aspetto stanco e il volto bruciato dal sole.
“Sono anni che lavoro per la compagnia, ma non ho mai visto dei pazzi come gli U’wa.”
“Cosa vuoi dire?”
“Non ci lasciano lavorare.”
“In che senso?”
“I primi tempi facevano incursioni notturne e attaccavano i pozzi sabotandoli, poi hanno messo trappole in tutto il cantiere e ferito alcuni operai.”
“E adesso cosa pensate di fare?”
“Non lo so. Gli uomini hanno paura.”
“Mi hanno mandato qui per portare a termine un lavoro e da domani riprenderemo le trivellazioni. Non voglio restare sulle Ande in eterno. Ho una famiglia che mi aspetta a Bogotà.”
“Anche noi, signore. E vorremmo rivedere chi abbiamo lasciato.”
Stetti un poco a pensare a ciò che avrei potuto fare.
“Perché questi U’wa ci boicottano?”, chiesi.
“Dicono che il petrolio è il sangue della madre terra e lottano per conservarlo.”
Dopo quella risposta lasciai libero il capo reparto e pensai che ero capitato in una storia assurda, ma che dovevo lavorarci sopra e studiare una soluzione. In quel momento compresi perchè mi avevano offerto tanto denaro per andare in quel posto sperduto. Non mi sarei arreso senza lottare, però.
Non era nel mio stile.

Il giorno dopo mandai a chiamare alcuni operai.
Erano terrorizzati, alcuni chiesero senza mezzi termini di lasciare il lavoro e tornare a casa. Non volevano rischiare la vita.
“Ci ammazzeranno tutti”, disse uno.
“Sono degli stregoni e stanno facendo riti assurdi”, continuò un altro.
“Quando li sento cantare mi tremano le gambe”, aggiunse un terzo.
Ascoltai altri uomini e i commenti furono tutti dello stesso tenore. Nessuno voleva saperne di riprendere la costruzione degli impianti. Fu così che decisi di andare a parlare con il capo degli U’wa, al villaggio. Avrei offerto una bella somma di denaro.
I dollari erano sempre stati un argomento valido per risolvere i problemi. Gli indios vivevano nella foresta, qualcuno si era costruito una capanna tra alberi giganteschi, al riparo di liane pendenti. I più estremisti avevano rifugi inaccessibili e rifiutavano ogni forma di progresso, non volevano perdere niente delle antiche tradizioni. A terra abitava chi aveva scelto di scendere a patti con la civiltà e le loro case erano concentrate in pochi villaggi. C’era persino chi studiava e conosceva le lingue, il computer e addirittura internet ed era tra questi che venivano scelti i capi degli U’wa. Gli indios accettavano gli strumenti della tecnica moderna per restare in contatto con il resto del mondo, ma lo facevano solo per difesa. Se fosse stato possibile ne avrebbero fatto volentieri a meno.
Il capo mi ricevette in un’ampia capanna con il tetto di foglie di palma e contornata da robusti alberi di mango. Parlava uno spagnolo corretto e ribatteva con argomenti forti a quelle che giudicava imposizioni contro la volontà della natura.
“Questo è il cuore del mondo”, disse, “e voi lo state uccidendo.”
“Stiamo solo lavorando e se c’è un prezzo per essere lasciati tranquilli siamo disposti a pagarlo”, risposi.
“È la terra che deve stare tranquilla e voi la torturate. Non sappiamo che farcene del denaro e non vogliamo avere niente a che fare con le vostre attrezzature infernali. Non cavalchiamo il progresso verso la distruzione del mondo.”
Avevo notato anche questo. L’unica capanna servita da energia elettrica era quella del capo, là c’erano televisioni e telefoni, inoltre era possibile collegarsi a internet e utilizzare i computer. Pensai per un attimo a quanto fosse lontano il nostro mondo che non poteva più fare a meno di telefoni cellulari ed elettrodomestici. Il capo mi disse che avevano rifiutato anche la strada asfaltata perché avrebbe favorito il progresso e con esso la fine della loro civiltà. Conclusi che mi trovavo in mezzo a dei pazzi e che era inutile provare a farli ragionare. Tutto intorno gruppi di indios dalla pelle olivastra e i lineamenti decisi intonavano un canto in una lingua incomprensibile.
Era il canto della creazione del mondo.
“Se non cantassimo il mondo morirebbe”, disse il capo.
Poi mi lanciò uno sguardo d’accusa e fece cenno che potevo andare. La conversazione era conclusa e lui non aveva altro da aggiungere. Rientrai al cantiere con le idee più confuse di prima.
L’unica cosa certa era che non potevo abbandonare il lavoro e il giorno dopo ordinai di riprendere la costruzione dei pozzi.
Il terreno era proprietà della Oriental Oil, che aveva ottenuto i regolari permessi: non restava che far funzionare gli impianti.
Ci furono proteste e mugugni, però alla fine prevalse la ragione e gli operai ubbidirono. Non sarebbero state le sciocche superstizioni di un gruppo di selvaggi a impedirmi di portare avanti il mio compito.
In poco tempo il cantiere parve rifiorire e con soddisfazione mi dissi che presto tutto sarebbe tornato alla normalità e non ci sarebbe stato più bisogno di me. Gli indios sembravano rassegnati. Se ne stavano nei loro appezzamenti a coltivare yuca e boniato, allevavano maiali e capre e la notte intonavano tristi cantilene. Era quella la cosa che meno sopportavo. Quelle lugubri litanie non mi facevano riposare tranquillo e sembravano ululati di animali frammisti a rumore di vento. Per non pensarci mi dissi che era il loro modo di pregare e invocare protezione.
Non c’era niente da temere, o almeno era quello che speravo.

