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Aspettando lei
di Valeria Francese
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I treni come astri imbionditi da questo tramonto alla stazione.
“Signore, sa l’ora?”
E’ tardi, ragazzina. Ciondola nei suoi pantaloni dagli elastici dispersi, con certe fughe negli occhi, come di partenze tentacolari ed improvvise.
“Non ci voleva. Trentacinque minuti di ritardo. Troppo.” Replica intanto un uomo in paltò bruno alle mie spalle.
Il mio orologio contraddice certe lancette pigre appollaiate sopra un quadrante a muro. Non mi resta che rispondere, anch'io in ritardo, a quella domanda, ciò che mi sembra un giusto compromesso
“Sono le diciotto.” D’altronde perché irritarsi dei ritardi?
Quel che succede nelle attese crea parentesi in cui dai l’anima. Il posto si getta, basta un binario per sentire suonare una sinfonia molle e vedere vortici di umanità che si disperde nella metafora abusata del viaggio. Ma capita troppo di frequente, d’accorgersi che tutti questi presunti viaggi non siano altro che giri recisi su se stessi, in una città che si muove frenetica solo per eludere il cielo che la segue e spostare il limite di se stessa sempre più avanti. E' un’attesa, niente di più né di meno: riuscire a trovare la distanza giusta per compiere un giro meno tronco sotto un cielo che lasci almeno un po’ d’aria.
“Guardi che io il biglietto lo avevo.”
Un’altra voce ed ancora un altro ritardo. Suvvia, gendarme, ma non lo vede che il ragazzo ha certi fuochi di sincerità sopra il gel dei capelli?
E’ partito l’eurostar all’ultimo binario, intanto, con una certa signorile fretta. Allungato nel suo muso pregiato, riconoscibile a prima vista come certi cani di razza.
Carla prende sempre l’eurostar per tornare a casa in tempo, la sera, e non mancare mai alle nostre cene intrise di un aroma sempre uguale: ogni cucina ha un suo odore, è lo stesso che si ritrova sempre sulla pelle delle donne, è su quel confine che, come si sa, comincia l’amore.
Io non ho mai preso l’eurostar. L’impazienza si paga. Io non ho fretta e nemmeno troppi soldi.
Preferisco certi treni bastardi che puzzano di muffa e di certe vite che imparano a conoscersi nelle attese dei viaggi.
“Ah si, e che fine ha fatto questo biglietto? Puff! Volatilizzato?” il controllore - gendarme compie un gesto di cabaret a simulare l’atto della sparizione, come di un coniglio dentro il cilindro.
Certe ironie consumate negli occhi che si credono furbi, hanno un che di noioso. Probabilmente ad esserlo, noiosi, sono tutti gli atti che non appartengono a certe nature. A pensarci, mi sento noioso anche io. Ogni volta che vengo qui, come se fosse un dovere, o con la scusa di un dovere, mi accorgo di tradire la mia natura, una natura pacata, che non avrebbe molto da dire o da fare in una storia come questa, dalle tinte banalmente aromatiche.
“Tre volte il costo del biglietto. Documenti.”
Ma la farsa non cessa se qualcuno non ci fa capire che non è cosa gradita. Il silenzio ci giustifica, legittima la continuazione all’infinito di uno spettacolo.
“Cosa? Ma dice davvero?Le diciotto?! Accidenti.” Si morde le labbra, la ragazzina, cercando un buon motivo per non pensare alle conseguenze dei ritardi. In effetti certe conclusioni sono inaspettate. Basta far tardi, perché il mondo, con certe presunzioni di autorità, ti lasci fuori, in attesa, costringendoti all’osservazione di qualunque copia becera di teatro d’autore.
“E se prendessi un taxi..tutto sommato dovrei farcela ancora..”
Quel paltò bruno, dietro di me, appartiene ad un uomo che ancora parla da solo, con il viso che gronda sudore, appoggiato ad incastro su un mento a doppie balze, con lenti piccole ed appannate per certi sussulti respiratori. In effetti le modalità per reagire ad un ritardo e non farsene vincere, sarebbero molte, in qualche caso, efficaci. Altre, sarebbero solo semplici sublimazioni di uno stato d’agitazione. Prendere un taxi per tornare a casa non terrebbe conto del traffico stradale. E poi il costo? Il signore ha già in mano un biglietto da poco più che tre euro, per pagare un taxi dovrà aggiungerne almeno altri trenta.
