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CRONOLOOP
di Vittorio Baccelli
La cronomacchina cessa di ronzare all’improvviso, capisco d’essere arrivato. Ho una strana sensazione: mi sembra di rivivere questo momento per la milionesima volta, comunque mi scuoto, apro il portello.
È come le impronte di Aldrin sulla Luna, è come Colombo quando avvistò l’America, invece fuori ci sono solo due militari che mi aspettano, e anche piuttosto dimessi, neppure in alta uniforme. Accanto a loro c’è una limousine nera con una portiera aperta che mi aspetta. La limousine è sporca, avrebbe bisogno d’una bella lavata, peccato lasciare così una macchina tanto bella, sto pensando mentre supero i due militari ed entro in auto. Nel lussuoso abitacolo un generale con la faccia tesa, gli occhi infossati, la barba lunga e la divisa in disordine, mi sta aspettando. Un generale che conosco ma del quale non so il nome.
L’auto parte e guardo il panorama dal finestrino blindato mentre il generale stancamente mi mette al corrente degli ultimi sviluppi della situazione. Tutte cose che già conosco a menadito perché ho sentito infinite volte, intanto l’auto prosegue nel suo viaggio verso una base militare nascosta trai monti. Sono stanco, stanco di ripetere gli stessi gesti, d’ascoltare le stesse parole, ma forse tutti sono stanchi di rivivere gli stessi momenti. Stiamo andando verso una villetta all’interno della base. C’è la mia ragazza che mi aspetta, staremo assieme fino al momento del ritorno. Abbiamo superato il tratto di deserto e ora l’auto imbocca il rettilineo che porta alla base, eccola, le sbarre sono già alzate, ancora poche centinaia di metri e saremo davanti alla villetta. Il generale intanto non ha mai smesso di parlare malgrado la mia palese disattenzione. La limousine s’arresta, scendo lentamente e mi avvio verso la porta d’ingresso, salgo i cinque scalini e sono sul porticato, la porta adesso dovrebbe aprirsi e lei mi getterà le braccia al collo piangendo.
Ma la porta resta chiusa, ho un attimo d’indecisione, poi spingo ed entro: la casa è in penombra, vado in camera, lei è sdraiata sul letto, ancora in camicia da notte, mi chino su di lei, la bacio, sta piangendo. L’abbraccio e restiamo entrambi in silenzio, sento la limousine ripartire. Resto sdraiato accanto a lei, chiudo gli occhi.
Tutto è sempre uguale a sempre, ma qualcosa, qualche piccola cosa è mutata, lei non mi ha atteso davanti all’ingresso, era sul letto: le varianti sono allora possibili.
Mi alzo e vado in bagno, orino, mi bagno a lungo la faccia con l’acqua fredda, mi guardo allo specchio: sono invecchiato, dimagrito, la pelle ha assunto un colorito giallastro per niente buono ed è attaccata alle ossa della mia faccia, gli occhi sono arrossati come fossi febbricitante e infossati, i capelli non sono più neri, ma opachi e brizzolati.
Lo scotto da pagare per il primo balzo temporale di solo sette giorni, è stato alto per me, per tutti, sicuramente troppo alto, ma chi avrebbe potuto prevederne le conseguenze?
Devo cambiare qualcosa nell’immutabilità degli atti, ho visto che è possibile, comincio dalle piccole cose, devo uscire dalla routine, far uscire tutti dalla routine.
È successo che la cronomacchina è esplosa nell’attimo del ritorno, io sono morto allora, la mia vita attuale è solo apparente, quando giungerà il momento del ritorno il modulo esploderà e sarò costretto a rivivere all’infinito questa sequenza tra la partenza, l’arrivo nel futuro, i cinque giorni trascorsi nel futuro, il ritorno, la morte e di nuovo mi ritrovo all’arrivo, tutto si ripete in un loop infinito. Devo interromperlo, qualcosa oggi è mutato, lei mi attendeva sul letto, devo divergere dalla realtà codificata che s’è inceppata chissà da quanto, ma non è stabile, può mutare.
Esco dal bagno, mi accendo una sigaretta delle sue, io non ho mai fumato, cerco di traspirare l’aroma, ma tossisco, esco in veranda, il sole sta per tramontare: finisco la sigaretta senza traspirarla. Mi cambio ed esco, prendo una jeep e corro fino al mare, resto sugli scogli e guardo le onde frangersi fino al mattino. Ritorno alla villetta, c’è il generale che mi aspetta, davanti ad un caffè mi spiega che stanno cambiando tutta la strumentazione del modulo: è nuova e modificata, forse tutto andrà bene, l’ascolto privo d’interesse. Se tutto fosse andato bene il modulo non sarebbe esploso giorni fa al momento dell’arrivo e io non sarei morto in quell’istante. Siete stati tutti al mio funerale, comunque con l’aria assente l’ascolto senza intervenire. Finalmente se ne va, bevo anch’io un caffè e mangio qualche biscotto, afferro poi la mia ragazza, che è in cucina e faccio l’amore con lei sul tavolo, con rabbia, mentre lei passivamente si lascia fare.
