La figura di san Sebastiano, rappresentato nudo e legato ad un albero nell’atto di essere trafitto dalle frecce, è un’icona della letteratura decadente di fine XIX secolo marcato fortemente in senso sadomasochista con deviazioni omosessuali.
Il numero dei sedotti da questo genere di rappresentazioni nell’epoca del decadentismo fu notevole e tra i più famosi possiamo citare Gabriele D’Annunzio e Claude Debussy che magistralmente musicò il poema dannunziano nel famoso Marthyre de Saint Sèbastien, cantata per coro, soli, orchestra e voce recitante, un brano nel quale la sofferenza del martirio e l’apollinea melodia del suono tendono all’estasi.
E’ singolare poter aggiungere a questi due autori la figura di un’artista più moderno, anche lui travolto dall’immagine del Martire, ma operante in una civiltà ben lontana da quella europea dei primi anni del XX secolo.
Yukio Mishima infatti nasce a Tokyo nel 1925 e scrive il suo Confessioni di una maschera nel 1949 (Biblioteca di Repubblica, 2003, traduzioni di Marcella Bonsanti). Egli racconta come avvenne la precoce fascinazione del San Sebastiano, quando, adolescente, consultando un libro che suo padre voleva tenergli nascosto, è folgorato da una riproduzione del martirio del santo milanese, opera del pittore Guido Reni.
Ecco come Mishima stesso racconta l’episodio.
Quella sua bianca e incomparabile nudità scintilla contro uno sfondo di crepuscolo. Le braccia nerborute, braccia d’un pretoriano solito a flettere l’arco e a blandire la spada, sono levate in una curva armoniosa e i polsi si incrociano immediatamente al di sopra del capo. Il viso è volto leggermente in alto e gli occhi sono spalancati a contemplare la gloria del paradiso con profonda tranquillità. Non è la sofferenza che aleggia sul petto dilatato, sull’addome teso, sulle labbra appena contorte, ma un tremolio di piacere malinconico come una musica. Non fosse per le frecce con le punte conficcate nell’ascella sinistra e nel fianco destro, egli sembrerebbe piuttosto un atleta romano che allevia la stanchezza in un giardino, appoggiato contro un albero scuro. Le frecce si sono addentrate nel vivo della giovane carne polposa e fragrante e stanno per consumare il corpo dall’interno con fiamme di strazio e d’estasi suprema. Ma il sangue non sgorga, non ha ancora infuriato il nugolo di frecce che si vedono in altri dipinti del martirio di San Sebastiano. Qui invece, due frecce solitarie mandano le loro ombre quiete e delicate sopra la levigatezza della pelle, simili alle ombre d’un ramo che cadono su una scala di marmo.(pag.39)
Ma tutte queste interpretazioni e scoperte vennero in un secondo tempo. Quel giorno, nell’attimo in cui scorsi il dipinto, tutto il mio essere fremette d’una gioia pagana. Il sangue mi tumultuò nelle vene, i lombi si gonfiarono quasi in un empito di rabbia. La parte mostruosa di me che era pronta ad esplodere attendeva che io ne usassi con un ardore senza precedenti, rinfacciandomi la mia ignoranza, ansimando per lo sdegno. Le mani, affatto inconsciamente, cominciarono un movimento che non avevano imparato mai. Sentii un che di segreto, un che di radioso, lanciarsi ratto all’assalto dal di dentro. Eruppe all’improvviso, portando con sé un’ebrezza accecante… Fu quella la mia prima eiaculazione. (pag.40).
All’infatuazione morbosa per la figura del santo ricavata dal libro si sovrappone in lui l’infatuazione (e parallela alla prima) per un compagno di scuola, un certo Omi, che alla bellezza apollinea unisce l’irresistibile attrazione dell’ardimento e dell’agire, per molti aspetti, descritto come eroico.
Per me fu quello il primo amore della mia vita. E, se è lecito scusare un modo di esprimersi così brusco, fu un amore in stretta attinenza con i desideri della carne.…quanto ricavai da lui fu un preciso prototipo della perfezione della vita e della virilità, impersonato nei suoi sopraccigli, nella fronte, negli occhi, nel naso, negli orecchi, nelle guance, negli zigomi, nella labbra, nelle mascelle, nella nuca, nella gola, nella conformazione fisica, nel colorito della pelle, nella forza, nel petto, nelle mani e in innumerevoli altri suoi attributi (pag.60).
