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Storia di Gianna e delle sue chiavi
di Carlo Santulli
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In principio, avevo solo due chiavi: quella della porta di casa e quella del portone del palazzo. Ma non avevo lavoro. Facevo solo un part-time in nero in un negozio di giocattoli, ma figuriamoci se potevo pretendere che mi dessero le chiavi. E poi, scusate: chiavi di che? Era uno di quei grandi magazzini sulla Variante, che sembrano sempre aperti, o almeno non li vedete mai chiusi, con le porte automatiche e tutto. Che bisogno c’era di una chiave? Poi, sapete, un part-time non è un lavoro, in realtà nemmeno un full-time se in nero, è un lavoro. Lo si dice per consolarsi: “Vado al lavoro”, ma poi tutto crolla quando qualcuno (diciamo mia mamma) dice con quella voce candida e un po’ sognante: “Quando inizierai a lavorare...” (come se non volessi lavorare).
Quindi, una delle prime cose, anzi forse proprio la prima che il dottor Vigliani mi ha dato quando mi ha assunto, è stata una chiave: quella del mio ufficio, che è poi il suo, siccome io sono una dipendente. Infatti sulla testa della chiave c’è scritto Vigliani su un minuscolo foglietto rosa. La grafia è femminile, e deve essere la grafia di Laura. Laura lavorava qui prima di me, infatti ci sono ancora i suoi biglietti da visita nel sottoripiano della scrivania, tanto non servono più: Laura è salita al nord. Non so come fosse fatta fisicamente, certo era alta, perché la poltroncina a cinque piedi era giù al minimo. Io non sono così alta, quindi ho dovuto tirarla su per sentirmi meglio, ma poi l’ho abbassata ancora, perché ho pensato che era troppo poco tempo che lavoravo da Vigliani per sentirmi come a casa mia.
Però anche la scrivania aveva una chiave per il primo cassetto, che sbloccava anche gli altri, quindi in tutto facevano quattro chiavi. Questo finché non ho conosciuto Antonio.
Antonio faceva il panettiere in un forno che forse adesso ha chiuso, non so, non passo spesso per quella strada. Era un ragazzo col ciuffo che gli cadeva e grandi occhi verdi, arrogante anche, ma, devo dire la verità, non me ne ero accorta subito. In quel negozio compravo il pane per la sera, e la pizza per pranzo (Vigliani non mi passava la mensa, anzi non mi passava niente: potevo però andare al gabinetto, se era proprio necessario, due volte al giorno. Mi rimproverò anche una volta per la carta igienica, cioè non esattamente: mi fece un contorto discorso sulle spese di mantenimento dell’ufficio, notando per inciso che la spesa della carta igienica era raddoppiata da quando c’era Laura, e che le lampadine si fulminavano più spesso, perché restavano accese più a lungo, e inutilmente).
Dopo quasi sei mesi che ogni giorno, a meno che non saltassi il pranzo, mi servivo da quel forno, Antonio mi disse guardandomi con intenzione: “E cosa diamo a questa bella signorina oggi?” Io naturalmente arrossii, perché purtroppo mi capita (non lo faccio apposta, dev’essere una cosa genetica o come si dice psicotica, ma non c’era il tempo né di pensare a che fare né di mascherare il rossore. E ho letto da qualche parte che il rossore dice ad un uomo che ti piace, meglio di qualunque parola). Poi, c’era un pubblico: non lo vedevo, ma ne sentivo la pressione alle mie spalle, ed avevo una lente a contatto che mi bruciava (sapete, il vento di marzo).
Insomma, mi confusi, e sembrava che stessi per piangere, sempre per via della lente a contatto (non avevo nessuna voglia di piangere, specie davanti ad un panettiere), quando il pubblicò sbuffò.
Sbuffò (evidentemente) perché non mi decidevo.
