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Quattro poesie di Richard Hugo
traduzione di Giuseppe Nava
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Richard Hugo (pseudonimo di Richard Hogan, 1923-1982), poeta statunitense. L’America rurale, afflitta dalla depressione economica, è lo sfondo della sua opera, e il punto di partenza di una riflessione disincantata sull’esistenza. Fabbriche abbandonate, piccole città in declino, immersi in una natura grandiosa, indifferente e inconoscibile, diventano lo specchio di un paesaggio dell’anima; un’anima che però crede sempre in un piccolo riscatto, una labile via d’uscita. Hugo era amico (e compagno di bevute) del romanziere James Crumley, autore del famoso “L’ultimo vero bacio”, che prende il titolo proprio da uno dei suoi versi.(Giuseppe Nava)
TONI DI GRIGIO A PHILIPSBURG (1)
Puoi venire qui domenica, per capriccio; puoi dire che sei a pezzi, che l’ultimo vero bacio che hai dato è roba di anni fa. Puoi superare queste strade tracciate da dei pazzi, gli ex-hotel che non ce l’hanno fatta, i bar che invece sì, e il dannarsi dei guidatori locali per accelerare le proprie vite. Solo le chiese vengono mantenute. La prigione quest’anno ne compie settanta. L’unico prigioniero è sempre dentro, e non sa perchè.
Oggi, la prima forma di sostentamento è la rabbia. L’odio di grigi diversi che dà la montagna; l’odio delle fabbriche; l’abrogazione del Silver Bill; la fuga a Butte, ogni anno, delle ragazze più belle. I bar o un buon ristorante non spazzano via la noia. Il boom del 1907, otto miniere d’argento funzionanti, una sala da ballo costruita nelle primavere – poi ogni ricordo diventa sguardo fisso: il prato panoramico brucato dal bestiame, due ciminiere sopra la città, due fornaci spente, l’enorme fabbrica che crolla da cinquant’anni e che non cadrà mai del tutto.
Non è questa la tua vita? Quell’antico bacio che ancora brucia nei tuoi occhi? Non è questa un’accurata sconfitta? La campana della chiesa non sembra solo un mero annuncio: suona pure, nessuno verrà? Non risuonano le case vuote? Il magnesio e lo scorno, sono sufficienti a mantenere una città? Non solo Philipsburg, ma tutte le città di bionde altissime, buona musica e birra che il mondo non ti lascerà mai avere fin quando la città da cui vieni non muore dentro?
No!, rispondi a te stesso. Il vecchio aveva vent’anni quando costruirono la prigione; ancora ride, anche se le sue labbra cadono. Molto presto, dice, andrò a dormire e non mi sveglierò più. Gli dici di no, ma stai parlando a te stesso. La macchina che ti ha portato qui funziona ancora. I soldi con cui hai comprato da mangiare sono d’argento, non importa da dove estratto. E la ragazza che ti serve il pranzo è snella, i suoi capelli rossi illuminano le pareti.
CONTADINO MORENTE per Hank e Nancy
Settemila acri d’erba sono diventati gialli per la sua tosse. Una leggenda per quarant’anni, dalla luna a Stevensville; in questi giorni flaccidi la sua rabbia vive ancora – appena appena – in una puttana di Great Falls. Tempo crudele, grida, vento crudele. Le sue oche vagano incustodite nel prato. Le ultime foglie d’oro dei pioppi volano via sul torrente Burnt Fork. Le sue oche ingrassano da sole. È lo stesso vecchio insulto. Lo stesso sorgere indifferente dei monti a sud, e cacciatori ubriachi intorno al fuoco a dieci metri dalla sua recinzione.
Qualcosa di autunnale ci sta uccidendo. Chiamala guerra, o febbre. Lo sai quando la vedi: una fiammata. La vite e il fuoco e il cervo del mattino arrivano in mezzo secolo a centellinare la sua primavera là, al limite più lontano delle sue terre, avvolti nel cellophan di luce. Ciò che vive è ciò che lui ha lasciato nell’aria, preciso, non visto, appeso dove lui stava il giorno in cui urlò. Un orso si aggira ogni giorno più vicino alla sua baracca. I contadini vengono a vederlo morire. Portano rudi offerte di vino. Il Burnt Fork canta inni. Lui muore bianco nella rabbia finale. L’orso bussa alla sua finestra.
