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Starsene qua seduto ad aspettare di morire non è un granchè come hobby C.Bukowski. L’ho sentito dire, biascicato sottovoce, dall’infermiera grassa rivolta alla morettina delle pulizie: “il medico di turno è quasi di sicuro che non arriva a domani: ha il fegato che sembra il filtro di una friggitrice.” La morettina ha sollevato per un attimo la faccia brufolosa verso di me e ha mormorato un distratto “ah” continuando a passare lo straccio sulle piastrelle verde muffa, con l’impegno di una scimmia ammaestrata. Bel modo di imparare che sono ormai al capolinea Sto fissando quella chiazza di umidità sul soffitto ormai da ore come se nelle sue mille tonalità di colore, dal grigio al ruggine dovesse annidarsi chissà quale mistero. Ricordo la prima volta che sono finito dentro. Lo psicologo dell’istituto, uno magro, dotato di una malagrazia naturale, che era lì soltanto perché quello era il suo lavoro e doveva farlo, mi fece sedere di fronte a lui. Estrasse da una cartella di tela cartonata, logora e bisunta, come doveva esserlo la sua vita, dei cartoncini bianchi grandi come un foglio da disegno con stampate delle macchie informi. Sospinse attraverso il tavolo il primo foglio e me lo mise davanti. “Cosa ti fa venire in mente questa macchia?” Devo essere davvero pazzo per vedere ora in quella macchia di muffa sul muro le cose assurde a cui la mia fantasia riesce a dar corpo. Non so come sono finito pestato a sangue su quel marciapiedi, ma mi hanno raccolto e portato qui. Ero ubriaco. Se qualche maledetto buon samaritano non mi avesse raccolto sarei morto da ubriaco senza nemmeno il fastidio di dovermene rendere conto. Sono stanco. Stanco di questa vita bevuta controvoglia. Ricordi dimenticati, come bollicine in un bicchiere di acqua gassata, mi riaffiorano dal subconscio e mi attraversano la mente per poi scoppiare nel nulla. Da bambino ero timido e rimanevo sempre un po’ in disparte perché non avevo nessuna di quelle qualità che ti fanno apprezzare dai compagni di gioco. Non ero veloce nella corsa, non ero bravo a giocare a pallone e se c’era da fare a botte le prendevo sempre. Avevo due grandi occhi scuri e lineamenti delicati, quasi femminei. Ero sensibile, capace di commuovermi per cose stupide come un passero ferito. Tutte cose che nella vita non servono. Per fortuna imparai presto a stare al mondo. Mai commuoverti: nessuno lo farà per te. Francesca. Di lei ricordo i riccioli biondi e le labbra rosa ben disegnate. La macchina, una cinquecento, l’avevo rubata due giorni prima e Piero, il meccanico aveva sistemato targa e documenti. Lei era in piazza a far capannello con le sue amiche. Vestito verde, di organzino leggero, che le aderiva al corpo nei posti giusti, facendo risaltare le forme. Una domenica mattina d’estate, di quelle assolate pigre e silenziose in cui ti senti il mondo in tasca. Mi fermai accanto a lei con la cinquecento e l’invitai a salire. Partimmo con il tettuccio di tela nera aperto e il vento nei capelli. Presi la via del mare. Ricordo i pini ai lati della strada, con la base dipinta di bianco e la chioma piegata in direzione contraria a quella del mare. Luce ed ombra si alternavano al ritmo degli alberi che correvano via ai lati della strada. Guidavo sbirciando le sue gambe ora illuminate ora no, diventare candido marmo o morbida buccia di albicocca. Fu con lei che feci l’amore per la prima volta. Adesso so che fu soltanto una bella scopata in pineta: l’amore deve essere tutta un’altra cosa e io non l’ho mai avuto. Però soldi in tasca si, belle macchine, bei vestiti e tanto tempo per godermi tutto questo con la ragazza del momento o gli amici del bar. Rubare auto rende bene e non ti impegna troppo. L’importante è non farti beccare. Sarà stata si e no mezzanotte. Davanti alla fermata della suburbana. Una notte di novembre fredda, in cui le persone per bene se ne stanno a letto a dormire. Qualcuno aveva spifferato, perché mi aspettavano. Come mi avvicinai alla macchina con in mano il ferretto a “L” per far scattare la serratura, due poliziotti si materializzarono dal nulla. Nemmeno il tempo di reagire. Afferrato alle spalle hanno cominciato a pestarmi, come se dovessero cercarmi l’anima. Pugni, calci, rabbia e desiderio di