Così chiesi la prima cosa che vidi dietro al bancone, pagai e andai via, decisa a cambiare vapoforno. E così feci, tranne che un giorno incontro Antonio davanti ad un’edicola. Cioé: da dietro non mi accorsi che era lui. Ero abituata a vedere un grembiule bianco con gli occhi verdi ed il sorriso sicuro (beh, arrogante ed anche un po’ ebete, ma allora non lo sapevo), così lo riconobbi solo quando si voltò.
Mi disse subito che si era licenziato (in realtà l’avevano mandato via) e così aveva molto tempo libero. Cosa avesse intenzione di fare nel tempo libero, a lungo termine, non era chiaro; a breve termine voleva accompagnarmi a casa, ed in effetti lo stava facendo. Lo so che avrei dovuto resistere, ed in seguito capii anche perché, ma volevo sentirmi desiderata, per sapere di essere desiderabile. Sapete, mia mamma dice che devo vestirmi bene; ‘darmi un tono’ dice. E’ che il suo vestirsi bene ed il mio non coincidono: divergono, per così dire. Di conseguenza, per lei non sono vestita bene. Mai. Per Antonio sì, o forse non gliene importava nulla. E per qualche motivo, ero felice di conoscere qualcuno cui non importasse com’ero vestita, bastava che bilanciasse quegli occhi di mia mamma sempre puntati su me a rimarcare ogni minimo difetto della mia “mise” (già, lei dice “mise”).
Magari vorreste sentire che fu un grande amore: no, non lo è stato, almeno per me. Però dopo un po’ di tempo, Antonio mi diede una copia delle chiavi di casa sua (convivere mi sembrava eccessivo e avrebbe riportato mia mamma e i suoi consigli nella mia orbita), e questo mi fece capire che non scherzava: con me, intendo. Con le tre chiavi di casa di Antonio (mi diede anche quella del garage, chissà perché), arrivai a sette chiavi.
Ancora qualche mese dopo, trovai un secondo lavoro, la sera: facevo la contabile in una piccola ditta appena fuori città. Arrotondavo quel che mi dava Vigliani e mi sembrava che mi dessero molta fiducia: ero infatti l’ultima ad uscire la sera, spegnevo tutte le luci, i computer, chiudevo le tapparelle, mettevo l’allarme, abbassavo la saracinesca dell’officina. La prima sera il principale mi aveva presentato una signora dell’amministrazione che, senza troppe parole, mi aveva subito dato un mazzo di quattro chiavi, sotto cauzione di cinque euro, perché non si sa mai. Però ero così contenta quando estrassi quel biglietto azzurro dal portafoglio: ora avevo undici chiavi.
Purtroppo, o forse per fortuna, dovetti lasciare Antonio: lo lasciai perché mi tradiva. Lo colsi, come si dice, sul fatto: entrai in casa una sera con le mie chiavi, e lo trovai con un’altra. Non ero mai venuta a quell’ora, di solito ero in ditta, però avevo dimenticato il walkman da Antonio, e non ce la facevo senza: sapete, quando si facevano le dieci o le undici di sera e stavo ancora compilando tabelle in Excel, mettevo su qualche cassetta molto saltellante, così non mi addormentavo, tanto i numeri si sommavano e moltiplicavano da soli, bastava lasciarli all’indirizzo giusto.
