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La badante di Bucarest
di Gianni Caria
Pubblicato su PB20


Anno 2012- Robin Edizioni
Prezzo € 12- 151pp.
ISBN 9788873719014

Una recensione di Lorena Curiman
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La badante di Bucarest

Una storia con romeni e italiani. Una storia per romeni e italiani. Una storia come le altre, una storia in più. Per capire meglio quanto poco siamo diversi e quanto poco basti per comunicare nonostante le barriere linguistiche e culturali. Forse l’unico modo per non sembrare così diversi e asociali in qualità di emigrati agli occhi del paese ospitante.

Il titolo ci fa pensare, erroneamente e sorprendentemente questa volta, alla solita badante romena, stereotipo ben radicato nella mentalità italiana e alla pari in quella romena, e l’aggiunta della dedica sulla prima pagina (A Elena, Otilia, Leana, Ana e a tutte le altre che lasciano la loro casa e di cui ignoriamo i sentimenti) consolida la convinzione che stiamo per leggere la storia drammatica di una donna costretta dalle difficoltà economiche a fare la serva in un paese di cui i cari rimasti a casa  hanno un’idea vaga, ma di cui si fidano cecamente che la mamma, la moglie, la sorella riusciranno a vivere meglio di loro e manderanno ogni mese un bel gruzzolo per le loro necessità.

Invece la situazione è diversa: la badante è italiana, ex insegnante, costretta dalla crisi economica, che ha portato l’Italia fuori dall’euro, a lasciare Roma e la sua famiglia, dimenticarsi di tutto e di tutti e accontentarsi di uno stipendio mediocre, ma sicuro, in una città lontana e sconosciuta. Non posso voltarmi per non tornare indietro, con queste parole lascia gli affetti e le sicurezze. Starò meglio quando estirperò i sentimenti senza lasciare radici, convinta che con il passare del tempo farà abitudine alla lontananza del mondo che ha sempre conosciuto e dove non esisteva la parola emigrato se non per le povere persone disgraziate e incomprese che per anni sono arrivate nel suo paese alla ricerca di un lavoro.

All’inizio del viaggio verso una terra sconosciuta e verso un lavoro necessario per la sopravvivenza, si rende conto che non ha finito di strappare via tutto dalla pelle, continua a ragionare sulla sconfitta sociale e sul modo strano, indifferente nei suoi confronti della sua famiglia di far fronte a questa situazione anomale. Si chiude sempre di più nel suo dolore, rifiutando la compagnia delle altre persone in viaggio verso la stessa terra sconosciuta: Ho diritto al silenzio, un silenzio tutto mio. Non quello dei giorni passati, il silenzio colpevole si Enzo, quello punitivo di Irene, quello indifferente di Carlino. Mi appoggiavo a quei silenzi, corrimani di scale ripide e senza sbocchi. Il non sentire gli altri mi serviva per non sentire il dolore. Ora ho bisogno di sentire il mio dolore, perché è tutto mio e non voglio darlo a nessuno, me lo voglio coccolare il mio dolore, farlo crescere.

La consapevolezza della sua mancanza accanto ai figli che cresceranno anche nella sua assenza e dovranno fare a meno del suo aiuto immediato e naturale, la fa sentire in colpa per la scelta obbligata e forzata di allontanarsi da loro: Non sarò là ad annaffiare le loro crescite.

Sentimenti contrari e di incapacità la pervadono per tutto il lungo viaggio in pullman, da Roma a Bucarest, durante il quale riesce dopo tanti anni a fare una breve e reale analisi della sua vita e soprattutto dei meccanismi bugiardi della società e la falsità delle persone nella comunicazione dei propri sentimenti: Protezione, barriere, tutto contro gli altri. Ora sono gli altri a usarle contro di noi. (…) Io cerco in questo viaggio che odora di silenzi stanchi qualcosa di me a cui non so dare ancora un nome proprio.

L’ostilità e il rinnego del posto che l’ha ospiterà per un tempo indeterminato sono di fatto il disagio, la paura dello sconosciuto, l’inadeguatezza a una cultura diversa dalla sua e implicitamente la confusione del perché e come sia arrivato un paese come il suo a prestare gli stessi servizi allo stesso paese dal quale solo qualche anno fa arrivavano sempre per sopravvivenza, non capita fino in fondo allora pure da lei, persone guardate e giudicate con sufficienza, senza la pietà e la curiosità di scoprire chi sono in realtà, che lavoro facevano a casa loro prima di essere stati costretti a emigrare, che aspettative, passioni e conoscenze avevano, ma principalmente quanto grande era il loro dolore, separati dai figli, annullati completamente come persone dalla necessità di mandare alle loro famiglie tutti i soldi guadagnati e non accettati socialmente per i preconcetti. Non guardo fuori, non m’interessa, non sarà questo il mio posto.

Come mi sentivo bene, noi italiani e loro stranieri. Adesso sono prigioniera in terra straniera. La consapevolezza degli sbagli del passato, nei confronti dei rapporti umani sia all’interno della famiglia che fuori, nei rapporti con gli stranieri incontrati a ogni passo e trattati con indifferenza e a volte con arroganza, la fa riflettere e capire allo stesso tempo i sacrifici e il calvario di tutti gli emigrati nell’adattarsi a un’altra realtà, integrarsi in un’altra società e adottare un’altra cultura da oggi a domani, più in fretta possibile, che gli piaccia o no, perché è l’unico modo di sopportare lo sconvolgimento che hanno subito: Quanto ci sbagliamo sulle culture altre, che presunzione manifestiamo.

