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Il bisogno di Patria
di Barberis Walter
Pubblicato su SITO


Anno 2004- Einaudi
Prezzo € 7- 137pp.
ISBN 2147483647

Una recensione di Luca Bidoli
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Il bisogno di Patria

Vi è, o almeno così crediamo di poter rilevare, una sensibilità nuova, una percettibile e condivisa necessità di analizzare e di riproporre temi e problemi sulla e della nostra identità nazionale che solo alcuni anni fa sarebbero apparsi, sicuramente a buona parte dell'opinione pubblica di questo paese, come un inopportuno volgersi indietro, un appropriarsi congenito a determinati schieramenti politici, dei bisogni strumentali di appartenenza e statualità. Termini come “patria” rivelavano insomma un preciso programma di identificazione con una parte ideologicamente arretrata, rispetto al grande corso della storia che, ai meno accorti, sembrava aver posto per sempre nel dimenticatoio, nella soffitta delle vetustà archeologiche, tutta una serie di problemi e di necessità di un apporto critico e consapevole, meditato. Nel labirinto delle cabale storiche accade, invece, che sia proprio il futuro, il sempre imprevedibile futuro, a sconfessare i malaccorti, coloro che proprio dalla storia, sembrano non aver compreso come le dinamiche non siano mai -nefasta influenza di una certa ed accreditata cultura e tradizione che affonda le sue radici in una apodittica idea di illuminismo- lineari e schematizzate, ma che eventi apparentemente nuovi ripresentino urgentemente la necessità di quel temuto “passo indietro”, che poi non è altro, a ben vedere, che il solo modo possibile di fare storia. La nostra prospettiva storica è sempre sottoposta al cambiamento: questo non equivale all'affermare che le analisi a noi precedenti siano meno “storiche”. Significa solo che, contrariamente all'illusione “scientifica”, nel lavoro dello storico, non esistono risultati definitivi. Non si tratta di volgersi al culto del passato, ma all'utilizzo critico, spinti dalla necessità di comprendere fino in fondo- ed è quello della comprensione, più che quello della completezza, lo scopo della ricerca- in modo complesso e diversificato, quelle composite realtà che lo storico identifica nella situazione e nel momento presente. Ben vengano libri come questo, dunque, che uniscono al pregio della chiarezza, la visibilità di una necessità morale, di una riappropriazione civile di quei valori, altro termine in sospetto di eresia, senza i quali la dimensione dell'appartenenza nazionale rimane pura lettera morta, tessuto di superficie, privo di linfa vitale, incapace di dare struttura e di farsi struttura, quindi anche Stato, meta finale ed obiettivo che permea, con diverse visioni e risposte, gran parte della nostra storia. Storia, appunto, senza la quale non vi è coscienza della propria identità. Come osserva Croce:” Qual è il carattere di un popolo? La sua storia, tutta la sua storia, nient'altro che che la sua storia”, e questo monito, che è qualcosa di più di un semplice rammentare un dato evidente, è anche il sottolineare quanto ancora pesi e costi a tanta parte della nostra identità questo raffronto/confronto con un passato del quale, nonostante i richiami e i rimandi, si fa spesso fatica a riannodare le fila. Si tende, piuttosto, esprimendo compiutamente una peculiarità che pienamente ci appartiene, a privilegiare le parti, i momenti che maggiormente contribuiscono e facilitano la nostra visione parziale, sovente unilaterale. Non è una storia facile, quella italiana. E' una storia nutrita di occasioni mancate, di odi settari e faziosità avvilenti, di splendori ai quali fa da contrappunto la miseria e l'ignoranza di masse di popolazioni tenute ad una non rappresentatività cronica, di slanci generosi e nobili ( sovente individuali) e l' indifferenza, se non ostilità, dei molti. Ma piaccia o non piaccia-e spesso è quest'ultimo aspetto a prendere il sopravvento-comunque sia, è la nostra storia, ed è con essa, con le rappresentazioni che ne abbiamo, di volta in volta, formulate, che ci dobbiamo confrontare. Abituandoci, questo sì vero esercizio di consapevole civismo, a quella riflessione critica e analisi che sole possono trasmetterci il senso ultimo della nostra posizione nel mondo, del rapporto tra noi stessi e le realtà che ci circondano. Non sempre le classi che avrebbero dovuto guidare questo processo, classi di potere politico, ma anche economico, sociale, culturale, religioso -incisive le pagine dedicate, giustamente, all'influenza ed al senso della presenza