Qualche giorno dopo il capo cantiere mi venne a dire che Martinez, uno degli operai più anziani, aveva contratto una brutta infezione ed era a letto febbricitante.
Andai subito all’ospedale da campo per parlare con il medico.
“Cosa è accaduto?”, chiesi.
Il medico indicò Martinez e scosse la testa.
“Posso solo fare delle ipotesi. Ha dei segni sul collo, come un morso di animale. Pare che il sangue sia infetto. Lui non rammenta niente, sostiene che la sera è andato a letto come sempre e al mattino si è sentito male.”
Passai nella stanza di Martinez.
Non mi riconobbe, aveva la febbre altissima e non era capace di parlare. Vidi quei graffi sul collo.
Chi poteva essere stato?
Il medico continuò.
“Non so se ce la faremo. Ha il sangue malato, pare indurito.”
Martinez morì la sera stessa e tra gli operai cominciarono a circolare strane voci. Avevano una paura maledetta degli indios e dei loro canti. Il giorno successivo ricevetti una delegazione guidata dal capo cantiere.
“Gli uomini vogliono fermare il lavoro”, disse.
“Per quale motivo?”
“Non vogliono fare la fine di Martinez.”
“Martinez si è ammalato ed è morto. Un’infezione o un morso d’animale non sono cose prevedibili.”
“Sappiamo tutti che non è così.”
“Io so solo che devo costruire un impianto.”
“Ci uccideranno tutti…”
“Non diciamo idiozie e torniamo a lavorare!”
Mi ero davvero irritato e non avrei sopportato un minuto di più quelle assurde storie. Uno degli uomini mi disse che i morti mi sarebbero pesati sulla coscienza tormentando i miei sogni in eterno. E adesso so che è vero, perché scrivo dalla mia camera di Bogotà e non ho fatto parola con nessuno di quel che è accaduto.
Mi prenderebbero per pazzo.
Alla Oriental Oil ho raccontato che sono fuggito in tempo, prima che l’infezione si propagasse e uccidesse anche me.
Ma non è così. Solo io e il medico sappiamo la verità.
E non possiamo raccontarla che a noi stessi nelle notti tormentate dal rimorso.

