Il libro Lavoro e altre piccole tragedie di Marco Di Pasquale e Federico Zazzara è un prosimetro formato da dieci poesie (del primo) e dieci racconti (del secondo). Parla di lavoro. Come ne parla? Parlando d’altro, cioè di quella contingenza costruita tutt’intorno: la vita. Il tutto è preceduto da una preFazione e una Fazione, con la postFazione nella forma di una chattata tra i due autori.
I dieci racconti e le dieci poesie sono nominalmente organizzati per parlare ognuno di un mestiere differente, ma nella lettura ci si accorge che è la vita a scandire i ritmi del lavoro, non viceversa, tanto da dar forma a una specie di Resistenza umana.
Paradossalmente, ancora, questo succede più nei racconti che nelle poesie, che invece – almeno all’inizio – sembrano più incentrate sui vari mestieri. Si crea così una sorta di intreccio di competenze: ci si potrebbe aspettare che la poesia, in quanto lirica, sia più portata a parlare di vita, aspettative e desideri rapportati al lavoro, quando questo è schiavitù o genuino scandire, mentre alla prosa dovrebbe essere lasciato il compito di descrizione, naturalistica e ‘quotidiana’ del lavora-consuma-crepa. Non è così: non è questo che si vuol dire nel libro e non è così che lo si dice. D’altra parte, questo scambio di ruoli nei temi è di nuovo rovesciato nel linguaggio usato, che torna a farsi più classico. Se infatti Di Pasquale nelle poesie è ironico, dissacrante e logocentrico – metalinguistico in ogni intenzione creativa –, Zazzara è ovviamente più drammatico e chiaramente narrativo, dosando i cambi di registro: poesia e narrativa insomma riprendono in mano le proprie armi nella forma, dopo essersele scambiate nei contenuti, tanto da creare un rapporto dialettico al quadrato.
Nelle poesie si può rintracciare un percorso che va dalla scomposizione tematica e formale a una nuova riscrittura del mondo e del pensiero sul lavoro. Se il tema assolutamente centrale del libro è quello della competenza nel proprio lavoro – concetto a cui torneremo più avanti –, Di Pasquale parte dalla confusione dei ruoli in poesie come Giornalaio giornalista o Il medico e lo stregone, che sono bozzetti per evidenziare cosa non va. Per la forma, il poeta si preoccupa prima di destrutturare il linguaggio, così da far comprendere successivamente questo centro tematico con le proprie armi; è questo che succede in Arter e soprattutto Arter 2: Di Pasquale, tramite la forma, indica al lettore il fatto che il linguaggio della poesia – inteso proprio come codice – è altro dalla comunicazione verbale solita, usando i sintagmi come fossero elementi unitari, rimandando tutto all’unità morfologica non necessariamente convenzionale, deliberatamente accostabile per esempio a una linea per il linguaggio pittorico, a un morfema per una parola, a una lettera per un morfema e così via. Di Pasquale si muove per aggregazione di unità della sintassi, decostruendo in vista di una successiva ricostruzione secondo le regole e il punto di vista del linguaggio poetico. E la decostruzione completa si ha proprio nel passaggio da Arter ad Arter 2, abbattendo anche l’ultimo residuo rappresentato dalla metrica. Si è decostruito, ora si può ricostruire, in una strada che porterà dritta all’ultima poesia, Ode al lavoro, vero manifesto del volume, con tematiche precise, linguaggio poetico e con la metrica convenzionale delle sestine pariniane.
Di pari passo, il tema della competenza è argomento centrale in diversi racconti e senza dubbio in quello che forse è il principale: Utòpia. In Utòpia prende forma una figura indispensabile come quella del Maestro: Zazzara fa intendere che, in un mondo ideale, è del tutto consequenziale fare il lavoro per cui si è portati, in cui si riuscirà a raggiungere prima e meglio di altri la competenza. A decidere questi ruoli, a indirizzare il futuro e a dispensare competenze saranno i Maestri, coloro che un tempo ebbero quelle competenze da altri, in una tradizione che recupera il concetto etimologico di ‘consegna, trasmissione’. Proprio la consegna di competenze, la possibilità di farlo grazie alle caratteristiche di ciascun lavoro, distingue i lavori imprescindibili – quelli che da millenni mandano avanti la storia dell’uomo – dagli altri, nati esclusivamente per salvaguardare il Potere che si autoalimenta: così all’interno ci sarà un respiro diverso nei racconti che parlano di un falegname o di un panettiere, piuttosto che di un operatore di call-center o di un Presidente.
Questo percorso porta dritto a far confluire poesia e prosa, fino all’ultimo verso dell’ultima poesia: oste, carpentiere, contadino, a loro è dedicata l’ode, l’intero libro, la fatica di riscrivere il mondo col linguaggio dell’arte:
A voi, ed agli altri artisti,
alzo la pariniana
lode! No ai nichilisti
che attentano alla sana
operosità. Sia
laudata maestria.
Non è un caso, dunque, che il libro si chiuda con questa parola: maestria. Arrivare alla poesia Ode al lavoro con questi presupposti vuol dire avere la volontà di sgomberare il campo da tutti i pregiudizi sul lavoro: il lavoro è orripilante quando diventa schiavitù, e la strada che accenna anche solo con lo sguardo a tendere allo sfruttamento è vomitevole, ma per identificare quella strada è indispensabile capire in che modo il lavoro descrive gli uomini, in che modo fa parte degli uomini dal tempo dell’oro ai nostri giorni. I due autori utilizzano un libro intero per arrivare all’ultima poesia. Cardarelli scriveva in Dati biografici (Prologhi, 1913-14) «All’innocenza ci sono dovuto arrivare». È precisamente quello che fanno Zazzara e Di Pasquale: per smentire la Tragedia del titolo hanno destrutturato il linguaggio perché non ci fossero fraintendimenti, hanno intrecciato temi e contenuti dei propri personali modi di espressione, infine hanno esaltato i due concetti chiave della competenza e della maestria. Solo con la competenza il lavoro non si trasforma in tragedia, evitando lo sfruttamento. Avere una esclusività, saper far bene il proprio mestiere permette di pretendere di non essere sfruttati. Non è il lavoro che rende liberi, ma la consapevolezza della propria capacità di saperlo fare bene e diventare indispensabili per la società, per fare e tramandare.