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RACCONTO SEGNALATO DALLA GIURIA NELLA II EDIZIONE DEL CONCORSO LETTERARIO UNIBOOK - PROGETTO BABELE
Fa un caldo terribile. Gocce di sudore salato mi imperlano la fronte e colano lente e inesorabili lungo la mia faccia. Fa un caldo infernale. La temperatura è così alta che si potrebbe cuocere un uovo sul cofano di una macchina. Fa un caldo bestiale. Il sole è a picco sulla mia testa abbronzata e brucia sulla stempiatura ormai incipiente. Fa un caldo triste. Triste come me. Quassù in cima, il vuoto sotto di me, sto per buttarmi di sotto. Ma sì, ma chi se ne frega. Mi butto. Basta poco, basta un passo, un piccolo saltino, un piccolo hop ed è tutto finito. Quanti saranno… sei? Forse anche dieci metri. Mi affaccio. Guardo di sotto. Sì, saranno dieci metri buoni. Quasi, quasi mi butto. Che poi, detto tra noi, la mia è stata proprio una vita di merda. Così insulsa che la si potrebbe riassumere tranquillamente con una sola parola: delusione. Anzi, ad essere sinceri, questa piccola, insignificante e triste parola è stata proprio il leitmotiv di tutta la mia esistenza. Cominciai prestissimo. I miei, per altro ottimi genitori, volevano una bambina. Nacqui io: prima delusione. Forse è per questo, per vendicarsi, che mi misero nome Felice, che già di per sé non è un granché come nome, ma se poi di cognome fai Di Gioia, diventa praticamente insopportabile. Da allora è stato un susseguirsi infinito di fallimenti. Secondo me era il nome che mi portava sfiga, perché nonostante tutti i miei sforzi, di essere veramente felice, e per di più Felice Di Gioia, non se ne parlava proprio. Infatti, pochi anni dopo, arrivarono le prime cocenti delusioni d’amore. Presto dite voi? Non per un fuoriclasse della sfiga come me. Già all’asilo, innamorato cotto di una biondina dagli occhi azzurri di cinque anni di nome Chiara, crollai psicologicamente quando una delle suore (bastarda) chiese a Chiara, strizzandole le guance, chi fosse il suo fidanzatino e lei (zoccola) rispose Giacomo Fantini, un moretto sdentato, arrivato da pochi giorni, che manco parlava bene, se la faceva ancora sotto, e che già odiavo dal più profondo del cuore. Faticai a riprendermi e alle Elementari, causa trauma infantile, ero uno dei più introversi, solitari e timidi bambini di tutta la scuola. Stavo molto sulle mie, avevo pochi amichetti e tutti mi prendevano in giro a causa del mio nome, che, oltretutto, contraddiceva in maniera piuttosto evidente la mia quotidiana tristezza. Alle medie invece, quando cominciai a crescere e a maturare, decisi che avrei dovuto dare una svolta alla mia vita, che così non poteva più andare avanti. Cominciai a vestirmi bene ed elegante, sempre per cercare di fare colpo su qualche ragazza della scuola: ero l’unico dei miei compagni che non aveva avuto almeno una fidanzatina. Questo fatto, più il mio abbigliamento ricercato, innescò una serie di maldicenze e di equivoci per cui per tutti, professori compresi, ero diventato gay. E avevo speso anche un sacco di soldi in stupidi, colorati vestiti… Mi buttai quindi nello sport, erano già molti anni che giocavo a tennis e in seguito, all’età di quattordici anni, diventai anche campione italiano under 14. Ma non ero contento, lo facevo per dovere, per inedia e perché mi riusciva bene, ma non perché mi desse una qualche soddisfazione. Quando da un giorno all’altro comunicai al mio allenatore che avrei smesso di giocare a tennis e che quella decisione era definitiva e irrevocabile, lui mi disse solo due parole. Indovinate? “Che delusione…” Gli anni del Liceo furono poi tremendi. Una precoce miopia mi costrinse a indossare gli occhiali e una costante e perseguitante sfiga a mettermi l’apparecchio per i denti. Già di ragazze non se ne vedeva neanche l’ombra, conciato in quel modo poi… Preso da una delirante disperazione, convinto che non mi sarei mai fidanzato, decisi di abbassare decisamente il livello delle mie aspirazioni e cominciai a corteggiare la ragazza più grassa della scuola, Lina si chiamava. Che poi era anche simpatica, ma quanto a bellezza… lasciamo perdere. Quando le scrissi un’appassionata lettera d’amore con tanto di invito a cena alla Pizzeria Arcobaleno e lei rifiutò rispondendomi che non era il caso e che aveva altri progetti, rischiai davvero di cadere in depressione. Mi salvò la mia abitudine ai fiaschi ormai datata e sperimentata. In seguito, crescendo, migliorai nell’aspetto e riuscii anche a fidanzarmi due o tre volte. Non che