Dopo la morte di Martinez gli uomini si fermavano spesso a parlottare tra loro. Incrociavo sguardi di odio al mio passaggio.
Il capo cantiere venne di nuovo a parlare.
“Signore, qui rischiamo tutti la vita”, disse.
“Sentiamo questa novità”, risposi irritato.
“Un’antica creatura degli U’wa sta vendicando la terra. Dobbiamo fermarci. Il petrolio non vale tanto.”
“Stai parlando come uno di quei selvaggi. Te ne rendi conto?”
“Conosco le leggende di quel popolo e riconosco i segni.”
“Cosa vuoi dire?”
“Che sul collo di Martinez c’era il morso d’un vampiro.”
“Non dire sciocchezze.”
“Ci saranno altri morti se non ce ne andiamo.”
Non volli sentire altro. Buttai fuori dalla mia stanza il capo cantiere e minacciai di fare rapporto in direzione. Non potevo dar credito a quelle assurde storie. Eravamo là per lavorare e lo avremmo fatto. I selvaggi potevano continuare a pregare e a cantare, non mi avrebbero intimorito.
Nelle notti successive però accaddero nuovi fatti inspiegabili.
Altri tre uomini del cantiere si svegliarono con i segni sul collo e morirono tra atroci sofferenze, in preda a un delirio causato dalla febbre altissima.
La notte era accaduto qualcosa che nessuno sapeva spiegare.
Un vampiro, dicevano gli operai per bocca del capo.
Un animale, replicavo io.
La foresta era piena di insetti e bestie sconosciute, magari velenose, che noi abitanti di città non conoscevamo.
Era strano però che tutto fosse cominciato dopo la ripresa dei lavori. Sembravano sinistri avvertimenti che poco a poco cominciarono a spaventare anche me.
L’ultima notte che ho passato al villaggio ho assistito a un fatto che ancora oggi mi tormenta come un incubo assurdo.
Non riuscivo a dormire e mi ero messo a passeggiare per il campo, assaporando il fresco della notte e allontanando il pensiero dai lugubri canti che venivano dalla foresta. A un certo punto la luce della luna scoprì la sagoma d’un uomo che si aggirava tra le abitazioni in legno e i pozzi in costruzione. Ero abbastanza vicino e fu allora che incrociai il suo sguardo spento e un viso bianco che nascondeva i lineamenti di un indio. Era vestito con un paio di calzoncini corti scuciti e forse aveva tra le mani un coltello. Lo seguii con gli occhi e lo vidi entrare nella camerata centrale, passando per una finestra socchiusa. Forse gli operai l’avevano lasciata così perché faceva molto caldo, anche se dopo la trovai chiusa e senza traccia di scasso. Adesso non so cosa pensare e solo il ricordo mi fa stare male. Gridai che si fermasse ma lui non mi ascoltò neppure. Fece irruzione nella camera e in un attimo ne fu subito fuori, scappando via nel buio della notte prima che potessi tentare di fermarlo. Lasciò dietro di sé solo la scia d’un odore nauseabondo. Io non rientravo nei suoi piani e non mi considerò neppure, limitandosi a sparire.
Il giorno dopo ebbi la triste sorpresa.
Gli uomini della camerata si svegliarono ammalati della terribile infezione e il sangue indurito li condusse a una rapida fine tra atroci tormenti. Eravamo solo io e il medico in quella stanza e in preda al terrore ci guardavamo negli occhi. Era impossibile tentare di dare una spiegazione a quello che era accaduto. Sapevamo solo che non era il caso di restare in quel posto maledetto ed è stato così che abbiamo fatto rientro a Bogotà con la morte nel cuore e la mente sconvolta da rimorsi e ricordi.
Adesso rivedo ogni notte quegli occhi spenti che incrociarono i miei e lo sguardo vitreo, quel pallore disumano sui tratti decisi da indio. Ed è solo un incubo, un sogno maledetto che non riesco a scacciare. Non saprei dire se ho visto davvero un vampiro, tra le foreste dell’altopiano delle Ande ai confini del Venezuela. Non lo so se era davvero un’anima resuscitata dagli U’wa per vendicare la terra violentata dalle trivellazioni. So solo che non mi muoverò più da Bogotà per il resto dei miei giorni e che le anime degli uomini che ho mandato a morire vengono ogni sera a tormentare il mio sonno. E mi è sempre più difficile dimenticare.
Forse impossibile. La maledizione degli U’wa segue la mia vita.
Ogni notte sogno un indio che mi dice: “Tu l’hai risvegliato da un sonno di secoli perché hai cercato di dissanguare la nostra madre terra.” Poi si allontana cantando una nenia dolorosa.
Tutti mi prenderanno per pazzo e diranno che ho dato un calcio a un mucchio di soldi, però io non volevo più saperne di lavorare per loro ed è stato così che ho spedito una lettera di dimissioni alla Oriental Oil. Ho cancellato il petrolio dalla mia vita, anche se mi resta addosso il ricordo di quei morti e lo sguardo terribile di un’ombra notturna. E ogni sera mi addormento con il canto rituale degli U’wa nelle orecchie, il canto ancestrale che racconta gli episodi della creazione del mondo. Si deve prestare molta attenzione per capirne il senso. Io lo ascoltavo sempre in quelle tragiche notti passate sulle Ande, però non avevo capito che tra una nota e l’altra di quei lugubri versi stava racchiuso il segreto d’un vampiro vendicatore.

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Devo saldare i miei debiti d’ispirazione per questo racconto con la giornalista del Manifesto Giuseppina Ciuffreda autrice di un articolo intitolato “Cuori nati in Atlantide per lottare nelle Ande – Il canto degli U’wa contro il petrolio” pubblicato su Il Manifesto Cultura di domenica 1 aprile 2001 a pagina 12.
Il racconto è debitore soprattutto verso una tragica realtà che vede le multinazionali del petrolio impegnate nella distruzione della foresta amazzonica, in una forsennata corsa al progresso che antepone la logica del profitto a quella del rispetto dei valori umani.

© Gordiano Lupi





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