Se devo essere onesta, non mi fece rabbia perché mi tradiva, lo vedevo civettare con le donne già quando stava in panetteria (non sapevo esattamente che lavoro avesse fatto dopo, cioè cambiava versione ogni settimana, ma di questo mi rendo conto soltanto ora), mi fece rabbia quando vidi lei, perché capii, o credetti di capire, che non potevo competere con una così, con quella vestaglietta corta che avevo vista esposta a via Sparano a quaranta euro (nemmeno tanto, a pensarci). Mi costa fatica ammetterlo, ed è una pena poi scriverlo, ma aveva delle belle gambe. Molto belle, a dire il vero, sapete con le fossette e le rientranze al posto giusto, come si incomincia a vedere su Grazia o Anna verso maggio, e la caviglia sottile da ragazza. Aveva anche i capelli lunghi lisci, legati alla nuca da un fermaglio azzurro a fare una specie di coda di cavallo. Un fermaglio della Standa, cinque euro, che io non avrei mai messo, perché sarei sembrata una commessa, e poi valla a sentire mia mamma, ma a lei (naturalmente!) stava bene. E aveva il nasino all’insù, il che colmava ogni misura della mia pazienza. Mi vide, ma non si scompose, tranquilla: chissà quante volte era stata lì; io la guardai a lungo, e alla fine, come mamma mi aveva insegnato (indirettamente), trovai un punto debole. Ciccava. Moderatamente, voglio dire, a bocca chiusa, ma con gusto. Con un po’ di attenzione avresti visto, anche in penombra come quella sera, la pelle degli zigomi tirarsi appena. Ed io me la immaginai che spiaccicava la cicca masticata su quel sorriso fetente di Antonio. Il quale, a dire il vero, non fece come nei film. Per nulla. Non corse all’ingresso agitando le braccia e strabuzzando gli occhi, dicendo nervosamente qualcosa come “Gianna, è tutto un errore. C’è un equivoco. Posso spiegare tutto” Non nascondo che mi avrebbe fatto piacere, anche se era chiaro che non c’era né errore né equivoco (quanto al resto, Antonio poteva solo, se se lo ricordava ancora, spiegarmi come si faceva il pane). La ciccante era ormai a casa sua, nella sua vestaglia da quaranta euro, con tutte le sue fossette e rientranze, ed io dovevo andarmene. Però lo sentii sbadigliare, o grugnire, o forse le due cose insieme. Era a letto, credo, e stava fumando qualcosa di estremamente puzzolente; non sapevo nemmeno che Antonio fumasse, in verità: il fumo mi fa schifo.
Nemmeno io però feci come nei film: non sbattei la porta, non tirai giù dalla mensola un vaso cinese (anche perché l’unico vaso che c’era doveva averlo fregato al cimitero e non l’avrei toccato neanche coi guanti), non insultai né lui né tantomeno lei. Invece, tranquillamente richiusi la porta con la chiave, per non far rumore, e il giorno dopo, con precisione chirurgica (non so se c’entra, ma è un’espressione che mi piace), misi due delle sue tre chiavi nella cassetta della posta, tenni quella del garage perché non si sa mai, e così scesi a nove chiavi.
Mi hanno detto che quando si é schiantato in retromarcia contro il pilastro del garage c’è stato un boato tale che molti inquilini sono scesi di sotto, pensando ad una fuga di gas. Manomettere il pedale del freno è stato facilissimo, d’altronde sapevo che Antonio usciva dal garage sparato, solo frizione ed acceleratore, e già una volta stava facendo fuori quel pensionato del terzo piano, che si salvò solo perché mise il sacchetto della spesa tra il paraurti e il corpo. Sì, perché Antonio pensa che una donna come me non sappia guidare, mentre lui sì che la sa controllare la macchina (e ha fatto anche il carabiniere sulle volanti, il fesso). E non chiudeva mai la macchina, come fanno i carabinieri quando parcheggiano in doppia fila e vanno a prendere il caffè al bar.
Così Antonio ha avuto il suo colpo di frusta, niente di grave ovviamente, e d’altronde, come dice mia mamma “chi ha l’anima nera, non muore mai”. E lei di anime nere ne sa qualcosa, certo. Io non sono cattiva, ma sto imparando, ed il mio piccolo colpo di frusta l’ho avuto anch’io, senza nemmeno bisogno della macchina, tanto è vero che mammina ha smesso di dar consigli, e Vigliani ha aggiunto una voce nella mia busta paga, c'è scritto “M.sa”, perché la segretaria nuova ha sempre paura di uscire dai margini. Ah, e ho tirato su la sedia di due scatti.
Pensare che non avrei mai creduto che quella chiave mi sarebbe servita.

© Carlo Santulli





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