Il poeta lucano Michele Brancale, apre questa sua ultima silloge poetica, “L’apocrifo nel baule” (con prefazione di Roberto R. Corsi), con una dedica ai suoi genitori in esergo a cui aggiunge uno scritto dal vago sentore manzoniano che cattura e smuove il lettore a curiosità. Ne riporto alcuni stralci: “La prima volta che vidi la sua raccolta di poesie giovanili, saltavo nel magazzino di casa, giocando sulle mattonelle composte su due file a ridosso di un vecchio baule, piuttosto sciupato, che aprii con molto sforzo, sospinto dalla curiosità (…) Sollevato il coperchio , trovai all’interno una fila di libri tutti uguali (…) Ne presi una copia e me la portai in stanza, conservandola (…) E siccome ne parlavi come un peccato di gioventù, l’ho lasciato a lungo da parte fino a quando, qualche anno fa, l’ho riletto e, in qualche modo, l’ho riscritto insieme a te”.
Il prefatore del libro ha voluto sottolineare, nella sua ampia e puntuale trattazione, l’aria di mistero e di eventuale escamotage che aleggia in questa pagina di introduzione al dettato poetico, lasciando il lettore in una sospensione, in bilico tra verità e finzione circa il manoscritto ritrovato. A rafforzare la sua tesi, quell’apocrifo del titolo, che tradotto nell’accezione comune, al di fuori dell’ambito religioso, assume il significato di un libro, uno scritto o un documento ‘non autentico’, ‘non genuino’ che non è dell’autore o dell’epoca che gli sono attribuiti.
Io ritengo invece che, pur non essendoci nella nota introduttiva appena citata un riferimento esplicito alla figura genitoriale del poeta -peraltro noto scrittore lucano di svariati romanzi- ci sono due piste che vi conducono e non vanno trascurate. La dedica ai genitori di cui ho detto sopra e una lettura in chiave diversa del termine “apocrifo”, che credo vada interpretato nell’accezione biblica meno comune, che dal greco ἀπόκρυφος, derivato di ἀποκρύπτω «nascondere», indica «ciò che è tenuto nascosto», «ciò che è tenuto lontano dall’uso. Dunque scritti poetici nascosti in un baule, perché lontani e in opposizione a quelli comuni, condivisi e accettati. E qui penso alla narrativa e alla prosa di Giuseppe Brancale marinaio e insegnante, ai suoi versi nascosti nel baule, nati da un errore di gioventù e dunque apocrifi.
Questo libro allora non è per l’autore solo un libro del ricordo, del ritorno all’infanzia, al paese, ma anche e soprattutto un libro dell’incontro e della condivisione. Forse della riconciliazione. Due scritture poetiche che a distanza di anni si intrecciano e si (con)fondono, testimoniando una continuità generazionale tra padre e figlio, tra passato e presente, tra la grande storia e la piccola storia. La prima sezione percorre e accosta la solitudine e il dolore della guerra combattuta in Africa nel ‘44 ad Alessandria d’Egitto con la lotta e la sopravvivenza degli emigrati di oggi, destini alla deriva, accomunati anch’essi dalla lotta e dalla precarietà della vita “sfidare il mare e le sue strade oscure, / un destino che ora vaga sull’acqua” (p.27). Un tema quello dei migranti, degli emarginati e degli ultimi che abbiamo già trovato come nuclei portanti e fondanti delle sue raccolte precedenti. Si prosegue poi con altre sezioni della silloge più vicine alla storia privata del poeta, l’amore, gli amici, il paese con i ricordi d’infanzia: Sant’Arcangelo, l’Orsoleo, il sentiero di Spadarea in Basilicata. Siamo nel territorio del sentimento, degli affetti e della memoria interiore e anche delle domande dal grande respiro foscoliano “Sotto coperta/ non posso fare a meno di pensare/ se sarò restituito al mio paese” (p.47). In “Satiri e ritratti” volteggiano per le strade una moltitudine di personaggi stereotipati, strani e originali, che sembrano usciti da un libro delle meraviglie, eppure sono così veri, concreti e reali per chi ha vissuto e conosce il tessuto sociale dei piccoli borghi. Tracce di vita passata, che si intrecciano e si confondono con quella presente, raccontata, ascoltata, vissuta. Colpiscono accanto ai ritratti, anche le abitudini di paese, come “Il matrimonio di terza classe”, “Il matrimonio con l’amico di famiglia”, le malelingue, le parentele. Qui il linguaggio si addentra talvolta nel territorio della satira con battute critiche e dissacranti, allo scopo di smuovere a riflessione, prendendo di mira i vizi e il malcostume sociale. Nell’ultima sezione l’oggetto della polemica è l’editoria e la critica stessa, con le sue regole e i suoi modelli “Il critico ripetendo a pappagallo/ ciò che sentiva dagli altri e parlando/ per difetti, diceva sempre male,/ incassava rispetto nel timore, / il consenso, il listino del consenso// E certo non poteva mai mancare/ uno sguardo acuto sulla morale. (p.81).
Chiude il libro la sezione “Per fede e per amore” e qui vi sento forte il messaggio di Papa Francesco: «L’amore è la misura della fede e la fede è l’anima dell’amore». E’ composta da quattro poesie in cui Michele Brancale consegna al lettore la sua voce più chiara e cristallina, che è di “ascolto”. Ascolto della voce del mondo, degli altri e di se stessi “quella voce arriva se non si chiude/ la strada per essere umani ancora” (p.86) ed è quella “dal quale emerge il sentimento di Dio” (p.87).
E’ connaturato al senso primario
della ricerca lo scavare a fondo
-magari lento ma insistente, lungo
le circostanze, i temi sensibili-
che talvolta si fa senso panico,
identificazione naturale,
che non ferma il tarlo dell’incompiuto,
dal quale emerge il sentimento di Dio
(All’amico, p.87)