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Bezdomnyj (della miseria)
di Alessio Taffarello
Pubblicato su SITO


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Quando il Padre venne a prendermi a scuola, era la prima volta in tredici anni, sapevo già che la faccenda era seria. Allacciati bene la cintura, mi disse, mi raccomando, facciamo un giro prima di tornare a casa. Malgrado la mia giovane età sapevo che qualcosa era accaduto di serio, qualcosa che mi riguardava da vicino, anzi, che ci riguardava entrambi, giacché la sua decisione di perdere una giornata di lavoro per me stava a significare che la faccenda era una cosa solo nostra, e quelle parole che pronuncerà saranno un nostro segreto. Lo ascoltai prestando la massima attenzione.

La mamma è morta.

Il Padre non evitò di descrivermene i particolari, di quell'incidente assurdo di cui era stata comparsa.

La mamma è morta. La mamma non tornerà mai più.

Unicogenito, il Padre sentì il dovere morale di crescermi a sua immagine, affinché fossi suo degno erede. In ogni cosa. Medesimo percorso di studi, una cerchia di amici accuratamente selezionata, qualche passatempo mirato... Non ci voleva molto a renderlo felice. Quell'uomo è l'unico che mi rimane a questo mondo, pensavo; contrariarlo o ferirlo era l'ultima cosa che avrei voluto fare.

La mia carriera era stata da lui attentamente pianificata e messa su carta al compimento dei miei quattordici anni.

Vivere in quel modo non era affatto complicato, avendo le risposte a disposizione. L'esperienza maturata dal Padre e la consapevolezza che ogni mio passo era già stato da lui compiuto prima di me era di conforto. Non mi avrebbe assalito nessun dubbio lungo la mia strada né avrei mai messo il piede in fallo, neppure mi fossi bendato gli occhi. La mia fiducia in lui era totale.

Il percorso sicuro era segnato da una linea nera d'inchiostro, quella della stilografica in oro firmata del Padre. La mia vita era un libro scritto di suo pugno, che sfogliavo giorno dopo giorno, come una guida preziosa solo mia.

Il nuovo capitolo iniziava col completamento degli studi. Mi vedevo al mio matrimonio infilare l'anello alla mia futura moglie, finora compagna di studi, consigliatami dal Padre. Inutile dire che era la primogenita di una famiglia importante, con cui lui aveva rapporti lavorativi da anni. Aveva sapientemente mosso le sue pedine sulla scacchiera, senza alcuna fretta, invitandola a cene, introducendola nel mio circolo di scherma... cose così; piccole mosse prese singolarmente. Abile giocatore di scacchi, non ero ancora riuscito a batterlo una volta.

Le pagine continuavano, il libro proseguiva anche ora che prendevo le redini dell'impero del Padre, ora che io stesso diventavo padre. Scorsi le pagine fino all'ultima, eppure della fine non ve n'era traccia. La cercavo, a fondo pagina, dopo la fine del testo, eppure non la leggevo da nessuna parte. Voltai pagina ancora e il libro terminava, le pagine bianche erano finite, la copertina rigida era l'unica cosa che rimaneva, ma il testo non era ancora terminato. Io non sapevo come continuare.

Mi accorgevo di non aver mai preso in considerazione l'eventualità il libro finisse, in quel modo poi, così d'improvviso, era impensabile. Che mai avrei dovuto fare ora senza quei suoi preziosi consigli, senza quelle sue risposte semplici e veloci? Non sapevo se mi ero svegliato da un sogno troppo bello o se ero piombato in un incubo atroce.

I dubbi crebbero tutti in una volta, s'agitavano dentro di me e, insieme, trovavano nuova forza e peso.

Il libro non esisteva più, il Padre era morto e io non capivo più chi fossi, dove mi trovassi e perché.

* * *

Quanto tempo rimase di fronte a quella vetrina? Dicono che stetti lontano di casa per tre intere settimane. Io non ricordo nulla. Dicono che mio figlio ha attraversato la strada qualche giorno prima del mio ritorno credendo che l'uomo dall'altra parte fossi io, suo padre, ed è stato investito. Dicono che la madre, mia moglie, per lo choc non abbia pronunciato nessuna parola, preferendo chiudersi in una dimensione privata del dolore. Anch'io ne ero escluso. Quando la rividi non era più la stessa; non mi riconosceva né accennava a voler emettere alcun suono. Morì qualche tempo dopo, non dicendo una parola, gettandosi dalla finestra del palazzo in cui abitavamo.

Non mi rimase che andarmene, lasciare tutto senza una lettera o un annuncio, senza far rumore. Nessuna valigia appresso; uscii di casa e non ne feci più ritorno. Vagabondavo da solo, senza nome né un perché.

