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“Sono uscita di casa in reggiseno verde metallizzato molto lucertola appena nata di Laura, dei pantaloncini dell’Adidas enormi e le ciabatte marocchine che mi hanno portato da Casablanca. Edie è esagerato, con la testa rasata a pelle, il gandura bianco lungo fino ai piedi e le Puma bicolori. In viale Cecca per fortuna non ci sono vigili. Mi stanno veramente sul cazzo i vigili con quella faccia da pirla mastica multe. Davanti al New Order dei very maranza ballano una musica techno scadente. Uno di loro si sbatte sulla panchina dimenando il solito baschetto ingelatato”
“Entra Reed Thompson, in doppio petto a quadri, a quattro bottoni, camicia di cotone a righine e cravatta di seta, il tutto di Armani, calzini di cotone blu dell’Interwoven, leggermente volgari, e scarpe nere di Ferragamo con mascherina, identiche alle mie. Ha le mani curatissime. In una stringe il Wall Street Journal. Appeso all’altro braccio, ha un soprabito di tweed balmacaan di Bill Kaiserman”.
Indovina indovinello: qual è il brano scritto da Isabella Santacroce? Probabilmente il primo, per via dell’ambientazione nostrana. Ma se non fosse per le citazioni di strade e quotidiani, e per l’abbigliamento di opposta qualità, non sarebbe poi così facile affermare di essere al cospetto di due scrittori differenti: Isabella Santacroce nel primo caso e Bret Easton Ellis nel secondo. I due autori hanno in comune sicuramente un linguaggio originale, che nulla ha a che vedere con il classico modo di intendere la scrittura romanzata.
Ellis pubblica il suo “American Psyco” nel 1991, ma non è la sua prima prova editoriale. Il romanzo è stato all’epoca un caso letterario, per la crudezza e l’ironia “noir” con la quale l’autore descrive la gioventù americana viziata degli anni Ottanta. Il protagonista è un finanziere psicopatico di ventisei anni che, annoiato da una vita frivola e inconsistente, s’inventa una carriera da serial killer, i cui omicidi restano assurdamente impuniti. La confusione interiore che sconvolge Patrick non è in fondo molto diversa da quella che alberga la quotidianità dei suoi amici “normali e sani”, impegnati a cenare in ristoranti di lusso e ad annullarsi con la cocaina, il crack e l’ecstasy.
Starlet, la protagonista di Fluo, si muove in una situazione simile. L’ambientazione non è la New York degli yuppies anni Ottanta, ma la Riccione festaiola della Riviera Adriatica anni Novanta. Starlet ha diciotto anni e un sacco di amici, o meglio, di conoscenti. Nelle centoquindici pagine di cui si compone il romanzo non succede nulla di particolarmente feroce, come in “American Psyco”, ma la gioventù del tempo ne esce altrettanto dissacrata. Gli attori messi in scena dalla Santacroce vivono soprattutto di notte, tra discoteche e locali equivoci, smaniosi di ingoiare la vita fino a bruciarla dentro eccitazioni artificiali a tutti i costi.
Leggere Fluo significa fare un’indigestione di spot pubblicitari, slang giovanile nostrano, sesso in quantità e non di qualità, delirio di onnipresenza e onnipotenza. “Luce giusta nella stanza, musica sensuale, forse cocktail afrodisiaci, crostacei rossi e succosi adagiati in ceramiche dipinte a mano. Grandi tende tirate e riti drogati. Giovanotti mondani chiusi a cerchio attorno a un tavolino si passano specchietto e piste bianche. A turno aspirano con 100 carte arrotolate la loro porzione”.
Il mondo dei grandi viene, naturalmente, denigrato e lasciato ai margini di adolescenze abbandonate. Ogni tipo di accusa piove addosso a genitori troppo assenti e impegnati altrove, con qualcun altro o ingoiando pasticche di felicità effimera. “E’ appena terminato il primo round di una lite più che rumorosa via telefono tra i due coniugi miei creatori per storie-nausea già sentite di regole mal rispettate dal padre infedele in fuga con la baby-amante, e le minacce di divorzi imminenti non si contano”.
Sorprendono piacevolmente le prime pagine di questo libro, a mio parere, lasciando in bocca un sapore nuovo, fresco, tagliente e vibrante. Il linguaggio ridondante di termini pubblicitari, parole inglesi, e riferimenti al mondo dello spettacolo, possono annoiare durante la lettura, anche se la brevità del romanzo diminuisce sicuramente questo rischio. E stupisce ancora di più il finale del romanzo, del tutto antitetico al filo conduttore che lega ogni parola del libro. Starlet chiude gli occhi e sogna un futuro migliore, diverso dalla squallida realtà in cui vive, lontano dal suicidio di un giovane olandese scoperto in casa sua. Starlet, dopo aver visto la morte in faccia, desidera soltanto vivere. E così, l’ultima pagina di Fluo diventa pura poesia.
“Voglio che il mio cuore batta sempre e voglio la vita addosso, il cielo sopra, la sabbia sotto e l’amore sempre tra le mani come un gelato al limone mangiato in riva al mare in un pomeriggio di maggio quando il più bello sta per cominciare e continuare come prima, così veloce e così immortale”.
Ma nulla è immortale … auguri Starlet.
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