vendetta di chi viveva rischiando per meno di un quinto dei soldi per i quali rischiavo io. Sul verbale scrissero che avevo cercato di reagire, ero scappato e cadendo avevo sbattuto la faccia in malomodo sul marciapiedi. In carcere è dura: ti manca l’aria da respirare. Se poi hai due grandi occhi scuri e lineamenti delicati, quasi femminei è un maledetto tragico umiliante inferno. Il ricordo di quei mesi mi sta attaccato addosso come una paretaria su un muro. Con lunghe radici ha scavato solchi all’interno dell’anima che non potranno mai essere risanati. Quando ne vieni fuori è normale che sia peggio di quando sei entrato. Togliere le mele marce dal cesto serve a salvaguardare quelle buone. Mettere le altre, anche se soltanto un po’ ammaccate, tutte insieme in un altro cesto, serve solo a farle marcire del tutto e più in fretta. Quando nel tuo passato hai tanti incubi che si ostinano a non farsi dimenticare, puoi provare con l’alcool. Non le sbronze notturne con i compagni del bar fatte di vino, cazzate e spinelli. No, bevi da solo. Ti svegli la mattina e cominci a bere. Ti riempi lo stomaco di alcool, finché ce ne sta, poi vomiti e ricominci. Giorno dopo giorno, senza rendertene conto abbandoni il mondo reale. Perdi tutti quelli che conoscevi e per un po’ il tuo mondo sono gli alcolizzati come te. Simulacri d’uomo addormentati sulle panchine dietro lo scalo merci che vivono di elemosina e si muovono soltanto per andare in cerca di altro alcool. Poi ti isoli anche da loro. Troppo uguali a te per non provocarti disgusto. A volte, per brevi istanti, nella mente tornano le ragazze, il mare, la pineta, la giostra su cui sono salito da bambino. Sensazioni che ignoravo di aver colto. L’odore di salmastro e resina, il fruscio dell’organzino del vestito che sale lungo le gambe dalla pelle di albicocca. Vorrei riavere quegli istanti di vita Il più delle volte però, nonostante la bolla di ottusità in cui mi rifugio grazie all’alcool, gli incubi riescono ad aprirsi un varco nella mia anima. La vita è solo un insensato scorre di giorni sempre uguali a se stessi, vuoti, dolorosi e inutili. L’unica possibilità di uscita è nella fine di questo inesorabile ripetersi di giorni. La macchia di muffa sul muro assume contorni iridescenti da cui si staccano infiniti e mobili bagliori di luce colorata. Sono le lacrime che opacizzano i miei occhi. Sono spossato. I pensieri si fondono in modo disordinato nella mia mente e quelli che prima erano ricordi distinti si frantumano e si ricompongono in un’unica immagine indifferenziata. Ora ne ho consapevolezza. Non ci sarà un altro domani a far continuare questa mia vita. Voglio chiudere gli occhi e lasciarmi andare. Per sempre. Nessun altro maledetto giorno, ne un altro risveglio ributtarmi nella realtà. La coscienza mi sta abbandonando. Con gli occhi ormai chiusi, vedo il perimetro della macchia di muffa assumere un contorno più netto. E’ come un foro oltre il soffitto. Un tunnel verso non so dove, che mi risucchia al suo interno. Dall’estremo opposto una fortissima luce bianco opale fa sfumare nel nulla il contorno delle pareti. Percepisco voci indistinte di persone arrivare dall’altro capo del tunnel. Le pareti si contraggono dietro di me con un ritmo sempre più rapido spingendomi in modo inopponibile verso quella luce sempre più accecante e quelle voci sempre più concitate. Ancora un istante e mi disperderò per sempre nel nulla. Sto entrando nella luce accecante! Questo stupido e penoso viaggio che è stata la mia vita è terminato! Qualcosa o qualcuno, non so, mi afferra per i piedi e mi solleva verso l’alto. Nella luce accecante percepisco indistinte figure verdi agitarsi. Mi sembra di soffocare, come se l’aria non volesse entrare nei miei polmoni. Le voci attorno a me sono sempre più concitate. Un dolore improvviso alle natiche, come uno schiaffo. Una insostenibile sensazione di “déjà vu” mi fa scoppiare in un pianto disperato, inarrestabile. Tutto il mio passato sta svanendo dalla mia mente e sento che sto perdendo la consapevolezza di me stesso. Soltanto un attimo, quanto basta per sentire una delle voci dire non so a chi: “ ..è un maschio, è vivo, respira, ma ha sofferto. Speriamo bene…” 2006
©
Giorgio Ottaviani
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