Ora ha dei segni viola sul collo e sui seni, mi accendo un’altra sigaretta, comincio a prenderci gusto, esco cerco un’altra jeep e riparto, questa volta in direzione dei monti. Nessuno cerca di fermarmi, nessuno dice niente. Corro, corro sempre nella stessa direzione, passo villaggi e campi, metto benzina e riparto dal distributore senza pagare, giungo infine, molte ore dopo ad una grande città, non so quale sia e non può importarmene di meno. La benzina che ho messo sta per finire, c’è un parcheggio a più piani, lascio la jeep al quarto piano e scendo a piedi. Attraverso due strade e m’infilo in un pub semibuio e zeppo di gente che sembra immersa nei propri gesti, mi verso direttamente dal bancone una birra dietro l’altra, nessuno sembra far attenzione alla mia presenza, sono già morto, sono un fantasma penso ridacchiando tristemente tra me: è un’infinità di tempo che non sorridevo, questo è un buon segno. C’è roba da mangiare anche se cose di plastica da pub, posto a sufficienza per dormire, gabinetti a volontà, musica in sottofondo, anche se è sempre quel nazi-rock oggi di moda, ci sono poi accessi a programmi simstim alla parete, bene, mi collego.
Il tempo scorre, ma ne ho persa la cognizione: questa volta non partirò; cambierà qualcosa? Non ho risposte, ma a breve saprò. Da giorni sono sbronzo di birra, la barba è lunga ed è tutta grigia e ora fumo continuamente: nessuno chiede i soldi delle mie consumazioni e il locale sembra non chiudere mai. Tutti si comportano come se non esistessi, anche quella che forse è una barista e che mi sono scopato di brutto sul divano, ma è ovvio sono morto e loro ripetono all’infinito gli stessi gesti e se io esito ancora, scusatemi, loro cercano di non accorgersene, o almeno fanno il possibile. Sto dormendo, ma mi sveglio all’improvviso. Sono nella cronomacchina che cessa di ronzare, sono ancora una volta arrivato.
Rivivo per la millesima volta il momento, apro lo sportello, fuori due militari m’aspettano accanto alla cronomacchina c’è una limousine nera sempre più sporca con la portiera aperta. So cosa fare, supero i due militari ed entro in auto. Nell’abitacolo un tempo lussuoso c’è il solito generale ancor più trasandato che mi sta aspettando: sbadiglio mentre lui cantilena le solite cose, arrivo alla villetta entro la base, lei è in camera, mi getto sul letto accanto a lei e la lascio piangere.
Rifletto: devo fermare la sequenza, i militari non ci riescono, tutto si riavvolge su se stesso, non solo la mia vita, ma l’intera Terra e forse tutto l’universo o l’intero multiverso, addirittura.
Rifletto, bevo birra e fumo: la mia barba è lunga, quasi bianca, sto invecchiando ad una velocità impressionante. Devo mutare l’evento, comincio con una doccia calda, poi mi rado barba e capelli e m’infilo in una tuta azzurra dell’Adidas, cerco un paio di scarpe da ginnastica e in un armadietto ne trovo un paio della stessa marca e colore, me le metto. Vado poi nel salotto, c’è un piccolo frigo estraggo gin e succhi di frutta, prendo un bicchiere e poso tutto su un tavolinetto accanto al divano. Mi siedo, accendo la TRI-TV bevo e fumo, lei si siede accanto a me e poggia la testa sulla mia spalla. Attendo il ritorno del generale con la TRI-TV accesa su un canale musicale che trasmette quasi ininterrottamente brani di quel nazi-rock che mi sta sulle palle, così alla moda.
Passa un’eternità, infine il generale arriva, si siede accanto a me sul divano: prima ancora che inizi a parlare gli sfondo il cranio all’improvviso con un posacenere d’onice, estraggo dalla sua fondina la pistola, tolgo la sicura, mi accerto che sia carica e sparo in mezzo alla fronte alla mia ragazza che sta strillando a pieni polmoni appoggiata alla parete. Un foro rosso si delinea nel bel mezzo della sua fronte, poi lei scivola per terra e la parete dietro di lei è tutta schizzata di sangue come un informale di Pollok. Il generale ha tutto il volto coperto dal suo sangue che adesso gli sta inzuppando la divisa e sgocciola sul divano.
