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La solitudine è una condizione consueta per un druido, eppure col passare dei giorni Terry cominciò a pensare che il suo apprendista gli mancasse. Gli mancava la spavalderia delle sue azioni, come anche quasi si dispiaceva di esser stato duro con lui. In fondo sono i giovani come Varior che portano a termine le missioni da cui dipendeva la sopravvivenza del mondo come Terry lo conosceva. E Terry non voleva scoraggiare un ragazzo che per amore della Dea si sobbarcava dei compiti che non sapeva bene se sarebbe riuscito a portare a termine. Nella sua mente lo vedeva in cammino verso la Grande Nave che doveva nascondere il segreto dei Reietti, e non poté impedirsi, malgrado la maggioranza dei druidi nel Sommo Collegio lo avesse sconsigliato di farlo, di seguirne le gesta attentamente col pensiero, pensiero che inevitabilmente si trasformò in potere mentale, poi impercettibilmente in forza magica.
“Bene così” si disse Terry: non aveva messo in opera nessun incantesimo, e quindi non aveva trasgredito alle disposizioni druidiche, ma non aveva impedito che quel che era in potenza si facesse atto di desiderio, e quindi poteva aiutare Varior, pur restando seduto all’ombra della quercia, che chiudeva la radura tra le sue fronde rigogliose, mentre sulla spiaggia su cui la Nave Nera stendeva la sua ombra era scesa la notte, una notte senza stelle, anche se il cielo sembrava sereno.
‘Proprio così: Varior è diventato prudente, assennato’ rifletteva Pique. Era quel tipo di assennatezza che non le suggeriva niente di buono. Da essere un apprendista che faceva un uso scriteriato, quasi impudico, della magia, si era ridotto a contare i passi ad uno ad uno. Ed ora dormiva, alla vigilia della missione più difficile, forse dell’ultima, se avesse fallito. Non si può odiare chi dorme, le aveva detto qualcuno, ma Pique, in quel caso particolare, arrivava ad una rabbia contro Varior che era quasi odio. Si contenne a fatica, pensando che quell’aspirante Druido, con tutte le sue incertezze e le sue imperdonabili ingenuità le sarebbe servito, per allora. Lo guardò: in fondo era rimasto poco più che un bambino, non bisognava farci troppo affidamento.
L’incantesimo dell’elfo nero non spaventava Pique: l’aria poteva diventare irrespirabile, ed altri petali potevano essere sparsi a far ombra a qualche corpo senza vita, ma alla fine qualcuno sarebbe entrato nella Grande Nave a qualunque costo, e ne avrebbe carpito il segreto. Sperava che fossero loro stessi, ma credeva abbastanza al destino da sapere che chiunque fosse stato, non aveva importanza. La storia trascende le vicende personali e le meschine ubbie di ciascuno.
Sulla spiaggia, le gobbe, forse dune, forse dorsi di qualche creatura terracquea, si velarono rapidamente di una nebbia che infittì rapidamente e si sparse, macchiando l’aria di un crepuscolo verdastro, che poco a poco si confuse con il riverbero delle onde marine. Pique cercò di fare resistenza alla stanchezza del lungo cammino, con la stessa rabbia che l’aveva invasa poco prima, ma infine anche il suo piccolo corpo si abbandonò al sonno, che la cercava come una preda. Nel rifugio che avevano trovato tra le rocce si infiltrò la stessa nebbia densa e lattiginosa che aveva coperto la spiaggia. Era uno di quei sonni da cui ci si risveglia diversi, ma Pique non ne aveva avuto coscienza. La spada di suo padre giaceva abbandonata, anche le iscrizioni parevano svanite in quella stessa nebbia.