Per le strade e i ponti e i parchi che percorrevo, nei quali sostavo o mi accampavo venivo chiamato in molti modi e in lingue diverse. Li accettavo tutti alla stessa maniera, come si possono accettare un paio di scarpe rotte quando si hanno i piedi rossi per il freddo e i calzini bucati e usurati dal tempo. La mattina, lasciato il riparo notturno, allenavo il fisico con qualche corsetta e la mente poi, sulle pagine dei giornali che raccattavo, omaggio di qualche avventore sbadato. Il mondo cambiava, ma mi sembrava sempre più distante, non mi toccava più.

Quando lo stomaco rumoreggiava era il momento di riempirlo; cestini e retrobotteghe, cucine delle trattorie erano i punti migliori per ottenere qualcosa.

La routine mi uccideva, così cambiavo città non appena mi annoiavo delle stesse facce, gli stessi corpi morti che camminano, le stesse insegne. Me ne andavo e nessuno ne sentiva la mancanza. Un'altra città e un'altra ancora, non mi saziavo mai.

* * *

Come finimmo in quel paese di montagna, io e lei, proprio non riesco a ricordarlo.

Lei. La piccola compagna di viaggio. Quanti anni avrà avuto mai? Qualcuno sopra la decina, credo. Perché mai abbia scelto il cappotto sotto il quale dormivo io, una notte qualunque in una città qualunque, non saprei dirlo. Fatto sta che il mattino seguente quel fagotto rannicchiato accanto non l'allontanai; la piccola silenziosa decise di seguirmi ovunque ed io, mi vidi nuovamente padre.

Come finimmo in quel paese di montagna, io e lei, proprio non riesco a ricordarlo. Poche immagini, in verità.

Treno in panne. Tormenta improvvisa. Eppure salire su quel treno merci mi pareva la scelta migliore per cambiare posto in fretta. Freddo pungente. Brusco risveglio. Treno in panne. Binari gelati e vento carico di cristalli.

Sono stato proprio uno stupido; portarla via con me così, in pieno inverno, chissà cosa mi era preso. Il viaggio era stato duro per entrambi, svegliarsi poi in mezzo alle montagne con la neve ad imbiancare ogni cosa e nessuna prospettiva di ripartenza a breve era un duro colpo.

La piccola dormiva ancora. La guardai e poi ritrovai il paesaggio esterno; vento e vento e freddo. Ovunque. La guardai nuovamente e cercai poi nella tormenta un segno illuminante.

Nulla.

Il tempo passava e faceva sempre più freddo. C'era ancora il sole, lassù oltre la tormenta, malgrado la bassa visibilità ne sono certo. È ancora giorno.

Me la caricai sulle spalle, ben infagottata, e mi immersi nella bufera in cerca di un riparo. Decisi di puntare su una sola direzione e continuare diritto cercando di mantenerla. La soluzione migliore per non pendersi è andare sempre diritto; prima o poi qualcosa la si trova. Speravo solo giungesse quanto prima.

* * * 

Il sole era sparito non appena le poche case in legno erano alla portata di un ultimo sforzo. Ce la potevo fare. Il vento ledeva la pelle arrossata ma aveva dovuto cedere alla mia testardaggine. Ero arrivato, finalmente.

Il villaggio dormiva. Le porte chiuse. Le finestre serrate. Nessuna luce accesa, neppure all'esterno.

Dormiva ancora, la bambina, pesante come non era mai stata. Entrai nel villaggio come fossi l'unica presenza vivente in quel luogo.

Le insegne di una taverna chiusa sbattevano schiaffeggiate dal vento.

Non riuscivo a dire nulla, la lingua era stanca come il resto del corpo. Trattenevo le energie solo per trascinare i miei piedi nella neve alta al ginocchio, col peso di quel fagotto sulle braccia, quel tanto che bastava per camminare e continuare a mantenere il sangue in circolo. Restare in movimento per continuare a mantenere la temperatura costante. Se mi dovessi fermare mi congelerei. Se mi dovessi fermare entrambi moriremo.

Le case sono tutte chiuse, sbarrate. La bufera è una voce potente e continua, un sibilo ad alto volume prolungato, che infrange ogni superficie e intima a ogni essere vivente Torna a casa o ne morirai. Ti penetra nelle orecchie e ripete e ripete il suo monito. L'aria col suo carico viene da nord, entra nel villaggio, abbraccia gli edifici e mi sfiora, poi a gran velocità penetra il bosco oltre le costruzioni, si spinge sulla parete rocciosa e si divide in due lingue ululanti che tornano indietro, strisciano e levigano i tronchi dei sempreverdi ben piantati al terreno e rovinano sulle pareti lignee delle case, colpendomi nuovamente e penetrando nelle fessure dei miei abiti logori. I tessuti a mo' di buccia cipolla resistono appena; il primo si raffredda e poi si passa al secondo strato, a quello successivo, finché non si giunge a raffreddare la pelle. I vestiti gelati sono peggio del vento, ché fungono da camera di raffreddamento graduale, molto lento. Non c'è alcuna fretta di gelare l'occupante.

