«Cio che (non) poteva/ciò che (non) potevamo essere», mi colpisce questo verso ripetuto più volte e che concettualizza uno stato, un presente, un embrione da cui misurare distanze, da cui osservare un prima e un dopo, presenze e assenze.
Vicinanze e lontananze. Ecco, la bellezza di questa raccolta di Margherita Rimi "La cura degli assenti" è tutta racchiusa nel verso di pagina 25: «ho scelto di avverarmi». Avverarmi in una nascita-rinascita di vita tutta da attraversare. Quasi una poesia del “risveglio” in cui si fanno reali e si materializzano con compostezza e pudore le “fratture” e le “ferite”.
Un interrogarsi e raccontarsi a bassa voce, con versi composti che sembrano fermarsi sull’orlo. Segmenti di pensiero fatti di pieni e vuoti, di silenzi da meditare. Versi generosi che lascino spazi (da riempire), che non invadono, né prevaricano. Dia- loganti quasi.
Ecco, le poesia di Margherita Rimi si fa pensiero in punta di piedi. Con quelle carezze non date, quegli sguardi che si rincorrono distanti, le parole non dette, un desiderio d’attesa [ripetuto] che scorre dentro gli occhi e capillarmente sotto i pori della pelle.
Eppure questa mancanza che è spavento e cedimento talvolta, è tutta da contenere, da percorrere da ricomporre «un dolore tutto da attraversare» [per ricompensa, per compimento] muovendo sempre dalla soglia della memoria, dalle radici, dalla «cura degli assenti»:
«Ci sono cose/ che tardano a venire/ come figli attesi/ nella notte// Che trovo ormai/ di me//Meglio mettere qualcosa/ in salvo/riprendere la cura/ degli assenti// Coprirsi/ del proprio corpo/ alle gelate» (p. 13).