Xoanon ed Onigo sembravano quasi spaventati dall’accaduto, anche se avrebbero dovuto gioire della momentanea resa dei quei giovani avventurosi. Non c’era tempo per esultare, anzi forse non c’era nulla da esultare: quella nebbia era chiaramente un incantesimo, ma significava che avevano spinto le cose troppo al di là di quel che volevano. Non era possibile che la xenite tornasse allo stato gassoso, dopo le pratiche alchemiche dei druidi, se non per opera di un druido stesso. Un sale clatrato non può essere sublimato alla fredda aria della Contea se non per intervento di un Druido esperto. La xenite non era solo rinchiusa nella Grande Muraglia, anche quelle dune ne erano piene: il giacimento non era che un diversivo, che Xoanon aveva concepito. Forse, era possibile che il Collegio dei Druidi sapesse: ed era anche possibile che quelle due creature fossero separatamente lì per quel motivo. Il vecchio Druido poteva averli spinti all’azione, fingendosi incerto sulla loro destinazione, soltanto per far pensare che credeva ancora che esistesse un unico giacimento di xenite, e ben celato nel fianco impenetrabile di una montagna. La realtà era diversa, e Xoanon lo sapeva.
Ora quella nebbia proteggeva i due corpi addormentati dall’atmosfera venefica invece di ucciderli, come fu chiaro quando si vide il torace di Varior muoversi placidamente, ma con ritmo costante e sicuro, nel sonno. E nella nebbia, Tzimar non li avrebbe trovati. Il luogotenente era adatto a prove semplici, che comportavano l’uso della spada o del pugnale, ma non aveva mai dato prova di finezza né tanto meno di intelligenza più che comune. Ora che i mucchi di xenite abbandonati nella sabbia stavano creando una cappa, quasi un rifugio, era chiaro che non avrebbero mai potuto impadronirsene. Dunque il vecchio Druido sapeva che anche quella era xenite, e la stava usando per i suoi scopi.
“Non finirà così” disse Xoanon, come a sé stesso, ma con una voce insolitamente alta e quasi stridula.
“Certo che non finirà così” ripeté meccanicamente Onigo “Si sveglieranno, e ci sarà da combattere, da dare il meglio”
Xoanon ebbe una smorfia, quasi un sorriso, tranquillizzato: era meglio che l’elfo nero non capisse, per ora, che il Druido era intervenuto. Voleva lasciarlo nella sua illusione che l’atmosfera venefica avesse ragione di Varior e Pique. Quando si sarebbe accorto che quell’atmosfera li proteggeva e che dunque avrebbero potuto dormire ancora per molto, sarebbe stato troppo tardi. Xoanon sapeva più di tutti sulla xenite, aveva letto nei Libri Beati, ed era sicuro degli infiniti effetti possibili, ma l’elfo, vedendo che l’atmosfera venefica nulla poteva contro la potenza druidica, si sarebbe abbandonato allo sconforto, forse ad un pianto infantile e sconsolato: ed era quello che voleva. Voleva essere il solo a trionfare, quando Tzimar avesse fatto il suo dovere. La situazione era difficile, in quel momento, ma doveva fingere tranquillità ed indifferenza. Anche gli incapaci come Tzimar possono servire, ma il vero successo sarebbe venuto quando la xenite avrebbe manifestato la sua potenza inesauribile.
I sali clatrati rendono un’infinità di servizi: la xenite può consentire di passare attraverso le mura di pietra più spesse senza danno né spaventi, di solcare boschi animati e valli di spiriti senza farsene accorgere. Se ne sarebbe servito anche per stanare i trolls ed impietrirli alla luce del sole, semplicemente per non riascoltare più l’eco della loro stolida risata infiltrarsi nel fitto dell’abetaia che solcava le Montagne Striate. Allora, uccidere il druido Terry gli sarebbe stato possibile, e semplice come respirare, non avrebbe avuto bisogno dell’aiuto degli elfi neri, ce l’avrebbe fatta da sé: invisibile a piacimento, avrebbe potuto diventare denso o opaco, trasparente o gassoso. Avrebbe potuto anche concentrare la luce nelle facce del cristallo, con possibilità di odio e di vittoria ancora tutte da esplorare. Xoanon si cullava nella certezza di essere l’unico al corrente di tutto questo, che prima o poi avrebbe potuto realizzare, balzando nell’immortalità.
