La Ventimiglia - Torino (per la precisione Via Ventimiglia - Via Po) è forse la tappa più massacrante del Tour. Prima di raggiungere il verde ciclabile del Valentino occorre attraversare il Valico del Traffico della mattina: impervie salite di polvere e asfalto, smog da respirare a pieni polmoni, e scatolette di latta ultraveloci guidate da teste di latta ultradeficienti.
Sono i gregari su quattro ruote, arrabbiati e ridicoli, che lottano come i più accaniti guerriglieri per un centimetro di strada, per un sorpasso, bestemmiando con la bava alla bocca per le infrazioni dei concorrenti in gara, le stesse infrazioni che avrebbero voluto fare loro. Gli occhi iniettati di sangue degli agonisti motorizzati non vedono altro che maledetti pedoni bastardi, cretini che chi gliel'ha data la patente, e altri non meglio identificati nemici che se ne stessero a casa. E poi, se, poniamo, fossimo all'inizio della primavera, quando il mondo cromatico si risveglia, e gli alberi stessero già germogliando tra il verde delle foglie e il marrone delle cortecce, i fiori stessero già gemmando, in un prisma di mille rifrazioni, rosse, viola, blu, le donne si stessero già scoprendo un po', mostrando il rosa delle gambe e quello delle spalle, tutto pronto per un nuovo ciclo di vita, per riproporre il mito dell'eterno ritorno e della rinascita, questi profani e filistei e malevoli sporchivi (non certo sportivi) riuscirebbero a scorgere solamente i tre colori del semaforo. Per non parlare degli oziosi, che facendo propria l'episteme di De Coubertin, si muoverebbero ipocritamente, seguendo la fila, ingannando il tempo con lunghe perlustrazioni delle cavità nasali, ripulendosi poi accuratamente le dita con quelle orali.
Un inferno.
Dio! la Ventimiglia - Torino non è una semplice corsa: è una sfida al buon non senso comune della maggioranza dei partecipanti, uno sberleffo alla grande imbecillagine del mondo inurbato, imbarbarito, inumano.
La Ventimiglia - Torino è quella che, se parti maglia rosa, arrivi maglia nera, perché sei il solo, dunque primo ed ultimo allo stesso tempo, a farsela ancora in bici, e perché i fumi dei tubi di scappamento dell'immondezzaio metropolitano renderebbero nero anche un albino.
Un inferno. Il Passo da macinare, metro per metro, sudore per sudore, fiato per fiato è il Contrappasso per eccellenza, per chi da tempo medita di registrarsi a viva voce l'intera Divina Commedia, ed ascoltarsela poi con un walk-man durante il tragitto. Le allegorie con le cantiche iniziali si sprecherebbero. L'intenzione è quella di impararla a memoria, tramandandola alle future generazioni come in Farhenait 491 di Bradbury. Coi tempi che corrono non è affatto una cattiva idea, eh Nino?
Quanta strada nei miei sandali? Tanta o pochissima, dipende dall'ottica con la quale ci si guarda indietro. Ma io ci scalpitavo davvero su quei sandali, quando ti vedevo arrivare, in lontananza, in fuga, staccando il gruppo in una volata da grande campione: i muscoli che lavoravano con forza sui pedali, divorando i portici di Piazza Vittorio Veneto, il basco sulla testa, la barba da vecchio saggio. La figura di un poeta pittore ciclista librofilo letterato cinefilo musicofilo scrittore che neanche il Buonarroti era riuscito ad accumulare tanti aggettivi, giganteggiava stagliandosi contro le ombre di un contorno anonimo, in una via biancastra come latte cagliato, fino ad arrivare, col naso triste da italiano in gita, con gli occhi dal sorriso maliziosamente malizioso, sinceramente sincero, la bocca ridente e pronta alla chiacchiera, vittorioso, al traguardo della bancarella. Certo, è un giorno appiccicoso di caucciù, una birra fa gola di più e me la bevo in tuo onore, Nino. Brindo a te. Alla tua voglia di correre, nonostante tutto, di metterti in gioco, di gareggiare con te stesso, e non con gli altri, perché la competizione è una brutta parola che non appartiene al lessico famigliare, né mio e né tuo: è una parola ingannevole, subdola, ricorda la semantica della collaborazione, della cooperazione, della condivisione, della comprensione, con quel prefisso messo lì davanti, ma con quella sfera di significato nulla c'entra. Rammenta semplicemente che in tutte le nostre azioni, come nelle nostre parole, nei nostri verba co-esistano effetti positivi e negativi: noi siamo quei prefissi, il verbo che li accompagna fa il resto.
Quanta strada nei miei sandali. Quanta ne avrai fatta tu? I francesi si incazzano ancora, i giornali svolazzano ancora, nulla è cambiato, forse tutto è peggiorato nella melma di un doping mediatico, di un asservimento delle coscienze, di un servilismo diffuso, di ciclisti che scendono sempre più a patti con loro stessi, che indulgono a commiserarsi, a commiserare lo schifo di Giro o di Vuelta che si trovano a correre, guardando passare tifosi sempre più spenti, pianure sempre più scialbe, montagne sempre più piatte, laghi e fiumi sempre più prosciugati. Il paesaggio è dentro e fuori di noi, non dobbiamo mai dimenticarcelo. Siamo noi che scegliamo. Siamo noi che dobbiamo lottare per scegliere. Siamo noi qui e adesso che dobbiamo trovare forza e coraggio e unione e fantasia e allegria e immaginazione.
La Ventimiglia - Torino è finita con te, Nino.
Ora si tratta di salire in sella al dubbio, ma non il dubbio che non porta a niente, che fa terra bruciata intorno a sé, che rende sterile la marcia, la infiacchisce. E' invece su quel dubbio costruttivo, specola dal quale guardare ciò che sta al di là dei nostri egoismi, che dobbiamo montare, partendo questa volta per un viaggio che solca tutte le strade possibili praticabili, mai pensate fino ad ora, con la determinazione di chi sa che gli ostacoli sono molti, disseminati come infinti birilli, ma che non sono insormontabili. Con la determinazione dell'autodeterminazione, cosciente, fatta di spirito critico, di crescita, di rinnovamento, imparando di nuovo a cadere e a rialzarsi.
E al cinema vacci tu.