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Il miracolo della letteratura indiana contemporanea
a cura di Silvia Merialdo


Salman RushdieOrmai dieci anni fa, nel maggio 1997, si incontrarono a Londra undici scrittori indiani provenienti da diverse parti del mondo: fra gli altri, erano presenti Arundhati Roy, Rohinton Mistry, Vikram Seth, Amitav Ghosh, Vikram Chandra. Su tutti, poi, troneggiava il rinomatissimo Salman Rushdie.
L’incontro era organizzato dal New Yorker per celebrare, nel cinquantesimo anniversario dell’indipendenza dell’India, il miracolo della letteratura indiana contemporanea in lingua inglese. A dire la verità, molti di questi scrittori non abitavano ormai più da tempo in India ed erano presenti scrittori anche non di nazionalità indiana ma provenienti da altri paesi del sub-continente (Sri Lanka e Pakistan).
L’organizzatore dell’incontro non seppe dire perché aveva scelto proprio quegli undici, né che cosa accomunava i vari autori, trovando estremamente difficile definire temi comuni o similitudini. Ma era indubbio il miracolo di una letteratura che aveva trovato finalmente una certa rilevanza internazionale e un nuovo interesse di editori e lettori. Da allora, negli ultimi dieci anni la letteratura indiana ha guadagnato ulteriori consensi e sono sempre di più i titoli pubblicati e gli autori da scoprire. E non a caso, è stata l’India il paese ospite della Fiera di Francoforte del 2006, la più grande fiera libraria internazionale.
Parlare di letteratura indiana in questi termini, però, è un po’ riduttivo. Cinquanta o dieci anni non sono niente rispetto all’età della letteratura indiana, che si perde nella notte dei tempi. I due grandi poemi epici, il Ramayana e il Mahabharata risalgono a qualche secolo prima di Cristo, per non parlare dei testi religiosi in sanscrito, dei poemi tamil o delle poesie in urdu. Per la varietà linguistica dell’India, con 23 lingue ufficiali e centinaia di ufficiose ma largamente parlate, considerare poi solo gli scrittori in lingua inglese è ulteriormente riduttivo, con tutte le tradizioni letterarie proprie delle diverse lingue. Tant’è vero che non bisognerebbe neanche parlare di “letteratura indiana” ma invece di “letterature indiane”.
Rohinton MistryMa le prime pagine indiane nelle nostre letture sono state quelle delle traduzioni in inglese, arrivate tramite il colonialismo, delle poesie di Tagore (premio Nobel 1913), da lui stesso tradotte in inglese dal bengali. Nel 1947 è poi arrivata l’indipendenza e l’India si è trovata ad essere una nazione enorme, piena di risorse e povertà, di storie da raccontare e segreti da tacere, di nuove idee e vecchi problemi. Di vecchie idee e nuovi scrittori. E così abbiamo conosciuto i romanzi di Anita Desai e Narayan, in inglese per motivi linguistici (l’inglese era l’unica lingua letteraria studiata a scuola) ma anche per il desiderio di spiegare l’India al di fuori dell’India.
È arrivato poi Salman Rushdie, che ha spiazzato tutti con I figli della mezzanotte (Booker Prize nel 1984), con la sua prosa affabulante e le sue fantastiche storie. Rushdie ha avuto il merito, come dice Arundhati Roy, che “il mondo non chiedesse più all’India di essere una caricatura di se stessa e della sua cultura millenaria, ma di poter semplicemente alzare il viso e dire: Io sono così”.
A proposito Arundhati Roy, non possiamo dimeticare il caso letterario del Dio delle Piccole Cose, Booker Prize nel 1997 e best seller internazionale. Poi, nel 2001 il premio Nobel a Naipul, indiano di origine e non di nascita, ma profondamente legato, nel bene e nel male, all’India. E infine, altri scrittori che da un po’ popolano le nostre librerie: Vikram Seth, Amitav Gosh, Anita Nair e tanti altri.
Alcuni vivono ancora in India, altri sono emigrati in Canada, Inghilterra o negli Stati Uniti, ma tutti scrivono dell’India o degli immigrati indiani all’estero. La maggior parte scrive in inglese, lingua in grado di garantire visibilità internazionale, ma anche veicolo di comunicazione fra le molteplici lingue indiane e spesso unica lingua letteraria studiata a scuola.
Vikram SethOltre a chi festeggia questo miracolo della letteratura indiana, c’è però anche chi critica questo successo che ha portato, sulla scia di una “moda indiana”, anche libri di scarso livello. Questa “moda” inoltre sembra spingere gli autori a descrizioni di un’India stereotipata ed eccessivamente esotica per compiacere il lettore occidentale. C’è chi ha accusato a questo proposito questi scrittori di poca autenticità, di non scrivere per gli indiani, di appartenere a una classe borghese che male rappresenta le grandi masse indiane.
In parte è anche vero, ma bisogna ammettere che, sulla scia di questo successo, si iniziano anche a tradurre nuovi autori che scrivono in hindi o bengali: il fiume dei nuovi titoli porta anche alcuni piccoli capolavori che sarebbe stato difficile conoscere diversamente, scritti in India, da indiani, per indiani, in una lingua indiana.
Ma allora, concludendo, c’è qualcosa che accomuna i vari scrittori?
Difficile dirlo, tanti sono i temi, i personaggi, i toni e le storie. Ma azzardando un po’ si può tentare di rispondere con una frase del Mahabharata che dice: “Tutto quello che si trova nel Mahabharata esiste anche altrove. Quello che non c’è non si trova da nessun’altra parte.”
Questo potrebbe essere vero non solo per un libro scritto migliaia anni fa, ma anche per la letteratura indiana contemporanea.
Racchiudere il mondo in un libro, nei libri? Sembra una follia, in particolare per una terra con migliaia di anni di storia, un miliardo di abitanti, trecento milioni di dei e infinite storie da raccontare. Una corrispondenza perfetta fra i libri e il mondo? Ma se questa affermazione può essere opinabile, non è certo per il fatto che si sognano, per dirla con Shakespeare, molte più cose in cielo e in terra che nei libri, ma piuttosto il contrario. In molti casi infatti ci sono molte più cose in un singolo libro di quanto se ne riescano a immaginare con la propria testa.
Racchiudere il mondo in un libro, nei libri? Forse è questo il vero miracolo della letteratura indiana.

(c) Silvia Merialdo

 

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