fossero grandi storie d’amore, ma era comunque meglio di niente. Finché conobbi lei: Luisa. Bellissima. Alta, bionda, intelligente e anche simpatica, che tutti si chiedevano come mai si fosse messa proprio con me. Sempre gentili… Io però ero al settimo cielo e dell’opinione degli altri me ne fregavo. Non ero mai stato così felice, di nome e di fatto. All’epoca facevo medicina, non perché mi piacesse davvero, ma perché i miei avevano tanto insistito e per me una facoltà valeva l’altra. Ma Luisa mi aveva sconvolto la vita. Mollai tutto, Medicina compresa (altra delusione per i miei) e trovai un discreto impiego in una ditta di computer. Quindi, con una solida posizione economica alle spalle, feci il gran passo e durante una cena a lume di candela con tanto di violinisti al tavolo che suonavano, chiesi a Luisa di sposarmi. Ovviamente disse di no. Disse che le dispiaceva, che era desolata, che era una scema, una stronza, ma si era innamorata di un altro. “Un altro? Chi è!?!” chiesi io con le lacrime agli occhi. “Giacomo…” Non mi dire che era Giacomo Fantini dell’asilo perché mi sarei ammazzato immediatamente. Non era quel Giacomo lì, ma poco importava nella sostanza del rifiuto, rappresentava comunque una mazzata terribile. Nella mia personalissima classifica delle delusioni si attestava indubbiamente sul gradino più alto del podio. Qualche anno dopo mi sposai davvero. Per un certo periodo fu anche bello, ma non durò poi molto. Eravamo troppo diversi, troppo distanti e ci separammo dopo sette anni, un classico. Banale anche in quello: non superammo la crisi del settimo anno. Poi vennero tempi relativamente tranquilli e cominciai anche a trovare un mio equilibrio psico-fisico non indifferente. Praticavo molto sport: nuoto, calcetto, in un impeto di follia boxe, e avevo anche ricominciato a giocare a tennis. Non potevo dire di essere felice, ma era sicuramente lo stato d’animo che più si avvicinava alla serenità che io conoscessi. Ovviamente, di lì a poco, tanto perché non si può stare mai tranquilli, cominciai a perdere i capelli. Se c’era una cosa che avevo, di cui andavo orgoglioso erano i capelli. Li avevo portati sempre lunghi. Fluenti, gellati, spettinati e a coda di cavallo a seconda della moda del periodo. Perderli e dovermi rapare quasi a zero fu devastante. Un’altra delusione. La milionesima della mia vita. Se un giorno scriverò la mia biografia, e ovviamente dubito che lo farò, la intitolerò “Le mie delusioni”. Stavo invecchiando di fallimento in fallimento. Ogni tappa della mia vita, a dispetto del mio nome, era sottolineata da un evento infelice, da un insuccesso. Fino agli ultimi due. Quelli che mi hanno portato dove mi trovo. Tre mesi fa è morto il mio migliore amico. Anzi, a dire il vero, l’unico. Gli avevano diagnosticato un tumore ai polmoni sei mesi prima e io neanche lo sapevo. Questo, anche più della sua morte, mi aveva turbato. Perché non me l’aveva detto? Perché morire così, all’improvviso, senza neanche il conforto di un amico. Proprio non lo capivo. Proprio non riuscivo a darmi una spiegazione. E poi l’ultimo. Due mesi fa, poco dopo la morte del mio amico, la ditta dove lavoravo da quasi vent’anni e nella quale avevo fatto anche un po’ di carriera e raggiunto una discreta posizione dirigenziale con annesso ottimo stipendio, era fallita. E ora mi trovavo a quarantacinque anni, calvo, con gli occhiali, un po’ di pancetta, senza lavoro e con poche prospettive davanti. Ecco perché adesso sono quassù in cima, con un caldo infernale, io che tra le altre cose soffro anche di vertigini, e sto per buttarmi di sotto. Ecco perché ho preso questa decisione. Ecco perché ho deciso di farlo. Ci vuole solo un po’ di coraggio, quello che non ho mai avuto in vita mia, un pizzico di follia, un po’ di incoscienza e il gioco e fatto. Dai, basta poco, basta una passo, basta un saltino. Uno, due, tre e… hop! Uno, due, tre, quattro, cinque secondi e… Mi immergo con uno spruzzo gigantesco nell’acqua della piscina. Riemergo dall’apnea a corto di fiato e appena fuori dall’acqua, cerco con lo sguardo l’unica vera, inestimabile gioia della mia vita: Aurora, mia figlia di sette anni e i suoi occhi azzurri. Lei è lì fuori che mi guarda. Sorride, batte le mani e grida “Bravo papà, bravo papà!” Pochi minuti prima mi aveva detto: “Papà, ma tu ce l’hai il coraggio di buttarti da quel trampolino lassù?” Beh, è stata dura ma …non potevo mica … deluderla!
©
Christian Bigiarini
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