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Di colpo si ritrovò seduto, perfettamente sveglio e con gli occhi sbarrati a fissare il buio. Nelle orecchie, l’eco di un grido lacerante. Che non poteva essere esploso che dalla sua gola, tanto la percepiva arida, graffiata. Cercando di ritrovare un po’ di calma, cominciò a guardarsi intorno, sbattendo le palpebre e appuntando gli occhi per cogliere i minimi barlumi di luce. Pian piano cominciò ad abituarsi. Dalla cornice chiara della finestra, appena visibile nell’oscurità della stanza, la notte sembrava colare giù, marea densa e appiccicosa, e permeare di sé lo spazio circostante. Le sagome sottili dei pochi mobili brillavano cupe nelle sue pupille strette, perimetri scarnificati di scheletri ammiccanti. Il sogno – l’incubo – era tornato ancora. Persecutorio. Tuttavia, come sempre, non riusciva a recuperarne il filo, a richiamarlo alla mente, se non per immagini staccate, per fotogrammi isolati pieni di fauci di lupo spalancate; di occhi (erano i suoi occhi: li riconobbe senza ombra di dubbio) sgranati di un terrore sordo e senza nome; di lampi accecanti di paletti appuntiti... Qualcosa sembrava mutata in lui, doveva aver subito una specie di metamorfosi, essersi trasformato... Ma in chi – Preda? Cacciatore? – O in che cosa? Sospettava, temeva, di saperlo. Diventare come loro! Brandelli segmentati del sogno parevano affollare ancora lo spazio scuro intorno a lui, fluttuanti, zigzaganti, stormo di pipistrelli in voli disordinati, neri, dalle ali frastagliate e dagli artigli acuminati. Scosse la testa, le spalle. Cominciò a toccarsi il viso, come se, prigioniero ancora nel vortice dell’orrore, volesse rassicurarsi, sincerarsi che niente era cambiato, che la sua fisionomia fosse sempre quella che conosceva. Ma non era sufficiente. Certe immagini, certe situazioni erano troppo nette, troppo reali. Il solo senso del tatto non poteva bastare a tranquillizzarlo. Si decise. Con uno scatto posò i piedi sul pavimento. Un leggero capogiro lo assalì e dovette fermarsi per qualche secondo. Poi si mosse, verso il sottile filo di luce che filtrava sotto la porta del bagno, dove una lampadina d’emergenza restava sempre accesa. Avanzò lentamente. A passi brevi, dubbiosi, e con la tentazione costante di tornare indietro, di non voler sapere... Ma, catturato da una sorta di filo invisibile, si trovò ugualmente con la mano poggiata sulla maniglia del piccolo bagno. E si bloccò. Le dita strette sul pomello, ricostruì mentalmente la stanzetta: le mattonelle bianche alla parete, il vecchio lavabo e lo specchio, lo specchio dagli angoli un po’ sbreccati che si sarebbe trovato di fronte appena aperto. E allora avrebbe saputo. Basta. Non poteva aspettare un secondo di più. Raccolse le ultime briciole di coraggio e spalancò la porta. E sorrise. Sotto quella luce fioca, lo specchio era desolatamente, meravigliosamente vuoto.
©
Massimiliano Marconi
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