Certo, si trattava di immergere i cristalli di xenite nel primo mosto dell'estate e compiere una complessa teoria di incantesimi, che a tutti sfuggivano, ma del cui segreto Xoanon era riuscito ad impadronirsi con un'azione tanto fortunosa quanto audace, qualcosa che l'aveva poi fatto ritirare dai fastidi di una vita attiva. Si sentiva vecchio ormai, e anche se sapeva precisamente cosa fare dei cristalli di xenite, non avrebbe potuto né si sarebbe avventurato in una spedizione faticosa e probabilmente pericolosa semplicemente per farla sua: per quello esistono i luogotenenti, anche se di limitata intelligenza e capacità come Tzimar. Una volta in possesso della xenite, la battaglia di Xoanon sarebbe ripresa con rinnovato vigore, e sarebbe stata una battaglia senza quartiere, dove la retroguardia si sarebbe confusa con la prima linea: sarebbe stata una lotta solitaria, mossa soltanto da un odio inestinguibile. Una lotta che non sarebbe mai finita, perché, pensava Xoanon, chi è in possesso della xenite non può più morire. Avrebbe vegliato sulla Contea come un rapace su un vallone solitario.
Era questione di tempo: quei due illusi, da come il sonno li aveva sorpresi, non avrebbero dovuto rappresentare un fastidio eccessivo.
Erano gli stessi pensieri che Pique nutriva nel sonno, forse ispirati da suo padre: la conquista della Grande Nave era vicina, a Varior sarebbe bastato non impedirlo.
Mentre Xoanon ed Onigo passavano dalla speranza allo sconforto, ebbero un sussulto nel vedere che la Grande Nave, incagliata da due secoli nella Baia Incantata, stava lentamente disancorandosi.
“Tzimar ha mosso il timone” commentò Onigo con voce atona.
“Quel bestione” replicò Xoanon “Se pensa di travolgere due piccole anime addormentate col peso di una triremi probabilmente marcia fino al midollo, come al solito ha concepito un piano approssimativo, se di piano si può parlare”
“Varior piccolo non lo è più, inesperto forse. Pique però, benché indubbiamente piccola...”
Xoanon non poté impedirsi di sorridere.
“So che ti piace” disse lentamente Onigo.
“Non sono nato per queste cose, non posso dire di comprendere il sentimento; certo la ragazzina ha delle qualità, che è giunto il momento di verificare...”
Frattanto la Grande Nave avanzava di pochi pollici, a scossoni, come se Tzimar avesse perso ogni nozione di controllo del timone, fendendo la spiaggia a momenti come se fosse stata olio, altri momenti tremando ed ondeggiando nello schermo, come se le sue strutture cigolanti stessero per cedere e sfarinarsi nella rena. Ma ogni momento sembrava più vicina ai due corpi.
“Forse Tzimar pensa di impadronirsi delle dune di xenite, servendosi della Grande Nave per trasportarle” commentò Onigo.
“Bestione! La xenite non è solo intrasportabile, ma qualunque contatto da parte di un’anima indegna la vaporizzerebbe nel modo sbagliato, e le sue proprietà sarebbero perdute per sempre”
“Nella Nave non ci dev’essere soltanto Tzimar” ripeté Onigo, con una voce sempre più priva di qualunque espressione.
“Certo non ci sono creature granché intelligenti” commentò Xoanon “Questa tattica approssimativa di usare la nave come un’ariete non può funzionare, e qualcuno che avesse appena un barlume di luce negli occhi dovrebbe informare il luogotenente”
“Se c’è, e temo che non ci sia, sulla Grande Nave” concluse Onigo.