Cominciò la mia attesa impaziente dell’estate, o almeno del principio dell’estate. Certo, mi dicevo, l’estate porterà l’occasione di vedere il suo corpo nudo. Eppoi, accarezzavo nel segreto del cuore una brama ancora più vergognosa: quella di vedere il “grosso coso” di Omi. (pag.57)…
il “male” di Omi finì con l’assumere un significato diverso ai miei occhi. Decisi che il vasto complotto in cui il demone lo aveva trascinato con la su società segreta tentacolare e le sue mene sotterranee minuziosamente congegnate, era inteso senza dubbio a beneficio di un dio proibito. Omi aveva servito quel dio, aveva tentato di far proseliti alla propria fede, era stato tradito e quindi messo nascostamente a morte. Una sera, all’imbrunire, lo avevano denudato e condotto al boschetto sul colle. Lassù lo avevano incatenato a un albero con le mani legate sopra la testa. La prima freccia gli aveva trafitto il costato; la seconda l’ascella. (pag.82).
In Mishima il legame tra l’innamoramento per Omi con la seduzione derivante dalla contemplazione del San Sebastiano è palese. Ma mentre Omi mette in mostra i segni di una conturbante virilità, il Sebastiano dipinto è un essere apollineo, femmineo; la sua figura caso mai ricorda di più la pittura dei pre-raffaelliti popolata appunto da queste figure efebiche.
…quanto ricavai da lui fu un preciso prototipo della perfezione della vita e della virilità, impersonato nei suoi sopraccigli, nella fronte, negli occhi, nel naso, negli orecchi, nelle guance, negli zigomi, nella labbra, nelle mascelle, nella nuca, nella gola, nella conformazione fisica, nel colorito della pelle, nella forza, nel petto, nelle mani e in innumerevoli altri suoi attributi (pag.60).
Sull’Efebo nella pittura di Moreau, ecco cosa scrive Mario Praz (La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica). a pag. 265:
Nel Moreau le figure sono ambigue, quasi non distingui al primo momento chi dei due amanti sia l’uomo e chi la donna, tutti i personaggi sono stretti da sottili vincoli di parentela come nella Lesbia Brandon del Swiburne: gli amanti sono come consanguinei, i fratelli son come amanti, gli uomini han volti virinali, le vergini, volti d’efebo; i simboli del Bene e del Male s’allacciano e si confondono equivocamente. Non v’è contrasto alcuno d’età, di sessi, di tipi: il senso segreto di questa pittura è l’incesto, la figura esaltata è l’androgino e l’ultima parola è sterilità.
Vivendo lontano da questa sensibilità romantica (in cui vorrebbe vivere) l’autore di Confessioni di una maschera è, per tutto ciò che si è detto prima, votato all’infelicità. Mishima descrive l’inclinazione verso una ragazza amica d’infanzia ma racconta come si senta incapace di stabilire con lei una qualche forma di passione. Così la ragazza, di nome Sonoko, anche se sposerà un altro uomo, rimane in scena fino all’ultima riga del romanzo al solo scopo di infliggere continui tormenti, con la sua normalità, alla diversità di Mishima. C’è in tutto il libro il tentativo ossessivamente frustrato e continuamente rimandato di baciare l’amica, il continuo desiderio di innamorarsi che viene ogni volta deluso. Troppo umana e “normale” la bella Sonoko per suscitare “desideri sansuali”
Tutt’a un tratto mi assalì quel dolore acerbo che deriva dal fissare troppo a lungo un oggetto. Il dolore proclamava: tu non sei umano. Sei un essere incapace di rapporti col prossimo. Non sei nient’altro che un animale, inumano e in certo qual modo stranamente patetico (pag. 202).
Ma desideri le donne, tu? Non stai ingannando te stesso quando affermi che verso di lei soltanto non hai mai nutrito un “desiderio sensuale”? Non stai cercando di nascondere a tè stesso come stanno le cose, ossia che non hai mai nutrito “desideri sensuali” verso nessuna donna? Ti sei immaginato una volta sola la nudità di Sonoko?(pag.154).