della chiesa cattolica- si sono dimostrate all'altezza del loro compito. Anche qui, troppo spesso e, non casualmente, nei periodi di crisi e di rarefazione di quelle virtù che erano tradizione della cultura civica classica, la prima istanza, il primo requisito basilare ad essere paurosamente carente diviene la necessità di un elemento fiduciario tra governati e governanti, che già un grande ( e atipico, per certi aspetti ) italiano, Machiavelli, poneva come base costitutiva fondante del consenso e del senso di appartenenza ad una realtà statuale. Le classi di potere e di governo ne escono malconce, da queste pagine, troppo e troppe volte attente e sensibili solo alla cura ed alla difesa del “particolare”, a detrimento-e di quale detrimento la storia italiana diviene un paradigma esemplare e scomodo!-dell'interesse e di una visione generale e della stessa capacità e possibilità di una prospettiva storica, in una prassi che tenga saldamente ancorato ed impegni il presente nella progettazione del futuro. Questa capacità di autonomia – rispetto, ad esempio, ai grandi poteri di una cattolicità imperiale e totalizzante, vero modello, come annotava il Sarpi, per le ideologie dei tempi a venire; o alla tentazione, sempre immanente, di utilizzare forze esterne alla penisola per risolvere, a proprio vantaggio ed a scapito dei vicini di casa, i nodi non risolti di conflittualità regionali, con la disgraziata deflagrazione di aspetti e conseguenze non previste o ingenuamente sottovalutate- si manifesta a tratti, in determinate regioni della penisola, dove, per cause diverse, ma con risultati che si possono ravvicinare e comparare, il senso dell'interesse privato non venne mai assolutamente mortificato, ma anzi, disciplinato e regolato opportunamente, in una politica di Stato. Paradigmatico l' esempio fornito da Venezia, autentica potenza nella quale si esalta l'idea e si fa virtù del carattere della propria indipendenza e sovranità. Esempio non isolato, quello veneziano, perché grazie all'illuminato senso dello Stato che si forgiava attraverso una tradizione militare volutamente radicalizzata in istituzioni di difesa permanente del territorio, dal basso per così dire, con la creazione ad opera di Emanuele Filiberto di Savoia ( e siamo negli anni sessanta del cinquecento, si badi bene) di una milizia paesana sì nella sua denominazione, ma tutt'altro che composta da sprovveduti e mal armati contadini, si andavano ponendo le basi per l'edificazione di quel rapporto di reciproca assistenza e difesa di comuni interessi vitali tra autorità sovrana centrale e realtà periferiche, tra vertici dello Stato e popolazioni dislocate non solo nelle realtà urbane, ma in vasti territori, in una compagine, quella sabauda, che era per sua necessità e virtù terra di frontiera e di controllo di valichi e passaggi strategici. Non aveva forse proprio Machiavelli, un nome che ricompare spesso in queste pagine, e con una impostazione che sfata luoghi comuni ancora diffusi sul significato ed il peso politico della sua opera, scritto che “le arme con le quali uno principe difende el suo stato o le sono proprie, o le sono mercenarie o ausiliarie o miste” e che, eccetto le prime, le altre tutte erano “inutile et pericolose”. Ed ecco allora crearsi il miracolo, all'estremità occidentale, verso le Alpi – ben lontano dai tradizionali luoghi di irradiamento della civiltà italiana, lontano dallo splendore delle città rinascimentali e dalle loro corti, raffinate sì, ma inaridite, trasformatesi nel tempo in un codazzo di parassiti e di cortigiani, di servi, quindi, anche se puliti e riveriti, utilizzati non per ciò che sanno fare nell'interesse dello Stato, ma di limitati gruppi di potere- in una regione dove si parla con più facilità il francese che la lingua di Dante, ma che sviluppa e pone basi solide, per certi aspetti, se vogliamo, poco attraenti nell'immediato, di quel rapporto di fiducia reciproca, di compenetrazione di interessi tra strutture pubbliche e bene individuale, di certezza di continuità e senso di appartenenza ad uno Stato che sa far tutelare i diritti collettivi, nella rappresentatività delle sue istituzioni. Ed ecco allora che queste caratteristiche, a volte non accattivanti, perché impongono anch'esse il loro dazio da pagare, finiscono per dimostrare, nel lungo periodo, di saper tener testa ai vari potentati, di potersi opporre, di saper osare e di mettere in atto una politica di media potenza, ma unica nel suo genere all'interno del contesto italiano e di possedere delle forze armate che, nonostante prove spesso non esaltanti, avevano e mantenevano un grado di efficienza e preparazione che non aveva eguali nella penisola. Dell'esercito dei Borbone si dirà che aveva le più belle uniformi d'Europa, ma la sua consistenza ed efficienza militare si fermavano, evidentemente, ai pennacchi.
