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«A Napoli ci sono più avvocati che in tutta la Francia» penso mentre scivolo lungo il corridoio umano che ogni mattina si forma in questo non luogo chiamato Tribunale. I corridoi sono stipati, davanti agli uffici file interminabili. Mi divincolo dalla folla con la speranza che a nessuno venga in mente di rivolgermi la parola e con passo svelto mi dirigo verso l’aula in cui dovrebbe svolgersi l’udienza. I fascicoli sono ammassati su un tavolo, mi avvicino e frugo fra le scartoffie in cerca dei documenti che mi occorrono. Una gomitata mi sfiora il viso, qualcuno mi strattona mentre sto cercando di leggere i verbali delle udienze precedenti. Pigiano come donnette il primo giorno dei saldi. «Mario. Anche tu qui?» una voce mi richiama all’attenzione. È Clara «Si, aspetto mio padre per un’udienza. Conosci meglio di me la storia della collezione di firme per l’accesso alla professione forense.» ironizzo causticamente. Clara allora mi abbraccia dall’alto dei suoi tacchi, un refolo di profumo rigorosamente francese mi assale. Non ha un solo capello fuori posto e dall’acconciatura spiccano le perle bianche dei suoi orecchini sobri ed eleganti. Mi chiede di salutarle mio padre, me lo chiede bisbigliando, con il suo fare di donna sicura e invincibile. La saluto e le auguro buona giornata, mentre torno ai gesti che avevo lasciato sospesi. L’aula continua a riempirsi: in pochi minuti fiotti di avvocati hanno ingombrato lo spazio, che quasi non basta a respirare. Mi volto, mi guardo intorno e chiedo ad uno che pare spazientito almeno quanto me, quando arriverà il giudice. « Oggi è in ritardo!» mi dice e penso che dopotutto non è una grande novità. Cerco un angolino, un anfratto dove potermi sedere. Lo vedo e mi fiondo ad occuparlo. Il vocio della gente cresce minuto dopo minuto e con esso la voglia di allontanarmi da questo posto inutile. Dovrei prepararmi per la discussione della causa e invece non faccio che pensare al racconto lasciato in sospeso sulla mia scrivania e agli occhi di Sara, che avevo incrociato due sere prima alla festa di Luca. Non mi sono presentato ma attendo la prossima occasione propizia. Richiedo l’ora, il giudice è palesemente in ritardo e intanto la confusione assume la forma di una bolgia di professionisti o presunti tali che strepitano alla ricerca delle loro controparti. Nugoli di praticanti escono ed entrano dall’aula, qualcuna si accomoda sulla scrivania del giudice con fare da diva, leggermente inclinata a sinistra e con le gambe accavallate chiacchiera con il collega di turno. Fa caldo, la finestra è serrata perché la gente aspetta persino seduta sul davanzale della finestra. Non sopporto la confusione né tanto meno i tempi morti. Mi estraneo per non perdermi nelle more di un’amministrazione inefficiente, effige di un sistema malato e che continua ad ingolfarsi. Farei ben volentieri a meno di esitare in questo ginepraio ma di poesia e giornalismo non si campa, almeno così dice mio padre. Mi rialzo, una ragazza mi ruba il posto, scivolando dietro di me come un’anguilla. Abbandono l’aula, ho bisogno di fumare. La sigaretta è il miglior viatico per ogni tipo di attesa e poi mi ispira. Segnali di fumo dalla mia bocca raccontano di un disagio tutto personale, ma si dissolvono prima che riesca a liberarli nell’aria. Continuo a tirare, anche la sigaretta sta per consumarsi del tutto. Sulla scia dell’ultima boccata tiro fuori il mio block notes e inizio a scrivere di getto:
Attese File, andate e ritorni inutili attese che soffocano giornate spese in vane attività oltre le quali si scorge la verità offuscata dall’impenetrabile fumo della fretta e dell’indifferenza. Fragile leggerezza dell’essere, nelle more mi alieno. La stanza non è più stanza, la sedia non è più sedia e le voci brulicanti degli astanti smaniosi si allontanano. Perdo i loro volti inespressivi e tesso le fila di una nuova poesia.
Vedo mio padre, ha appena parcheggiato, parla al cellulare e sembra furioso. Mi dice di aspettarlo, ripongo la penna e obbedisco sbuffando.
©
Marina Bisogno
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