E’ chiaro, da certe esitazioni del capo ed una postura oscillante, che il tipo non prenderà mai un taxi. Aspetterà come tutti noi, ma intanto, darà la sensazione di poter sempre avere in mano la soluzione ai suoi problemi. E questo gli fa bene, lo fa sudare di meno, alitare con agitazione sempre più mesta ed infine, rassegnare con un certo sorriso, mentre allenterà il nodo della sua cravatta, strozzino delle sue residue speranze.
In attesa. Si resta tutti in attesa, ancora.
Carla dovrebbe arrivare a momenti. Comincio ad allontanarmi verso l’ultima linea esigua del sole, verso quelle che saranno le prime carrozze. Non voglio che mi veda, lei non sa che io sono qui.
Oggi è giovedì. Ed è il giovedì che Carla prende l’eurostar e viene in questa piccola città poco lontana da casa nostra. Quando si fanno le 18 e si fa ora di rientrare, lei ritorna qui e la osservo prendere il treno che la porterà di nuovo da me, dentro una delle nostre cene aromatiche. E solo dopo, io aspetto uno di quei treni bastardi, aggiungo la mia muffa a quella degli altri, mentre i pensieri di tutti si raggrumano in promiscue combinazioni. Succede qualche volta che mi addormenti, mentre le rotaie torturano risate e squilli di cellulare, macinano imprecazioni e pettegolezzi, mentre ritorna una metafora abusata, il viaggio che si compie, che si compie per forza, per scelta o per un semplice, banale tradimento da commedie di scarso valore.
Il ragazzo è tornato rosso in volto, con in mano la sua multa, eppure io gli ho creduto quando diceva che il biglietto lo aveva. Di fronte ad un controllo, alla verifica, di solito sono solo gli onesti ad essere i più sprovveduti, i malcapitati. Ad ognuno, poi, tempi e modalità di reazione: c’è chi si tranquillizza pensando ad un taxi che non prenderà mai e c’è chi viene qui, ogni giovedì, alla stazione, a 20 km da casa propria, solo per vedere la propria moglie prendere l’eurostar per fare ritorno a casa, dopo che è stata con il suo amante. E’ calato il buio, un celeste buio che per risalto fa stagliare in primo piano le figure che ancore restano . Una lattina di aranciata si rotola spinta dal primo vento e divertita, si mette a rincorrere un punto qualunque. E’ così che, lentamente calano i ritardi e le aspettative si quietano.
C’è chi, quelle aspettative non le ha mai avute, oppure chi per molto tempo, non crederà più ai ritorni possibili farà del proprio ritardo, una semplice abitudine alla vita.
L’amante arriva per primo. Controlla gli annunci dei treni in arrivo. Eurostar delle 18.15. Orario previsto: 18.15. Una camicia aperta sul petto ed i capelli neri che ondeggiano su un viso dai tratti spigolosi. Accende una sigaretta che fa un piccolo alone di luce attorno al suo capo, come succede alle aureole di certi santi. Ma non è un santo, è un traditore.
Poi arriva Carla, eccola mia moglie, con certi salti da gazzella lo raggiunge alle spalle e controlla l’orologio. In mano ha un bicchierino di caffè. Si mette a sorseggiarlo come se fosse miele, è inebriata da un sapore che sembra non abbia mai sentito prima.
Certe bufere che passano assieme ai treni sono passaggi incontrollabili di vento. Sfumano le persone, sfumano gli anni, le promesse, le fedeltà. A starci dentro il ciclone, come faccio io ogni giovedì, nasce un senso. Sono qui a legittimare un tradimento, ad assistere alla scena beffarda, mia moglie che torna a casa dopo essere stata nella città del suo amante. Aspettare questo giorno per scoprire alcuni lembi di sincerità, nascosti nelle muffe dei treni, mi consente di scegliere il modo migliore per accettare il mio ritardo, quello che non posso in alcun modo cancellare.
Carla ha certe vibrazioni nello sguardo, certi nuovi modi di scostare i capelli del viso. Ogni volta conosco una donna nuova, ogni giovedì m’innamoro di un gesto diverso.
Arriva il muso del cane pregiato e quei due si baciano, si vedranno fra una settimana. Chiudo gli occhi e quando li riapro è rimasto solo un certo silenzio a dire le cose.

© Valeria Francese





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