Stringo la coperta che la avvolge, sentendola scricchiolare appena; inizia a indurirsi per il freddo. Non è un buon segno. Devo assolutamente trovare un riparo per la notte che sta per arrivare. Questo vento non ci lascerà in pace fino a domattina.

Passo le case, a volte busso e a volte guardo solo le porte e le finestre sbarrate, e mi rispondo da solo. Gli abitanti o sono scappati via oppure non hanno la minima intenzione di aprire con questo tempo. O forse prendono i miei colpi per oggetti mossi dal vento. Il risultato non cambia la nostra situazione, comunque.

Avanzo ancora e sento una serie di colpi regolari. Una porta che sbatte. Il vento la spinge verso l'interno, penetra il riparo e poi si ritrae, porta al seguito. Un colpo. Poi il vento torna a farsi sentire e la spinge nuovamente, per poi tornare sui suoi passi. Un altro colpo. La sequenza si ripete.

Raccolgo le ultime forze e mi dirigo verso quella costruzione. Una come tante, si somigliano tutte.

Scivolo al suo interno e tento di sbarrare la porta con un paio di bastoni. Per un po' reggeranno. C'è ancora luce sufficiente per dare un'occhiata intorno. Non c'è molto; un tavolo, un paio di sedie rovesciate e un mobile ghiacciato all'apparenza. A terra la neve ha invaso l'intera superficie. Il tetto presenta qualche rattoppo, necessitandone qualcun altro ancora. Ad eccezione di qualche spiffero, però, non penetra nulla; probabilmente la neve ha coperto l'intero tetto, creando una specie di sovratetto. Dev'esser un magazzino dismesso.

Poso la bambina e cerco, con l'aiuto di un cassetto del mobile, di spalare un po' della neve. Voglio ammassarla da una parte. Capovolgo il tavolo, con un calcio lo libero delle gambe e faccio stendere lì sopra la piccola. Lì almeno starà all'asciutto.

Devo accendere un falò.

Prendo assi, sedie e gambe del tavolo e ammasso ogni cosa. Se riesco a far prendere il fuoco dovrebbero asciugarsi e ardere presto. Ho un fiammifero nelle mutande. L'ho avvolto bene in uno straccio e nascosto per ogni evenienza. Ho un solo tentativo.

Il vento sussurra tramite il legno trascurato del nostro riparo. Mi ricorda la sua presenza costante; devo prestare attenzione pure al suo soffio malefico, mentre tento di accendere il fuoco.

Cerco delle lingue fini di legno o delle schegge per creare un nido facilmente infiammabile. Procedo e pare prenda. Avvicino un legnetto e lascio che il fuoco abbocchi. Poi ne infilo un secondo, un terzo... Continuando in questo modo, proteggendo poi il nido col mio corpo e inserendo sempre nuovi legnetti di grandezza esponenziale, dovrei farcela. Non devo avere fretta. Il fuoco non mi tradirà.

Passano alcuni minuti prima ch'io mi fidi di quel piccolo essere affamato. Continuo a nutrirlo finché non raggiunge una dimensione e una forza accettabile, quasi indipendente. Ora posso usare pezzi più grandi, limitando al minimo la mia attenzione.

* * *

Mi sveglio d'improvviso. Il fuoco! Afferro il primo pezzo di legno che trovo. Per poco non lo lasciavo spegnere! Devo stare più attento.

Guardo il fagotto e ritrovo i suoi occhi. È sveglia. Chissà da quanto tempo. Prendo un altro legno e le mostro come si fa. Lei annuisce; ha capito. Sono convinto che se me ne dimenticassi lei sarà pronta ad aiutarmi a mantenerlo attivo.

Sento il calore raggiungermi.

* * * 

Apro gli occhi; mi sono addormentato ancora una volta. Guardo il falò. Tutto ok. Guardo la bambina, mi sorride. Ha un pezzo di legno in mano, e qualcun altro accanto. Si dev'essere alzata dopo aver visto che mi ero sopito. Chissà a cosa sta pensando.

Il tempo passa col crepitare del fuoco, lento come non mai. Non riesco a pensare a nulla di preciso, tutto è confuso nella mia testa, se provo a focalizzarmi su un singolo pensiero mi sfugge, come tutti gli altri, e rimane solo il buio.

Ora che il corpo si è abituato al clima e non tremo più per il freddo decido di smantellare il mobile. Mi servirà tutto il legno che riesco a recuperare per alimentare il focolare fino al mattino. Quante ore mancheranno?