Mi metto la canna della pistola in bocca, rivolta verso l’alto e coi miei due indici premo dolcemente il grilletto.
Mi ritrovo all’istante nella cronomacchina mentre cessa il ronzio: capisco d’essere ancora una volta arrivato. Ho vissuto infinite volte questo momento, che avrebbe dovuto esser di vittoria per l’umanità e di gloria per il sottoscritto; fuori i due militari m’aspettano, accanto alla cronomacchina c’è la solita limousine con la portiera aperta, al suo interno il generale del cazzo, con la divisa stazzonata come non mai, mi sta aspettando.
Scendo dal modulo e mi siedo per terra, faccio cenno al generale nell’auto di venire da me. I due militari restano in piedi indifferenti, il generale è colto di sorpresa e resta nell’auto.
“Esci coglione!”
E aspetto, infine si decide e di malavoglia mi s’avvicina, poi si siede anche lui per terra guardandomi interrogativamente. Gli faccio cenno di tacere e lui non apre bocca. Chiedo se c’è una sigaretta, lui fa cenno ad un soldato e gli chiede di procurarla. Un soldato se ne va a piedi mentre l’altro resta indifferente in attesa così come il generale davanti ai miei occhi. Il tempo scorre lento, infine il soldato torna e mi porge un pacchetto di Marlboro senza filtro e uno Zippo. Mi accendo una sigaretta e assaporo con voluttà l’aroma del tabacco. Lentamente me la fumo tutta, poi con l’indice e il pollice scaglio lontano il mozzicone.
“Dobbiamo parlare, dico al generale, so benissimo cosa sta succedendo, al rientro il modulo è esploso e io sono morto, voi mi avete già fatto i funerali e adesso volete cambiare tutti i circuiti del modulo per arginare il malfunzionamento. È già stato fatto infinite volte e non ha funzionato. Voi invece lasciate stare tutto com’è, anzi io non mi muovo da qui fino al momento della partenza. Non voglio vedere nessuno, portatemi da mangiare, delle birre e delle sigarette. Niente altro, dormirò sul modulo e per il resto vivrò all’aperto proprio in questo punto. Lei mi lasci la sua pistola e stia certo che sparerò a chiunque si presenti, ora sparite tutti, mandatemi ciò che ho chiesto e dopo nessuno deve avvicinarsi.”
Il generale mi porge l’arma, arrossisce e risale in auto mormorandomi: “Buona fortuna!”. L’auto riparte e i due soldati mi fanno uno stanco saluto militare e a piedi se ne vanno. Resto seduto per terra, accanto al modulo, per la prima volta ho la sensazione di non aver mai vissuto questa situazione, il tempo passa, poi arriva una camionetta con altri due soldati che scaricano vari pacchi davanti a me, poi militarmente mi salutano e in silenzio ripartono.
È trascorso un giorno, forse due, chissà… la mia cognizione del tempo peggiora a vista d’occhio, come il mio aspetto d'altronde, l’area attorno al modulo sembra una discarica: lattine vuote di birra, escrementi, salviette sporche, resti di cibo, fogli di giornale, piatti, bicchieri e posate di plastica, resti di confezioni… cicche ovunque. I cinque giorni forse sono passati ed è il momento del ritorno, mi tolgo tutti i vestiti luridi che ho addosso e nudo rientro nel modulo, attendo.
Dopo un’eternità: PARTENZA!
Il ronzio cessa e l’esplosione non avviene, fuori mille telecamere mi stanno attendendo, bandiere dell’ONU degli USA, della CE, generali in alta uniforme e capi di stato in abito da cerimonia…
Non capisco, s’è interrotto il loop, come è possibile? Non ho fatto nulla stavolta per fermarlo… sono confuso come mai… forse sto sognando… apro il portello e faccio la mia uscita trionfale: un vecchio con la pelle gialla attaccata alle ossa, con la barba e i capelli lunghi totalmente bianchi, nudo, che barcolla e si tiene a mala pena in piedi.
A fatica mi alzo e scendo tra la folla che si è fatta muta, mi prendono conati di vomito e butto fuori le ultime birre mal digerite mentre orina calda scorre sulle mie gambe e sento che pure l’intestino si libera.
Mi accascio davanti all’intero mondo allibito, mille telecamere stanno trasmettendo le immagini a tutto il mondo… malgrado le apparenze sono finalmente felice, non avrò fatto un’uscita trionfale, ma ho allontanato l’incubo. Loro ancora non sanno.
©
Vittorio Baccelli
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