Pique riapriva gli occhi: le era apparso nella veglia suo padre, forse evocato dal vecchio Druido, e nella lingua di Pantal, che aveva usato per non tradirsi, dato che non si poteva essere sicuri che Xoanon non capisse l’antica lingua druidica, le aveva parlato di un pericolo avvolto nella nebbia. Venne venirle incontro la grande prua di faggio della Grande Nave, dove i Trolls si agitavano e si facevano scherzi sul ponte. Tzimar era al coperto, forse non manovrava più il timone, forse semplicemente si godeva lo spettacolo.
“Nella Nave c’è un bosco fittissimo solcato da ogni sorta di creature incantate e perfide” disse Onigo, come per ricordarselo.
“Credo che comunque i Trolls stiano rischiando troppo: presto tornerà la luce, guarda già il cielo imbiancarsi ad oriente, e Venere svanire poco a poco” commentò Xoanon con una voce dura.
“I Trolls sono soltanto una protezione, e la meno essenziale ai nostri scopi, lo sai: eppure, sembra quasi che tu provi compassione:”
“Non scherzare, non è il momento, Onigo”
Pique cercava la spada con la mano: una forza invisibile la stendeva sulla sabbia senza possibilità di scampo. Varior dormiva ancora come un bambino: non c’era da fare nessun affidamento su di lui. Intanto la nave si avvicinava, e vista dal basso sembrava quasi balzare sulla sabbia.
Quando ebbe sentito sotto le dita le incisioni runiche dell’elsa, Pique si sentì animare da un nuovo coraggio, e si alzò in piedi. L’urto della Nave sulle rocce avrebbe potuto produrre un effetto imprevedibile, forse cancellare definitivamente il loro mondo. Perché quelle rocce non potevano che essere incantate. E forse la Nave era il vero strumento per sfondare la muraglia, tutti quegli accampamenti sorti nelle ultime ere nella valle non erano che specchietti per le allodole.
Non passò molto che Pique, ertasi a difesa della sua piccola anima, brandisse la spada con una forza che non sapeva di avere, e fendesse il fianco della nave. Ma il legno non cedette, o forse si ricompose al tocco della lama: Pique non si perse d’animo, mentre i Trolls la beffeggiavano dall’alto. Alzò la spada verso l’alto, ed invocò la Dea, ed il ritorno del sole.
L’alba prese a fiammeggiare improvvisa intorno alle residue stelle di oriente, ed i Trolls si diedero ad una danza disperata, ma sempre più lenta ed inutile, finché non sparirono nelle profondità della Nave Nera, che con un ultimo sussulto si fermò, mentre schegge di faggio si spegnevano come bagliori sulla superficie della sabbia. Pique, esausta, cadde in ginocchio.
“Temevo che sarebbe accaduto” disse Onigo senza scomporsi.
“Tzimar ha fatto quel che ha potuto, nella limitatezza dei suoi poteri e della sua mente” replicò il Negromante “Ma non è finita”
Il tocco della spada, che Pique aveva fatto cadere, una volta terminato lo svolgersi dell’incantesimo, aveva inciso un lungo solco in una delle dune di roccia. Per lunghi, profondi istanti non accadde nulla: Xoanon attendeva con una smorfia velenosa, senza rivelare nulla del suo stato d’animo ad Onigo.
Non gli era chiaro che cosa dovesse accadere, né quando, ma aveva pazienza: voleva trionfare all’ultimo, e trionfare senza possibilità di rivincita. Non era la piccola e perfida vittoria di un orco, era il dominio sul mondo druidico il suo obiettivo, e lo avrebbe raggiunto, una volta che nessuno avesse più potuto metter le mani sulla xenite, né su quella sepolta nella montagna né sull’altra, quella che restava sconosciuta sulla spiaggia, trasportata dagli orchi nelle loro insensate, ma tanto utili scorribande dell’Epoca Gloriosa. Xenite che loro stessi credevano inutile, un capriccio del Negromante, nulla più.