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Durante il giorno te ne vai per la strada e non hai occhi che per soldati e marinai. Ecco i giovani che fanno per te.(155)
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La tua immaginazione assomiglia al vascolo in cui l’erborista ripone gli esemplari delle piante: lì dentro raccogli i corpi nudi di tutti gli efebi che hai visto nel corso del giorno e poi, la sera, a letto, scegli dalla tua raccolta l’olocausto rituale della tua cerimonia pagana, dando la preferenza a quello che ha particolarmente colpito la tua fantasia. E ciò che segue rivolta addirittura lo stomaco.
Conduci la tua vittima davanti a un curioso pilastro esagonale nascondendo una fune dietro a te. Quindi leghi al pilastro il suo corpo ignudo, tirandogli le braccia al di sopra del capo. Prolunghi l’operazione affinchè il disgraziato si dibatta a più non posso e strilli a squarciagola. Gli fai una descrizione minuziosa della morte imminente e intanto uno strano, un innocente sorriso ti aleggia incessantemente sulle labbra. Ti cavi di tasca un coltello affilato, gli vai vicino, sempre più vicino e con la punta del coltello solletichi la pelle del petto dilatato nel travaglio, adagio adagio, carezzevolmente. Lui rompe in un urlo angoscioso, contorcendo le membra nello sforzo di sfuggire al coltello; il suo fiato esce in un muggito di affanno e di terrore; le gambe tremano i ginocchi cozzano con strepito. Lentamente il coltello s’infila nel costato. (Ecco la nefandezza che hai compiuto!). La vittima inarca il corpo cacciando uno strido isolato, miserando e uno spasimo serpeggia nei muscoli intorno alla ferita. Il coltello è stato affondato nella carne aggricciata con la stessa calma con cui si potrebbe inserirlo nel fodero. Uno zampillo di sangue sprizza e ribolle e cola giù, verso le cosce levigate. (156)
Anziché accondiscendere al fidanzamento con Sonoko, Mishima va in un bordello per infliggersi una nuova umiliazione (“Dopo dieci minuti non c’erano più dubbi sulla mia impotenza. Mi tremavano i ginocchi per la vergogna,” pag.199).
Sonoko sposerà un altro uomo ma Mishima non si allontanerà da lei. Si ripetono gli appuntamenti, si direbbe per il solo scopo di realizzare quelle autopunizioni a cui egli non sa resistere. Ad una festa da ballo in cui va con lei, la sua attenzione è piuttosto rivolta verso un ragazzo “con una peonia tatuata sul duro torace”.
Avevo dimenticato l’esistenza di Sonoko. A nulla pensavo fuorchè a queste cose: a lui che usciva nelle strade della torrida estate così seminudo com’era, e si cacciava nella zuffa con una banda rivale. A un pugnale acuminato che squarciava quella fascia, trafiggeva quel torso. A quella sudicia fascia mirabilmente tinta di vermiglio. Al suo cadavere lordo di sangue rappreso che veniva deposto su una barella improvvisata con una persiana e riportato lì dentro… (pag.221)
Laddove è più forte la passione tanto più forte il desiderio del sangue come in Baudelaire. Mishima deve infliggersi continui tormenti e tormentare a sua volta Sonoko delusa e smarrita, forse anche un po’ impaurita. Assistiamo così ad una serie di comportamenti definiti in psicologia con il termine di “algolagnia”, una perversione sessuale di tipo sado-masochistico che consiste nel trarre un soddisfacimento dal dolore fisico inferto alla persona amata (a.attiva) o ricevuto da questa (a.passiva). In Mishima queste due componenti coesistono.
Per Mario Praz il piacere derivante dal dolore è il tema dominante della letteratura europea a partire dal marchese De Sade fino ai primi decenni del secolo XX. D’Annunzio tra i tanti ne rende tesimonianza:
Perché l’uomo ha nella sua natura questa orribile facoltà di godere con maggiore acutezza quando è consapevole di nuocere alla creatura da cui prende il godimento? Perché un germe della tanto esecrata perversione sadica è in ciascun uomo che ama e che desidera? (D’Annunzio, “L’Innocente” pag. 29).
