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RECENSIONE
FRANKENSTEIN JR.
USA 1974
Frankenstein
Jr.
Titolo originale: Young Frankenstein
Nazione: Usa
Anno: 1974
Genere: Horror/Demenziale
Regia: Mel Brooks
Cast: Gene Wilder, Marty Feldman, Peter Boyle
Divertentissima parodia del filone horror più
rivisitato in assoluto, il film si avvale di
un eccellente cast, di una solida e ben costruita
sceneggiatura (gli autori sono Wilder e Brooks),
di una regia impeccabile e di un'atmosfera in
bianco e nero volutamente allusiva e parodistica.
Protagonista (Gene Wilder) è un medico
e scienziato accreditato, che insegna in una
prestigiosa accademia a studenti goliardici
ma volenterosi. Uno in particolare, l'odiosissimo
secchione/primo della classe, durante una bizzarra
lezione sul cervello umano tempesta il medico
di domande riguardo alla sua presunta discendenza
dal Barone Von Frankenstein, alludendo agli
esperimenti per riportare in vita cellule morte.
Il docente, irritato dall'interrogatorio sempre
più serrato e incalzante, sbotta di rabbia,
urlando tutto il suo disprezzo e la sua disapprovazione
per l'opera di un "emerito coglione".
La questione si risolve apparentemente in una
risata, mentre tra gli uditori si profila l'immagine
di un anziano ambasciatore, che si fa avanti
e consegna al medico un prezioso documento redatto
dal nonno Victor Von Frankenstein, contenente
la descrizione dettagliata dei suoi esperimenti
volti a riportare in vita cadaveri umani. Incuriosito,
il medico ripercorre gli scenari delle esperienze
del nonno e rimane tanto affascinato dalla lettura
del manoscritto che alla fine si convince della
fondatezza di tali idee e tenta egli stesso
di realizzarle.
Nel
tetro scenario di un castello della Transilvania,
antica dimora dei Frankenstein, raggiunto a
bordo di uno scalcinato calesse in compagnia
del gobbo Igor (Marty Feldman) e della procace
assistente Inga (Teri Garr), il medico viene
accolto fin troppo cerimoniosamente dalla severa
governante Frau Blucher (Cloris Leachman), un
tempo amante di nonno Victor, che lo incita
a tentare l'esperimento. Lo scienziato si cimenta
allora in un'audace quanto pericolosa impresa:
recupera il cadavere appena sepolto di un ex
galeotto, "un gigante di due metri e mezzo"
(Peter Boyle), lo incatena al tavolo operatorio
e incarica Igor (la cui gobba si sposta misteriosamente
da una spalla all'altra) di prelevare dalla
banca dei cervelli (una sorta di primitivo bancomat!)
la materia grigia di un eminente scienziato
e santo, da trapiantare nel corpo del defunto.
Disgraziatamente, il goffo e maldestro Igor
lascia cadere il campione prelevato, che si
sbriciola al suolo. Terrorizzato all'idea di
ritornare dal suo "padrone" a mani
vuote, Igor sceglie a caso un cervello che porta
il nome di "Ab Norme" e lo consegna
allo scienziato. Il cervello guasto viene così
impiantato nel gigante, con le conseguenze comico/grottesche
che ben si possono immaginare.
Inizialmente pare che l'esperimento fallisca,
ma improvvisamente, mentre i tre sono intenti
a gustare un'abbondante colazione nordica, il
gigante si risveglia e Frau Blucher (sentendo
pronunciare il suo nome i cavalli s'imbizzarriscono)
lo libera all'istante, calmandolo al suono struggente
di un violino. L'animo del gigante si rivela
a poco a poco buono e mite: intramontabile la
scena in cui incontra una bambina, ma, anziché
terrorizzarla, gioca con lei, rivelando la sua
tenerezza nascosta e diventando lui stesso bambino.
Non si può omettere neppure il cameo
di Gene Hackman, che impersona un maldestro
cieco che ospita "nella sua umile dimora"
il gigante terrorizzato, fuggito dal castello
alla ricerca di libertà e salvezza. Tra
gags ed equivoci esilaranti, alla fine il gigante
viene "adottato" dal medico, che fa
di lui una star, sfidando e infine vincendo
la crescente diffidenza degli abitanti del luogo.
Mirabile la "caricatura meccanica"
del Generale dalla buffa parlata, capo indiscusso
della comunità transilvanica, che in
un primo tempo sobilla le folle contro il "mostro",
intuendo poi la sua umanità quando il
gigante, cui lo scienziato ha trasmesso elettronicamente
impulsi cerebrali, sacrificando se stesso pur
di riuscire a donargli la parola, pronuncia
una dotta apologia a difesa del suo creatore.
Mel Brooks si fa gioco dei luoghi comuni del
brivido con arguzia, intelligenza, humour e
delicatezza. Nel finale, il film scade un po'
nell'americanata, ma nel complesso trattasi
di opera godibile, azzeccata, divertente nei
suoi pasticci linguistici e nelle sue dotte
allusioni letterarie.
Annalisa Ghigo - ghigomi@libero.it
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