“ Bell'esercito. Fa sul serio. E' proprio quello che ci voleva, per la Sicilia. Ora possiamo stare tranquilli”:esclama, nella battuta conclusiva del film di Visconti ( non nel testo, non nel Gattopardo del vero principe, Tomasi di Lampedusa) al rientro dal gran ballo che segna il punto di non ritorno di un'intera epoca, don Calogero Sedàra, mentre la raffica di fucileria piemontese falciava i disertori, seguaci di Garibaldi sull'Aspromonte, estremo ed infruttuoso tentativo di un Risorgimento che partiva dal basso, senza, questa volta ancora, aver fatto i debiti conti con i nuovi equilibri di potere. Ma come non ravvisare, in quell'esercizio di un' autorità sovrana e statuale, la protervia dei nuovi padroni che di lì a poco avrebbero insanguinato un Mezzogiorno d'Italia restio a lasciarsi incapsulare nei nuovi sistemi di governo e di rappresentazione che il neonato Regno imponeva ad aree della penisola appena sfiorate, lambite dalle coordinate di appartenenza e identità che non fossero quelle tradizionali, feudali, sottratte al corso vivo e incessante delle trasformazioni, ma ancora operanti ed attive nel meridione. Ancora in grado, grazie alla rete atavica delle loro relazioni, di sollevare alla rivolta interi paesi, quegli stessi che avevano accolto il trapasso delle sovranità con indifferenza o con il fatalismo proprio a chi la storia la conosceva per averla, geneticamente, provata sulla propria pelle, nelle forme quotidiane dei soprusi, ma anche del lento procedere di tempi eternamente eguali, rassicuranti proprio nella loro ciclicità. Ed il Risorgimento, nelle sue figure più alte e rappresentative, con il suo carico di dubbi e di tensioni ideali, di disillusioni anche- fra tutti, Leopardi, il Leopardi civile, morale, l'autore disincantato e cosciente, lucido, del periodo che sta vivendo, vera voce collettiva, capace di rimproverare “ il poco o niuno amor nazionale che vive tra noi”-che questo testo di Barberis ci ripropone, lontano da ogni velleità retorica, come luogo e momento di riflessione, di culmine e catarsi della coscienza di un paese. Bastino le parole, qui ad esperienza conclusa, a bilancio tracciato, di D'Azeglio, con la disincantata considerazione che “gl'Italiani hanno voluto far un'Italia nuova, e con loro rimanere gl'Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina”. Anche qui la coscienza nazionale si esprime attraverso alcune figure simboliche, veri demiurghi, verrebbe da pensare: poeti, scrittori, intellettuali, uomini rappresentativi del sentire di un'epoca, come se a loro ed a loro soltanto, fino a Pasolini ( estrema icona laica e disincantata, non a caso scelta come foto di copertina per il bel libro di Guido Crainz, sulla nostra storia più recente:Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta.) spettasse di diritto il farsi voce del malessere, del trapasso della condizione ultima, morale del paese. Delle sue istanze più recondite e inespresse, dei suoi tentativi di diventare, in sostanza, patria, terra dei padri, e quindi luogo per eccellenza del deposito, della stratificazione del passato, delle orme della sua civiltà, del ricordo delle sue glorie e dei suoi trionfi, delle sue aspirazioni più alte, come delle sue calamità ed errori, secondo la lezione presente nella celebre esortazione pisana del Foscolo. Perché è proprio in questa eredità viva, non racchiusa in alcun testamento, che la storia si fa tempo presente e, con esso, proiezione possibile verso le identità future. Questo agile e utile volumetto, da non sottovalutare per la sua veste apparentemente dimessa e la facilità con la quale lo si legge, ha il merito di riproporre un tema che, in definitiva, è stato sempre al centro della riflessione più elevata e disinteressata delle teste pensanti di questo paese: si può davvero essere privi di quelle forme di identificazione che ci consentono di affrontare la realtà mondiale, la nostra contemporaneità? E se la risposta, come sembra scontato che sia, è negativa, sul piatto della bilancia della storia, quali sono i pesi reali che andremo a porre a nostro vantaggio? Domande, quesiti possibili, tentativi di spiegazione, cose da poco insomma: da storici, in definitiva; da Cassandre, sempre più spesso.


Una recensione di Luca Bidoli



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