Godric vive nel sud dell'Inghilterra intorno al 1086, all'epoca quindi della conquista normanna da parte di Guglielmo il Conquistatore, che mise in opera una complessa macchina bellica, oltre che amministrativa e burocratica, per piegare il potere dei baroni locali. Godric è un barone appunto, e cerca di insinuarsi nelle maglie del potere normanno, allo scopo di liberare il suo paese dagli invasori, una trama semplice che sembra riuscire meglio di quanto lo stesso Godric sospetti. Così diviene uno scriba, ed è credibile perché è una persona di cultura, relativa, ma tanto più significativa in quell'epoca di feroci e sanguinose lotte e rivalità: in particolar modo, è un giovane che non soltanto agisce, ma pensa e vuole darsi spiegazioni, anche quando le circostanze non gliene danno il tempo né la forza. In quanto scriba, è testimone innanzitutto del proprio spaesamento di fronte alla bellezza del creato ed alla pochezza degli uomini, che pure si credono tanto importanti a livello locale. Godric si aggira tra altri baroni, soldati, vescovi più bellicosi che ieratici, osti poco attenti all'igiene (a dir poco): è anche innamorato, Godric, anche se assorbito dalla sua lotta nascosta. La sua qualità di testimone diventa particolarmente significativa quando viene intrapreso un viaggio verso Ovest, verso la Cornovaglia cioè, che versa in condizioni che si potrebbero definire disperate, tra malattie e povertà.
La descrizione della Cornovaglia è ancora molto realistica oggi, per chi c'è stato, con la costa nord battuta da un vento che non cessa, ed i piccoli villaggi prevalentemente addensati sulle colline che ne formano la spina dorsale, o nelle poche baie riparate. L'ossatura di questo romanzo è formata dalla tesi di laurea di Elisabetta Vittone, e qua e là si intuiscono dei momenti in cui si tradisce (non che sia un male, beninteso) la matrice accademica, come quando si parla dell'origine dei nomi di insediamenti in Inghilterra, per cui le città che terminano con -borough (in effetti che ne sono centinaia: Wellinborough, Loughborough...) sono accanto ad una collina, gli insediamenti grandi finiscono per -ton (oggi town) (ed anche di questi ce ne sono rimasti tantissimi: tra i sobborghi della sola Nottingham ci sono Beeston, Sneinton, Carlton, Lenton, Toton, Long Eaton, Castle Donington, Ilkeston, ecc.) e quelli piccoli finiscono per – tre (tanto piccoli che forse ce ne sono rimasti pochi...). Beh, non mi dilungo: volevo soltanto dire che sono notazioni interessanti, e che lo stile della scrittrice è senz'altro affascinante, a tratti: meno, devo dire, mi convince il ricercare la semplicità a tutti i costi. Comunque, lo spirito dell'epoca credo sia conservato, anche se i dialoghi non sono sempre eccezionalmente pregnanti, e sempre per la ricerca della semplicità di cui dicevo prima, alcune frasi andrebbero piuttosto taciute od accorciate. La feroce logica di certe usanze, come mostra per esempio la ladra di bambini appesa all'albero a testa in giù, cui verrà salvata la vita, se passerà la notte (credo che misure del genere piacerebbero a quei residui medievali che, ad ogni delitto, invitano a “buttare la chiave”, non ho ancora capito di quale porta), ci ricordano che non era un'epoca facile, anche se a suo modo poetica ed epica (al secondo versante, ma non al primo, l'eccessiva coloritura fantasy di molte rappresentazioni del Medioevo nordico ci ha abituato). Nel complesso, una lettura gradevole, che meriterebbe un seguito: come suggerimento all'autrice, ampliare il glossario e/o fornire altre indicazioni potrebbe essere utile per approfondire l'aspetto storico della vicenda.