Una
recensione di Alessandro Corda
USA
2003 - Drammatico
Regia/sceneggiatura:
Gus Van Sant
Cast: Eric Deulen, Alex Frost
Timothy Bottoms
Un cieco
potrà mai descrivere un elefante?
Si tratta di un paradosso buddista che
ispira il titolo dell'ultimo film di
Gus Van Sant, autore poliedrico sempre
pronto a sperimentare e a buttarsi nella
mischia. Il regista americano pone così
l'accento proprio sulla difficoltà
di descrivere l'indescrivibile, l'orrore
più irrazionale ed inimmaginabile.
L'artista può raccontare storie
del passato o del futuro più
fantasioso, dando libero sfogo al proprio
estro, ma di fronte all'orrore di una
normalità violata dalla follia
l'uomo dietro la cinepresa deve fare
i conti col proprio ruolo di narratore:
come potrà descrivere la storia
di un'assurda carneficina al college?
Van Sant sceglie la strada di una narrazione
oggettiva ed onnisciente, vicina al
documentario. Riscopre così la
sua anima più indipendente dei
primi film, fatta di uno stile dimesso,
una fotografia sporca, una camera a
spalla che tallona da vicino i ragazzi,
luci naturali e attori non professionisti.
Gus Van Sant racconta per immagini il
succedersi di una giornata apparentemente
normale in una high school di Portland,
tra corsi, lezioni, football, chiacchiere
e divertimento, seguendo in contemporanea
la preparazione del massacro. Il film
può essere diviso in due parti,
nella prima assistiamo ad un efficace
spaccato della vita di un liceo e nella
seconda al capovolgimento di quella
normalità.
C'è chi non riesce a nascondere
il pensiero di un padre ubriaco, chi
fotografa la vita della scuola e va
poi in laboratorio a sviluppare i negativi,
c'è una coppia di innamorati
invidiata da tutti e un gruppo di ragazze
interessate ai propri vestiti, c'è
una ragazza isolata dalle coetanee che
lavora in biblioteca: sono questi i
ragazzi che Van Sant decide di raccontare
(introdotti sempre da didascalie che
li presentano man mano). Non c'è
una vera e propria storia che segua
questi ragazzi, è un semplice
avvicendarsi di piccoli episodi. L'unica
storia che sembra seguire una linea
continua è quella, malata e distorta,
dei due ragazzi assassini.
L'apparente lentezza di tutta la prima
parte (per esempio le interminabili
camminate dei ragazzi nei corridoi del
liceo) non è mai di maniera e
fine a se stessa, ma strumentale in
quanto serve ad immergere lo spettatore
nella normalità di tutti giorni
che è, molto spesso, noiosa fatta
di gesti ripetuti mille volte, facce
oramai viste e riviste. Quando così
i due folli irrompono nella scuola a
colpi di fucili (acquistati via internet),
ecco che la differenza stride ancor
più: non è più
la normalità, è la follia.
La seconda parte ricorda, alla lontana,
un film del terrore dove giovani vittime
innocenti vengono giustiziate sommariamente
nei posti più impensabili: il
bagno, la biblioteca, la mensa e, in
ultimo, anche la cella frigorifera.
Elephant non è certo un freddo
esercizio di stile, un asettico documentario:
parte da una bella idea cinematografica
(narrare prima la normalità con
stile dimesso e poi il suo rovesciamento).
E' poi costellato da sequenze di grande
impatto espressivo (valendosi di musica
classica, Beethoven in primis). Un esempio
su tutte: uno dei killer suona il pianoforte
nella sua camera e la cinepresa ruota
a 360 gradi mostrandoci ogni angolo
della camere da letto: senza tante spiegazioni
il regista americano riesce a raccontarci
il carattere di questo ragazzo, dai
poster, i libri e il guardaroba. Molte
volte gli oggetti con cui scegliamo
di vivere sono un'autentica radiografia
di quello che siamo.
Non è un documentario anche perché
non segue il succedersi cronologico
dei fatti. Van Sant rompe la linea temporale
e costruisce il film come un puzzle
di episodi che si seguono ed anticipano
a vicenda. In un primo tempo la macchina
da presa tallona un ragazzo e, subito
dopo, incomincia a seguire chi, nelle
inquadrature precedenti, figurava nelle
controscene. Sembra quasi che per raccontare
una giornata di pura follia si debba
uscire dalla razionalità narrativa,
frammentando il racconto in singoli
episodi sparsi, apparentemente, senza
logica.
Van Sant termina il film come l'aveva
aperto, inquadrando il cielo attraversato
dalle nuvole: quanto sono piccole le
cose terrene rispetto alla vastità
del cielo blu? Troveranno serenità
in cielo le acerbe vittime della strage?
Non c'è alcun giudizio moralistico.
Il film non cerca di spiegare le cause
della vicenda, cerca piuttosto di farle
intuire allo spettatore (emarginazione,
problemi familiari, diversità).
Non strepita facili accuse, come Michael
Moore in Bowling a Colombine, ma le
sussurra. Non offre allo spettatore
sicure risposte, ma si pone delle domande.
E Gus Van Sant, da sempre sensibile
alle problematiche legate al mondo dei
giovani, rimane coerente alla sua poetica
cinematografica fatta di poesia e delicatezza.
   
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