* * * 

Il corpo è a riposo. Gli arti sono abbandonati nella prima posizione che hanno trovato quando li ho lasciati andare, abbandonandomi. Il sonno mi chiama quando sono sveglio, le ossa sono un fastidioso e indicibile acuto dolore; sono spilli fini che stuzzicano le giunture, sono vibrazioni interne persistenti...

Il limbo nel quale mi trovo è più fisico di quanto io voglia. Sono cosciente del mio corpo ma non dei miei pensieri; io sono il mio corpo. Sono gamba stesa piegata a novanta gradi sulla neve compatta. Sono testa morta su uno straccio inerte poggiato sul gomito. Sono braccio lungo il fianco. Sono corpo steso su un fianco. Sono occhi chiusi pungenti per la stanchezza. Sono bocca aperta per respirare meglio, senza sforzo. Sono inspirare ed espirare involontariamente, molto lentamente. Sono schiena indolenzita che scava nella neve una dolce culla. Sono riverso come abbandonato. Sono carne e ossa e sangue gelido e muscoli addormentati. Sono sveglio eppure dormo eppure sento con tutto il mio corpo coscientemente. Sono vibrazione della spalla, quella opposta il terreno. Sono frenetico tremare estraneo. Sono svegliato dalla mano della piccola.

Con gli occhi le chiedo Che c'è? mentre mi risponde sempre allo stesso modo. Sposto lo sguardo e vedo che del mobile non restano che pochi residui.

Li getto tutti nel fuoco, che d'improvviso pare ravvivarsi, come stupìto da tale mossa avventata, come choccato dalla mole di cibo che gli viene donata. La luce cambia e le ombre si muovono sulle pareti scure. Speravo davvero bastassero. Devo uscire e trovarne altri, di legni da ardere.

Le faccio cenno di sì con il capo, ed esco prima di ripensarci, prima di pensare a cosa mi aspetterà lì fuori. Lancio un'occhiata a ciò che sto lasciando dietro di me, lei si è stesa. Sarà stanca, penso, in fondo mi ha coperto per tutto il tempo che sono rimasto addormentato. Dormi pure, piccola. Tornerò presto.

La bufera mi accoglie impetuosa; vuole farmi capire che era sempre rimasta lì ad attendermi, che non avrei dovuto scordarmi di ciò che stava accadendo fuori. Me ne ero dimenticato, per qualche ora almeno, del Demonio che imperversava all'esterno.

Lo scenario era tetro da far spavento. E freddo, troppo freddo. Persi in fretta il senso di tepore che provavo vicino al fuoco, ed ora mi sembrava un ricordo lontano nel tempo, forse solo un sogno beffardo.

Vado avanti a stento. Il vento non allenta la forza, guardo solo a terra, cercando di riconoscere le cose solo dal loro contrasto con la neve azzurra a terra. Non nevica più; è solo vento questo, un forte vento malefico.

Qualcosa mi colpisce alla testa, dannato vento!, cado.

* * *

Voci e rumori agitati, scarponi pesanti che schiacciano neve compatta scricchiolante. Mi sveglio supino, la testa dolorante sul lato. Ho peso i sensi non so per quanto tempo. Apro gli occhi e vedo persone. Da quante ore non ne vedo. Sono molte, una ventina credo, ma sembrano molte di più. Arrabbiate anime o forse solamente in preda ad una strana euforia turbata, si muovono verso la medesima direzione. Li vedo distintamente nei loro pesanti cappotti e goffi berretti dai colori scuri grazie a una prematura alba.

C'è un odore strano nell'aria.

Il vento persiste, benché lo ricordassi d'intensità maggiore.

La bambina!

Mi alzo, barcollo leggermente prima di riprendere contatto col mio cervelletto, e il senso di equilibrio torna a farmi visita; sono in piedi. La testa pulsa, non fa male.

L'odore è pungente. L'aria ne è intrisa. Entra nelle narici e brucia. È odore di bruciato. Qualcosa brucia e l'aria ne è ambasciatrice.

Torno sulla gente che si parla con parole mai udite prima. Nella lingua sconosciuta riconosco però l'allarmismo e il panico generato da qualcosa che si trova nella direzione verso cui si stanno dirigendo tutti. Li seguo.

L'odore si fa via via più penetrante e intenso, e il vento si colora di cupo fumo. Qualcosa brucia di fronte a me: è il magazzino che viene divorato dalle fiamme.

Non sento freddo, l'aria calda che sprigiona quell'immenso falò pervade la mia faccia e mi scalda come un abbraccio impalpabile. Caldo.

Le persone del villaggio osservano l'esaurirsi delle fiamme.

La neve scioglie l'ultimo focolare.

Una coperta bruciacchiata e qualche maceria.

Non ho lacrime. Ho perduto tutto. Ancora una volta.

Inizia ad albeggiare.

© Alessio Taffarello





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