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Don Don Don..Don
Aveva da sempre considerato il suono bronzeo di quelle campane estremamente fastidioso ma, in fin dei conti, le era sempre stato utile per ricordarsi che doveva alzarsi o che era troppo tardi e quindi doveva andare a dormire. Le campane della piccola canonica erano ancora collegate a un sistema di tipo arcaico a dispetto dell’imperante tecnologia oramai diffusa in ogni angolo della terra. Una spessa fune piuttosto rovinata e sfilacciata fungeva da tramite tra don Settimio (e le sue mani) ed il mezzo musicale. Ogni mattina le suonava con precisione, puntualità, con passione. Ogni mattina, nel primo pomeriggio e nella tarda serata. Non solo. Venivano suonate (forse con maggior ragione che negli altri momenti di una qualsiasi giornata) in presenza di particolari festività religiose, contadine e nei funerali. In quel caso era un suono amaro, cupo, ridondate. Era veramente strano come don Settimio riuscisse ad infondere nel suono armonico e metallico delle campane una dimensione superiore. Il suono delle campane non annunciava solo l’ora e che qualcuno era appena passato a miglior vita ma infondeva una serenità tale ed una pace interiore che si spandeva nell’aria a macchia di leopardo, contagiando tutti. A volte era un suono netto, aspro che rompeva un momento o lo contrassegnava in maniera vistosa, altre volte era un suono atteso e di compagnia, altre volte ancora era il ricordarsi della religione e che Dio era da quelle parti. Dio era in quelle zone. In tutti i casi, era un suono che marcava la presenza al mondo di chi lo udiva. Di chi era ancora in grado di percepirlo. E i pochi anziani che soffrivano di sordità, non potendo udire quel suono, non erano dei morti: erano in grado di percepirlo ugualmente, seppur in una maniera diversa. Lo percepivano perché sapevano della sua presenza, perché lo conoscevano, lo avevano sperimentato. Erano quindi vivi al pari degli altri. Secondo l’anziano curato, il reverendo Giordano, deceduto appena tre anni prima, anche il morto nell’atto della sua ultima funzione religiosa, ossia nel momento del funerale, sarebbe stato, a parer suo, capace di sentire l’effluvio sonoro di quelle campane. Se veramente era cosi, nessuno lo sapeva. E nessuno lo avrebbe mai saputo. Chi l’avrebbe saputo si sarebbe trovato in una situazione tale nella quale non avrebbe potuto farne parola con nessuno. Era un qualcosa che tutti, prima o poi, avrebbero sperimentato in prima persona. Tutti avrebbero scoperto però la stessa cosa. Che infondo il reverendo Giordano aveva ragione. Tutti avrebbero avuto il loro scampanare ultimo nel giorno più triste. Dunque, quello che a tutti sembrava morto e colui che, sfortunatamente, si trovava a riposare dentro uno strettissimo lettino con velo bianco a mo’ di zanzariera dentro di una cassa legnosa infondo non sarebbe stato un morto finchè il prete non avrebbe suonato nella sua funziona religiosa. Non l’organo, ma le campane. Le campane erano un chiaro segno di vita, di presenza e di costanza. Ma sigillavano anche la fine. La vita terminava con un momento sonoro. In qualsiasi giorno si sarebbe celebrato un funerale, in qualsiasi ora, in qualsiasi stagione (sia col freddo vento dell’autunno che avrebbe fatto svolazzare la tonaca del curato che con il forte sole d’Agosto che avrebbe fatto sudare copiosamente i congiunti del morto) il morto avrebbe avuto la sua fine musicale. Con l’inizio dello scampanare il morto prevedeva la sua fine dato che unito ad esso riusciva ad ascoltare anche le lacrime ed i gemiti dei suoi congiunti. Poi, lentamente, con lo svolgersi dello scampanare il morto diventava lentamente sempre più morto e, gradualmente, riusciva ad ascoltare quel suono in maniera sempre meno intensa e vaga. Arrivava ad un punto in cui non riusciva a sentire più la minima nota. Quel momento corrispondeva alla fine dello scampanare, ma anche alla sua vera morte.
Le campane per lui non sarebbero più suonate. Né a festa, né a morto. Non avrebbe più partecipato ad un momento come quello. La sua vita s’era esaurita con un lento e ritmato Don Don.
©
Lorenzo Spurio
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