[Il Signor Ermenegildo Sette, ricoverato in una clinica per malati mentali, trascorre molte ore del giorno a parlare da solo. Entro i limiti che gli sono assegnati dall'uomo, dalle pastiglie e dal destino, racconta in una stanza isolata di cose accadutegli molto tempo prima nella sua vita cosiddetta "normale", quando ancora era in pieno possesso delle sue facoltà. In questo resoconto, esilarante quanto arguto, narra di tutto e di più: del proprio rapporto con il lavoro, con le diverse fidanzate che ha cambiato, da Clementina alla straniera Sofia passando per Vanessa, Lavanda (poi chiamata Petite); per non dire dei rapporti con la vicina di casa Elena, la zia Serafina e lo zio Mario e degli incontri, tanto speciali e pure bizzarri, con altre persone - che ci parrà persino di riconoscere fra la cerchia di "amicizie e parentele" di ognuno di noi - che lui chiamerà in modo originale come Stambecca, Teiera e il vecchio fumatore accanito Caminetto. Infine, ma non da ultimo, il tragico incidente del cugino Dario lo porterà a conoscere l'infermiera Fernanda, chiamata affettuosamente Vampira, che diventerà la sua futura moglie. QUARTA DI COPERTINA]
Il monologo è un genere difficile, in particolare è difficile, in un monologo, riuscire a mantenere alta l’attenzione del lettore. Capodiferro, però, sembra avere pieno controllo del genere e riesce a scrivere un libro che avvince, fa sorridere, interessa e non perde mai di tono.
Capodiferro usa un linguaggio che potremmo definire ottocentesco (quasi come Dostoevskij, maestro del monologo) ed ha l’abitudine di parlare direttamente al lettore. ( “Ancora non ho voluto rivelare il mio lavoro, inutile. Forse ve lo dirò più tardi, con la giusta disposizione d’animo”.)
E di cosa ci parla questo folle? Un folle introdotto con una bella citazione di Charles-Louis de Montesquieu: “Si chiudono alcuni matti in una casa di salute, per dare a credere che quelli che stanno fuori sono savi”.
Ci parla di sé, della sua vita, delle sue storie d’amore che naufragano l’una dopo l’altra.
Ci racconta della sua famiglia, una famiglia del sud; delle proprie abitudini, disperazioni, sogni e speranze.
Anche gli avvenimenti più tristi e dolorosi, sono descritti in maniera allegra, quasi a irridere ciò che di peggio ci possa esserci e possa farci del male. Non uso fare paragoni fra gli scrittori del passato e i nuovi emergenti, ma devo dire che ho trovato molte similitudini tra lo stile di Capodiferro e quello irriverente e dissacrante di Wodehouse.
Ovviamente il folle ha un nome, si chiama: Ermenegildo Sette, un nome particolare, così come lo hanno strambo tanti altri personaggi: “… il signor Miele e consorte, della signora Volpe e consorte, del signor Ferro senza consorte, delle zitellone centenarie Costantino, e delle sobrie ragazze Grappa…”
Di tanto in tanto il soliloquio è interrotto dai dialoghi che Ermenegildo ricorda di avere scambiato con questo o quel personaggio.
Una stranezza, che pare proprio una contaminazione è quando lo scrittore, parlando di una famiglia del sud, si lascia scappare un: “dalla Elena”, “della Sofia”, modi di dire tipicamente lombardi.
Molti gli spunti di riflessione, come quando una delle sue ragazze gli dice: “Da come mi guardi, direi che mi stai giudicando per qualcosa che non sai”.
Ma sono tante le frasi belle o memorabili: “La tristezza è un sorriso mancato, e la vita è una folata di vento”.
Un occhio attento è per la natura: “I fiori della ginestra sono scaglie di ambra affisse nei suoi rami verdi, o come fiamme accese, focolai di un incendio nel verde”.
Vi domanderete forse perché Ermenegildo sia folle ma, per saperlo,,, dovrete arrivare in fondo al libro!