Il romanzo Il sorriso sardo(ma anche sardonico) tradotto in italiano, dall’originale francese, da Giulio Concu e pubblicato nell’aprile del 2012 dalle Edizioni Il Maestrale (Nuoro), postfazione di Marinella Lorinczi, è ambientato in Sardegna, in un paesino sul mare, sulla costa occidentale:
colline scoscese radunate intorno a quell’ansa di sabbia sorvegliavano la spiaggia con i musi sulle zampe, con una vigilanza gelosa e inquietante.E al di sopra dei grugni delle rocce, i colli arrotondati, dal manto ruvido di macchia bruciato dal solstizio. Quella caletta era assediata, braccata dalle colline malvagie; ma poiché un divieto magico le immobilizzava al margine della spiaggia, lei godeva di una miracolosa sicurezza: il mare non avrebbe mai potuto sommergerla, le colline non sarebbero mai riuscite a liberarsi dalla loro immobilità accovacciata , a scattare in fine per lacerarla con i loro artigli di scisto.
Il personaggio-narratore arriva sull’isola per trascorrere uno dei suoi abituali soggiorni ospite del professor Carl-Gustaf Enquist, brillante archeologo svizzero che ha rinunciato alla carriera per motivi oscuri e che vive il proprio esilio in una casa sulla collina che domina il paese insieme alla moglie, Freia (nome inventato con il quale pretendeva essere chiamata soprattutto dal marito e dal figlio), ricca svedese dall’aspetto pericolosamente attraente, e al figlio Mikael. L’isolamento è interrotto solo dalle visite dell’amico professor Zametti e di un allievo (il narratore della storia). Carl-Gustaf venera Freia: donna glaciale che rifiuta il contatto fisico, ma che non teme di mostrarsi poco vestita in giro, per il paese, una seduttrice terrificante perché ostentava freddezza e purezza ed era effettivamente fredda, se non addirittura pura. Lo stesso narratore rileva che fu un tempo in cui mi infatuai un po’ della signora Enquist e si mostra meravigliato della decisione di Carl-Gustaf di abbandonare a poco a poco la carriera di studioso e seppellirsi in quel paesino sardo che non meritava neppure l’attenzione dei turisti. Il tragitto percorso ogni volta per raggiungere la casa del professore è descritto minuziosamente: partendo da Cagliari verso la costa occidentale e attraversando Iglesias e Oristano si scorgono lungo il percorso i villaggi di Villasurgiu e Logusimius (Villasimius), Foguduru e Murangianus (Fordongianus), Casteddu e Nurra, nomi resi scuri foneticamente dalla predominanza di una u oscura e soffocata come un ululato notturno. Sull’altopiano della Giara, dietro le colline che la separano da un minuscolo villaggio di pescatori dove si svolge il racconto, vivono i pastori, i veri Sardi, dal linguaggio incomprensibile, fieri e liberi:
Non uno di loro accetterebbe di fare il domestico. Vogliono essere liberi. Lo sono sempre stati. Non c’è mai stato neppure un padrone in Sardegna, nonostante la dominazione spagnola.
Non lontano dal misero paesino si erge il nuraghe Sardegra (Sardegna -possibile riferimento al grande nuraghe Losa nella pianura di Abbasanta), con una scala elicoidale nell’intercapedine muraria: il nuraghe si erge ancora dopo tre millenni, per circa quindici metri di altezza e i suoi muri sono spessi nove metri alla base. All’interno regna un’ombra secca, striata dai fasci di sole, che filtrano attraverso gli interstizi. La scala a spirale, dai blocchi ciclopici sotto la falsa ogiva realizzata con blocchi ancora più pesanti, sale all’interno dello spessore murario. Nella muraglia, alcune nicchie sono sistemate a tradimento sulla sinistra di chi scivola nelle gallerie. Da lì, un solo difensore, col suo elmo dalle corna pomellate e la sua spada di bronzo, poteva colpire il fianco disarmato dell’assalitore e chiudere l’apertura del corridoio con i corpi dei primi tre nemici colpiti.
Una realtà scabrosa si rivela a Carl-Gustaf quando si rende conto della passione di Freia per il figlio Mikael. La gelosia farà precipitare gli eventi. Lo scrittore romeno rimodella a suo piacere, in funzione di come intende portare a compimento la narrazione di una storia tragica, intessuta di logiche interpersonali oscure e vischiose, immorali, indecenti e innocenti allo stesso tempo, che logoreranno e distruggeranno la vita di una moderna e nordica famiglia, sulla quale incombe invisibile il controllo da parte degli abitanti del paese.
Quando la moglie e il figlio spariscono senza traccia dal contesto sardo e il padre-marito entra in coma etilico senza alcuna speranza di ripresa, il mutismo ostile dei custodi e delle inservienti di casa nasconde qualcosa e mette paura: appoggiati a un basso muro, alcuni uomini, sagome scure, con le mani in tasca, osservavano. Le persone che sapevano tutto si erano chiuse in se stesse, ripiegate, distanti, nascoste, divise da tutto quello che erano, da tutto quello che sapevano e che gli stranieri non sarebbero mai riusciti a sapere, prima di tutto separati dalla lingua - non ci tenevano a essere capiti, si trinceravano nel loro isolamento. Una maschera tragica e antica e imperitura, archetipica, quella del viso dalla bocca sarda irrigidita e ghignante, che irride le proprie sofferenze e che esprime il tormento dell’anima (sul viso scarno e duro un abbozzo di sorriso storto) si adatta magnificamente ai dialoghi eruditi dei personaggi. I personaggi maschili sardi del romanzo portano nomi quali Lupu, Taureddu, Marteddu, nomi alludenti peraltro a figure ed elementi del panteon europeo e mediterraneo precristiano. L’attenzione è attirata soprattutto da Lupu:
Ha una prudenza e una circospezione da bestia selvaggia. Non nei movimenti che sono molto umani e più precisamente contadini, ma nella sua maniera di essere continuamente all’erta, di affrontare tutto quello che gli potrebbe accadere, è in atteggiamento di difesa.
Dumitriu vuole creare un ambiente molto simile alla realtà sarda e parla anche delle Domus de Janas, strutture sepolcrali preistoriche costituite da tombe scavate nella roccia, pozzi sacri,capolavori architettonici arcaici, dalla scalinata che scende dritta nel sottosuolo acquoso e tenebroso, e delle accabadoras, le terminatrici - delle comari del paese, che si facevano venire in caso di bisogno. Le chiamavano soltanto quando in famiglia c’era qualcuno che ci metteva troppo tempo a morire. Arrivavano di notte e con mano caritatevole, ma ferma serravano la gola o assestavano un colpo di scure in nome del Padre,delle quali non si dovrebbe far parola coi sardi, ammonisce un personaggio, perché essi considerano questa credenza una diceria infamante.
Il finale tragico, la verità sulla catastrofe è sconcertante: non c’è niente lassù, nient’altro che solitudine, silenzio, molto alto in cielo, delle albanelle. A perdita d’occhio niente, nessuno … Tutto accade in silezio, ma non era il silenzio, era il vento.