Lo smarrimento vissuto da tutti gli emigrati davanti alla lingua del posto dove sono arrivati per sopravvivere, non per stare meglio, confonde ancora di più i sentimenti dell’ex insegnante:

Lo sanno tutti, il romeno è una lingua neolatina: mi facevo coraggio, come se in Romania bastasse parlare un italiano arcaico per farsi capire. Vedevo qua e là qualche parola simile all’italiano e mi attaccavo a quella zattera linguistica perché mi salvasse. Ho cercato subito casa, casa, come da noi. La mia casa avrà solo un accento strano, ma si pronuncia nella stessa maniera (…) Servo, servitor, solitudine, solitudine. Tutta la mia prossima vita ( … ) Ieri, ieri, oggi, azi, domani, maine. Ieri è uguale, oggi mi è estraneo, domani si può capire e non capire.

Il lavoro umiliante di badante, l’ostacolo della lingua e quindi l’incapacità di comunicare e di esprimere qualsiasi suo pensiero, il trattamento basilare e apatico della famiglia ospitante, l’immobilità dell’anziano che ha in cura, gli cambiano la visione della vita e la gerarchia dell’importanza delle cose: Si può provare un piccolo amore  in un lavoro servile, nel far bene una cosa sola, minima. Non salverò il mondo, quindi non modificherò menti e situazioni. Non salverò neanche i miei cari, neanche me stessa, a pensarci bene. Ma conquisto una modesta sensibile soddisfazione del lavoro ben fatto (…) Ora apprendevo del risparmio di dieci centesimi come se fosse un notevole miglioramento delle mie condizioni economiche.

Dopo due mesi al servizio della famiglia romena, che confinava i suoi territori dai suoi, sia per gli spazi dentro la casa che per qualsiasi forma d’interazione (Non faccio un lavoro intellettuale, non mi posso lamentare di come non vengano considerate in maniera adeguata la mia intelligenza e la mia preparazione), nonostante avesse superato il brusco impatto con la realtà, si sente isolata lo stesso dal grande amore della sua vita:

Non mi manca certo la confidenza con i libri, però mi frenava l’impotenza di non sapere cosa ci fosse scritto, di non dominarli (…) Il libro, i libri sono stati la mia vita e il mio scopo, i miei sogni raggiunti. Ne ho fatto motivo di studio e poi un lavoro (…) Mi fa male leggere, mi fa molto male, perché i libri mi hanno fregato. Mi hanno fatto credere che potessero spiegare tutto e che in esso fosse tutto.

Con orgoglio e sollievo manda il primo stipendio al resto della famiglia e immagina le loro facce un po’ più serene per qualche difficoltà in meno, ma: So che quelli che li riceveranno non distingueranno nella filigrana delle banconote la trama sottile della mia umiliazione.

Con amara ironia, la protagonista mette in primo piano il riposizionamento sociale e psicologico, filtrato da una razionalità acuta e di riflessioni tra il nostalgico e il cinico, ma sempre impregnate di dolore: il dolore dello sradicamento, della solitudine e dell’abbandono,dell’esclusione,dell’incapacità di comprensione e di rapportarsi. Il mio percorso a ridosso del muro, da formica dispersa, mi conduce dentro e fuori alla scoperta del nuovo esteriore e interiore.

Mettersi nei pani dell’ex insegnante italiana significa mettersi nei pani delle badanti, romene, italiane e di qualsiasi altra nazionalità, significa lanciare uno sguardo intorno a sé stesso, significa aprire i propri orizzonti, rabbrividire e riflettere.

La storia di Caria presenta una situazione improbabile e paradossale, ma è il suo talento di entrare e capire perfettamente le miriadi dell’universo femminile rapportato al mondo che sta cambiando, a sorprenderci piacevolmente, partendo da una realtà immaginata ma che «se non stiamo attenti non è poi troppo lontana», come dice l’autore stesso, e arrivando alla fine del libro con sorprendenti confessioni e decisioni inaspettate da parte della protagonista.

La badante di Bucarest è uno di quei libri che ci presenta la realtà in modo duro, freddo, tremendo. «Ho scritto di un mondo rovesciato per parlare della mancanza di certezze, di come gli equilibri di una vita familiari e sociali possano essere illusori, di come in Italia siamo illusi del fatto che il benessere sia un dato acquisito e non da conquistare giorno per giorno: è un po’ l’immagine dell’orchestra che suona mentre il Titanic affonda» (Gianni Caria).

Il messaggio di Caria è chiaro: in Romania come in Italia e ovunque, le persone sono esposte ai colpi della vita, ma qualunque sia la nazionalità, la religione e il modo di vivere che apparentemente li divide,possono capirsi, parlarsi e aiutarsi.

Gianni Caria (Sassari, 1960) è magistrato e presta servizio come Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Sassari. 
Ha esordito con il romanzo La badante di Bucarest.       
Ha tradotto insieme a Isabel Espinosa Arronte il romanzo Gli anni falsi di Josefina Vicens (Angelica Editore).


Una recensione di Lorena Curiman



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