Dalla fenditura nella roccia uscirono dionee sempre più alte, che si avvilupparono insieme con cespugli di ortica ed inestricabili rovi intorno a Pique, ed a Varior forse ancora addormentato in un sonno incosciente. La ragazza afferrò la spada e cercò come dieci uomini di tagliare e spezzare l’incantesimo, ma si trovava sempre più avvolta, mentre anche dalle altre rocce migliaia di piante spinose di ogni specie si sviluppavano a vista d’occhio, mentre dagli oblò e da tutte le fessure della Nave Nera i rami di un bosco fatato si stendevano a coprire le dune stesse e la sua vegetazione magica con un intrico ancora più spesso. Pique, accerchiata e vinta, si gettò in mare, mentre Varior era perso nel folto della boscaglia: Pique ne cominciò a sentire le grida levarsi disperate, ma non poteva aiutarlo. Cercò di restare a galla, e sparì in un anfratto di roccia, forse l’unico rifugio sicuro nella Baia Incantata. Dovette ricorrere a tutti i suoi poteri per restare viva e cosciente. Certo, il sonno di Varior le era costato caro.
“Solo altra xenite potrebbe neutralizzarne l’effetto. Stavolta il vecchio Druido non ha potuto nulla. Ora puoi spargere i tuoi veleni, elfo. E ci divertiremo finalmente” ghignò il Negromante.
All’ombra della sua quercia Terry sentì che qualcosa era accaduto, su cui non aveva potere né controllo, e decise di convocare il Sommo Collegio.
©
Carlo Santulli
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Prefazione / Indice / Scheda
Ghigo e gli altri di Carlo Santulli
2007 pg. 204 - A5 (13,5X21) BROSSURATO
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Altre informazioni / L'autore
Pochi autori, come Carlo Santulli, sanno giocare con le parole, intarsiandole in piccole storie che si snodano tranquille (mai lente) attraverso una realtà quasi ordinaria e che, pure, riescono ad affascinare il lettore costringendolo a leggere fino all'ultima riga. Personaggi stupiti, a volte impacciati, si aggirano tra le pagine di questo libro, alle prese – come tutti noi – con le incongruenze e le follie del vivere quotidiano, non si abbandonano però all'autocommiserazione, non si ribellano, non cedono a tentazioni bohemien e, se cercano una via di fuga, questa è piuttosto interiore che esteriore. Un cammino, a piccoli passi, che li porterà, forse, verso un punto di equilibrio più stabile. Irraggiungibile (ma reale) come un limite matematico. Siano essi alle prese con una Quinta Arborea, un mazzo di chiavi che si trasforma nel simbolo di un'esistenza, un Clostridio tra i Pirenei, o passeggino, semplicemente, per le strade di una sonnolenta Roma anni trenta.(Marco R.Capelli)
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Prefazione / Indice / Scheda
Ghigo e gli altri di Carlo Santulli
2010 pg. 200 - A5 (13,5X21) COPRIGIDA
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Pochi autori, come Carlo Santulli, sanno giocare con le parole, intarsiandole in piccole storie che si snodano tranquille (mai lente) attraverso una realtà quasi ordinaria e che, pure, riescono ad affascinare il lettore costringendolo a leggere fino all'ultima riga. Personaggi stupiti, a volte impacciati, si aggirano tra le pagine di questo libro, alle prese – come tutti noi – con le incongruenze e le follie del vivere quotidiano, non si abbandonano però all'autocommiserazione, non si ribellano, non cedono a tentazioni bohemien e, se cercano una via di fuga, questa è piuttosto interiore che esteriore. Un cammino, a piccoli passi, che li porterà, forse, verso un punto di equilibrio più stabile. Irraggiungibile (ma reale) come un limite matematico. Siano essi alle prese con una Quinta Arborea, un mazzo di chiavi che si trasforma nel simbolo di un'esistenza, un Clostridio tra i Pirenei, o passeggino, semplicemente, per le strade di una sonnolenta Roma anni trenta.(Marco R.Capelli)
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