Per parte sua Mishima, lucido osservatore e malato dello stesso male, annota:
(Si nota un‘interessante coincidenza nel fatto che Hirschfeld assegni alle “immagini del San Sebastiano” il primo posto fra quei generi d’opere d’arte dai quali l’invertito trae un godimento speciale. Questa osservazione di Hirschfeld conduce facilmente alla congettura che nella stragrande maggioranza dei casi di inversione, soprattutto di inversione congenita, gli impulsi degli invertiti e dei sadici siano commisti inestricabilmente) (Confessioni di una maschera, pag.40)
E ancora:
…Era questi Sebastiano il giovane capo della guardia pretoriana. E una bellezza pari alla sua non era forse predestinata a morte? Forse che le robuste matrone di Roma i cui sensi erano allenati dal gusto del buon vino che faceva fremere le ossa e dal sapore di rosse carni sanguinolente, non subodoravano immediatamente la sua sorte decretata dalle stelle infauste, tutt’ora a lui ignota, e non lo amavano per questo motivo? Il suo sangue tumultuava a un ritmo anche più furioso sotto la carne bianca, pronto a sgorgare al più presto, non appena quella carne fosse stata squarciata. Come avrebbero potuto non udire, quelle donne, i desideri tempestosi d’un simile sangue? (pag.44)
Nei suoi sogni Mishima addirittura si impersonifica in
“…uno di quei feroci predoni che, non sapendo come manifestare l’amore, uccidono erroneamente la creatura amata. Baciavo le labbra di quanti erano stramazzati a terra e ancora si contorcevano in sussulti spasmodici” (pag. 85)
Lungamente accarezzato, anche il narcisismo prorompe senza freni:
Da quand’era cominciata la mia ossessione per l’immagine di San Sebastiano, avevo preso senza avvedermene l’abitudine d’incrociare le mani sopra la testa ogni volta che mi capitava di esser nudo. Era un corpo gracile, il mio, senza nemmeno la più pallida traccia della florida bellezza di Sabastiano. Ma adesso tornai a atteggiarmi spontaneamente in quella posa. Così facendo, lo sguardo mi cadde sopra le mie ascelle. E un misterioso desiderio sessuale si mise a bollire dentro di me. (80)
Lì in quel mio teatro di stragi, giovani gladiatori romani immolavano la vita per mio divertimento: e ogni morte che vi aveva luogo non doveva soltanto ridondare di sangue, ma adempiersi per giunta con tutte le cerimonie del caso. Io mi beavo di qualsiasi forma di pena capitale e dell’armamentario occorrente all’esecuzione. Ma avevo posto il veto agli strumenti di tortura, oltre che alla forca, in quanto non mi avrebbero offerto una visione di sangue a fiotti. Né erano di mio gusto le armi da fuoco, quali pistole e fucili. Fin dove mi ero consentito, sceglievo armi primitive e selvagge: frecce, pugnali, alabarde. E allo scopo di protrarre un’agonia, era il ventre che bisognava prendere di mira. La vittima sacrificale doveva emettere urli patetici, funerei, che echeggiassero a lungo, così da far provare all’ascoltatore l’indicibile solitudine dell’esistenza (84)
Il sadismo, osserva Praz, può avere facilmente uno sbocco sul piano della morale civile. Citando il testo del Martyre de Saint Sèbastien di D’Annunzio, Praz parla apertamente di voluttà del martirio (pag. 246)… (Similmente, nel Saint Sèbastien, l’imperatore tenta il Santo con visioni d’apoteosi e d’impero: “Moi vivant, je te lèguerai – l’empire. Tu sera le maître”) pag. 252.
“Dal sadismo al culto d’un energia sublimata, messa al servizio della patria o dell’umanità: è la parabola comune allo Swinburne, al Barrès, a D’Annunzio” (ancora Mario Praz, a pag.354)
E sarà questo genere di vitalismo eroico a sfondo omosessuale, unito a una complessa e irrefrenabile pulsione di istinto di morte, l’humus in cui si svilupparono i fascismi e i nazismi della prima metà del secolo scorso.
Di Mishima conosciamo l’evoluzione in età adulta e la sua morte leggendaria. Egli dedicò la sua vita al culto degli antichi samurai fondando l’Associazione degli Scudi a carattere fortemente nazionalista e tradizionalista che chiedeva il riarmo del Giappone e il ricupero della sua vocazione imperialista. Per estrema protesta contro la smilitarizzazione del Paese, nel 1970 egli si uccise con un clamoroso harakiri nell’Ufficio del Capo di Stato Maggiore dell’esercito.