E moriamo in silenzio, i nostri ultimi giorni carichi dell’urlo del Burnt Fork, l’ultimo grido di quel contadino rabbioso. Siamo invecchiati fino alla preistoria cercando di ottenere pietà per le figlie ingrate. Viviamolo in noi, sconvolti sul margine del prato, maledicendo ancora il Baltico, la luna, l’orso, lo scoppio. E lasciamo che gridi per noi, dalla tomba.
LA CHIESA DI COMIAKEN HILL per Sidney Pettit
I contorni sono netti contro il brutto cielo di oggi, pronto alla pioggia. Siamo bianchi, e capiamo perché gli Indiani hanno venduto burro per costruire questa chiesa. Un gallo e quattro galline si affollano sul portico. Siamo scuri, e sappiamo perché nessuno si è arrampicato fin qui per pregare. Il prete – ha fatto del suo meglio per imitare una campana – guarda il fiume pieno di spiriti serpeggiare giù dalla collina, verso la baia, inesorabilmente.
Una chiesa abbandonata al vento è un prodigio. Col vento forte, le rovine suonano una ruvida armonia. Il prete ora serve al bar. I suoi sogni hanno pagato un prezzo troppo alto per la pietra ed il mortaio. I suoi occhi sono vuoti come una cappella senza tetto, in una tempesta; i templi greci invece sembrano come quaranta secoli fa. Se andassimo in un angolo a pisciare, non griderebbe che siamo stati oltraggiosi.
I polli si acquattano. La pioggia spruzza selvaggia là dove l’altare e la vetrata sarebbero finiti, se gli Indiani non avessero mangiato le mandrie della tribù in un autunno affamato. Nonostante i canti, il salmone non arrivò. La prima messa, la linea telefonica: il fiume fu maledetto. Se la pioggia avesse un ritmo, non sarebbe Latino.
I bambini non salutano quando ce ne andiamo. Come queste tombe, anche le nostre potranno essere senza nome. Potremo noi dirci soddisfatti, da morti, avendo narcisi per monumento? Che abbiano amato Dio oppure no – e la collina, il fiume, la baia bruciata dalla luna – quegli Indiani sapevano che quando muori perdi il tuo nome.
IL FIUME ADESSO
Non c’è nemmeno un cane con cui parlare. Gli slavi se ne sono andati, o hanno cambiato i loro nomi in qualcosa di verde. I Greci hanno abbandonato i vecchi piatti e sono scivolati nel riposo. Ruscelli di salmoni sempre più magri, finchè in ottobre una piccola rapida potrà significare carpe. Enormi fabbriche battono e fumano. Il giorno procede pesante col commercio mentre la mia casa preferita, dove le rose crescono sempre troppo, è crollata: un consiglio morale. I rimorchiatori ancora rollano contro la corrente a fiotti, senza sosta, con la benzina contata. Non posso sognare niente: non qualche bella donna uccisa in una baracca, non la sega della fabbrica che si inceppa, nemmeno del vino selvaggio e una slavina – anche se li conosco bene entrambi. Il sangue prega ancora di tornare a casa. Questo fiume punta dritto a nord, verso il sangue. Le stelle blu sono sicure: nel loro dondolare, la rotta. Passo oltre la risacca, dove le code di gatto si piegano verso nord, dove svassi familiari spiccano il volo, dove il brivido del vento è lo stesso e ritorna con l’odore del fiume. In qualche modo so che le fonti solitarie della disperazione sorgono dal troppo amore. Non importa come quest’acqua si rompa tra le canne; essa si ricongiunge al fiume e la baia luminosa del nord riceve tutto, i nuovi salmoni sulla strada verso l’oceano, la carretta tranquilla che torna.
(1)Philipsburg è una città del Montana (USA). Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 fu un importante centro minerario. Oggi conta poco più di 2500 abitanti. Butte, nominata più avanti nella poesia, è un centro amministrativo di circa 30.0000 abitanti e dista una sessantina di chilometri da Philipsburg. Fino agli anni Ottanta era famosa per il grande numero di bordelli e prostitute. (NdT)
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