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N.O.I.R. - Quindici passi nel buio
di A.A.V.V. a cura di Andrea Franco
Pubblicato su SITO
Anno
2006-
Editore Traccediverse
Prezzo €
11-
128pp.
ISBN
2147483647
Una recensione di
Salvo Ferlazzo
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Noi tutti abbiamo vissuto l’esperienza dell’angoscia, del terrore. Persino l’esperienza del buio da bambini, torna nei nostri sogni di aduli. Sappiamo che è qualcosa che ci prende dal di dentro, che può anche distruggere.
Ci viene in aiuto la psicanalisi, allora. Se io non ho un oggetto che può giustificare in parte la mia angoscia, è facile pensare che questo oggetto comunque esiste. La verità è che in quel momento ne sono consapevole, e quindi ho la spiacevole impressione di essere perduto.
I quindici racconti prendono avvio dal terrore seminato da un cecchino che spara con il suo fucile, e compie l’ultimo atto in difesa di una terra che era appartenuta fino al momento in cui un esproprio l’aveva relegata ad area destinata alla costruzione di una strada.
Era un legame che si sfaldava tra le pieghe di una burocrazia inesorabile, all’interno di lottizzazioni che il vecchio non capiva,
Un fucile modificato: splendido ricordo di gioventù. Cinque colpi, congegno di puntamento telescopico, la terra da difendere.
Il suo non è un pensiero critico che può trovare elementi di trasformazione dell’esistente.
Sullo sfondo del cambiamento, prossimo, di quella zona, si staglia la contraddizione dell’uomo.
E’ uno scontro di due civiltà, di due culture. Terra contro modernità, progresso.
Contadino, campagna contro inurbamento.
Spesso la pubblicistica corrente presenta civiltà e cultura come sinonimi. Senza bisogno di rifarsi alla tradizione tedesca, in cui l’immagine della civiltà denota un processo di graduale e continua accumulazione di valori, pratiche e comportamenti che riguardano non soltanto l’azione sociale e la vita di relazione degli uomini, ma anche il complesso delle istituzioni nate nel tempo, da queste medesime pratiche.
Questo richiamo alla tradizione tedesca, ha fornito il pretesto a svariati fenomeni di oppressione.
Una teoria giustificazionista del colonialismo è stata proprio quella dell’esportazione della civiltà, della civilizzazione.
Il vecchio non è consapevole di tutto questo processo in atto. Il suo orizzonte si ferma al momento in cui gli viene consegnato l’atto di esproprio. E non sarebbe stato un bicchiere di rosso fra le dita a rallentarne l’esecutività.
Il progresso. La civiltà.
La sua è una difesa dura, cruenta, che si consuma nello spazio di quattro colpi. Il quinto, è per lui.
Follia del gesto… Paura, rimorso.
L’autore lascia, molto abilmente, il lettore nel dubbio. Ma chiosa con arguzia,”non sono queste le parole che scriverei sulla sua lapide. Ma forse è giusto che finisca così…”.
Con abile trovata letteraria, mette d’accordo colpevolisti ed innocentisti, senza indagare le ragioni degli uni e quelle degli altri.
Con consumata scelta dei tempi, fa andare fino in fondo al racconto perché là risiede il grimaldello che può scardinare il sentimento dell’angoscia.
Quell’angoscia esistenziale che, appunto perchè legata all’esistenza, ci ha gettati in questo mondo.
Non c’è possibilità di salvezza. Ma noi viviamo come se il senso dell’abbandono lo dovessimo vivere fino in fondo, e quindi siamo presi dall’angoscia.
Una angoscia ancestrale ci riunisce sotto quell’immensa colpa della perdita del Paradiso terrestre, con la conseguente presa di coscienza che si deve sopravvivere (la casa, la terraferma, M.F.).
Il vecchio non ha risposte. E quelle che gli vengono date non bastano a modificare il suo stato di angoscia. Proprio quella sofferenza diventa quella spina nel fianco che non fa dormire, che spinge verso la conoscenza per cercare di capire.
Ma capire cosa? Cosa capire in un uomo con un fucile soltanto cinque colpi? Una furia omicida, o il significato concreto di un legame che non si spezzare?
Il racconto di Marco R. Capelli, “la strada”, non faccia altro che anticipare tutti gli altri racconti, nell’esaminare quelli che sono i sentimenti, le vicende, la trama scura, fumosa, a volte prevedibile (v. in Memoria), a volte al limite della follia (v. il Museo).
Personaggi fragili, vittime di azioni estreme. Vita - morte.
Personaggi che diventano carnefici, biechi esecutori di una sorte che identica nella conclusione, sia che si tratti di essere uccisi o di uccidere. Cambiano le modalità, i tempi; ma il quadro che ne viene fuori, porta nel suo ordito cromatico, esempi di uomini e donne legati indissolubilmente al proprio carnefice o alla propria vittima.
La grande questione esistenziale non viene risolta con le parole. Queste servono a numerare i percorsi della memoria, ad innalzare a metodo e sistema l’approccio strisciante all’esito finale.
Non esiste la sanzione: soltanto l’eco della parole arriva fino alla nostra coscienza.
Sono sufficienti, pertanto, piccole azioni, rapide, incisive; tutt’al più preparate con maniacale meticolosità, o con l’intento del classico “coup de theatre”, che purtroppo si perde nell’immenso mare di una schiacciante prevedibilità (v. in Memoria”.
I racconti si muovono lungo un percorso dove il contrasto vita – morte, si snoda in un intricato reticolo di passioni, belle o brutte che siano, dalle conseguenze sempre poco chiare.
Ogni scelta implica necessariamente delle conseguenze.
I due giustizieri di “quella sbagliata”, potrebbero fare il paio con nonno Joseph – l’altro di “sub rosis”.
Cambia la collocazione spazio-temporale. L’esito è identico: vendetta, giustizia sommaria, dragoni o junker, scomparsi fra le brume di fin de siecle.
Amore e more. Eros e thanatos.
Un’eco rimbalza dal fruscio dei petali di quelle rose di quel cespuglio profumato, raggiunge il ricordo di Joseph.
E’ un passo indietro nella sua vita.”Liebe Kaiserin, Maria Theresia, liebe Kaiserin Korneblum!”.
Tutti i personaggi hanno perfezionato i tempi, i modi, le motivazioni che stanno alla base delle loro scelte. Frammenti di parole, di ricordi ricoprono come scaglie di marmo le nicchie esistenziali dentro le quali meditano la vendetta, rincorrono le loro deviazioni sessuali, smaltiscono una memoria senza giustizia, cannibalizzandone la sostanza.
Vivono una vita fatta di piccolissimi segmenti di certezze, di scadenze, preoccupandosi di evitare ogni rumore che possa dar sorgere curiosità, sospetto, domande inopportune.
Quindici racconti che rappresentano un mondo la vendetta, eros e thanatos, il gusto per l’horror fanno vivere i personaggi, tutti, in stretta simbiosi con una pervasiva perfezione, dove la rarefazione di ogni concetto di umanità, di giustizia giusta, diventa paradigma di azione violenta.
Una recensione di Salvo Ferlazzo
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