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Qualcosa di diverso
di Diego Seno
Pubblicato su PB17


Anno 2003- Edizioni Il Foglio
Prezzo € 9- 150pp.
Collana Autori contemporanei
ISBN n/a

Una recensione di Salvo Ferlazzo
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Del libro di Seno,”Qualcosa di diverso”, si riesce a salvare solo il disegno della copertina.
Tutto il romanzo, dalla prima parola della prima parte fino alla fine, trasuda un penoso scimmiottamento di un libro, questo si vero capolavoro di Burgess, “Arancia meccanica”, sceneggiato con maestria insuperabile da Kubrick.
Romanzo verboso, quello di Seno, noioso, pesante, fin troppo scontato nelle conclusioni: deludente.
Il vistoso intercalare di testi di canzoni, fra le quali quelle di Ligabue, non impreziosisce certo la narrazione, che scorre incontrollata fra parti anatomiche di entrambi i sessi, per approdare sfinita, dolorante, alle considerazioni velleitarie del protagonista: è una società che fa schifo.
“Qualcosa di diverso”, si mette sullo stomaco di chi legge, come un piatto troppo pesante, troppo unto, che alla fine lascia sfiniti, o peggio.
Non suggerisce boicottaggi verso una società che si rifiuta di comprendere; non concepisce eresie come riflessioni sulle sue debolezze momentanee, strutturali.
Sembra di vedere un rappresentante dei cosiddetti “punkabbestia”; ma, ahimé, si intravede soltanto un ragazzetto, un diciassettenne smandrappato, infoiato, che si da' delle arie, attribuendosi peccati ed eresie; galvanizzato dal suo stesso sesso, che usa come fosse una mazza da baseball.
Non riesce ad insinuare nemmeno dubbi vecchi come il cucco; ma se mai fa riflettere su una generazione, forse agnostica, forse triste.
A meno che, tanto accanimento contro le banalità di una società qual è quella dipinta nel libro, e gli errori storici che hanno provocato un rifiuto così forte, servono esclusivamente ad insinuare in chi legge la necessità di una difesa non solo da un utilitarismo forzato, agghiacciante; ma anche dai pericoli di una società che oggi discute di eutanasia, di aborto, Pacs, e perfino di donne sacerdote.
Come nel film di Kubrick, nel racconto di Seno la musica, se non la si sente, sembra essere parte integrante del racconto stesso, e addirittura, in alcuni casi, il motivo delle azioni di Marco.
Là troviamo Ludovico van, qua ci sono i Nirvana e Ligabue.
Beethoven – la sua musica- è l’anima stessa di Alex, il protagonista di Arancia meccanica, la sua componente più intima e pura; Rossini è quella in cui questa componente si trasforma una volta varcata la soglia di casa. I Nirvana, Ligabue sono la forma di Marco: sono comunione di sentimenti, di emozioni, di passioni.
Marco e suo “zio Micky”, dividono tutto: fumo, donne, musica e, più avanti, la stessa passione politica, sulla quale è meglio tacere.
Ci si trova davanti a un quadro nel quale si scopre che esiste una forte pressione dell’utilitarismo legata all’invasione dell’ideologia neoliberista, in tutte le sfere della vita.
Quasi una formattazione degli individui, mediante la classificazione dei loro sintomi, e il ricorso ad “etichette” che tendono a spianare le loro molteplicità.
Un'incursione rapida nel territorio dell’antropologia diventa indispensabile.
Si potrà fare, così, riferimento alle categorie definite dall’etnologa F. Heritier, che spiega come ogni cultura distingua il possibile - ciò che le persone possono fare in pubblico e in privato - e il pensabile - ciò che sembra loro corretto o lecito.
Secondo la definizione che ne danno Benasayag e Schmit nel libro “ l’epoca delle passioni tristi”, il pensabile non indica “ciò che ciascuno può pensare, nel senso di immaginare, né un’attività di riflessione o di elaborazione concettuale; ma è l’insieme di atti che ogni membro di una cultura…accetta in quanto rispettosi dei fondamenti, come conformi o adatti alla vita”.
Il possibile è un insieme molto più vasto, perchè “è possibile distruggere le case degli altri, incendiandole, derubare o martirizzare i più deboli, violentare le donne che ci attraggono”.
E’ evidente che in circostanze normali, questi atti sono possibili, ma non pensabili.
Il limite tra possibile e pensabile è fissato dai divieti, dalla sacralizzazione: si può infrangerli, ma ciò comporta la fine della società, e della vita stessa. E comunque significa mettere in discussione i fondamenti della nostra cultura, in maniera radicale.
L’equilibrio di una cultura, dipende dalla capacità di tutti gli uomini di accettare l’esistenza di un non-sapere, da non confondersi con l’ignoranza. Anzi il non-sapere è all’origine stessa di ogni produzione di sapere, come l’inesprimibile è all’origine di ogni espressione artistica.
E’ quello che Wittgenstein nel suo Tracatatus, spiega, quando afferma che ciò che si esprime attraverso il linguaggio non può esprimersi nel linguaggio.
Pertanto, lo sviluppo dell’essere umano non deve essere pensato come un’abolizione dei limiti naturali o culturali; ma, al contrario, come una lunga e profonda ricerca di ciò che tali limiti rendono possibile.
Ma, ahimé, nella nostra epoca, l’ideologia scientista, sempre presente nella società, si è manifestata con evidenza incontrovertibile, affermando che “tutto è possibile”, o che dovrebbe esserlo.
Ecco, il delirio di onnipotenza, il sogno di onnipotenza dentro il quale si cade. E Marco c’è dentro, fino al collo.
Nei suoi rapporti con l’altro sesso, parla di scontro frontale col nemico,”il mio esercito fa scempio nelle retrovie”,”il cimitero dei miei valorosi soldati questa volta è all’entrata principale”, e così via discorrendo.
Sublimazione senza intelligenza.
Nelle scelte assurde che Marco fa, si compie il suo destino. Nella costruzione, e nel tentativo di costruzione di un suo mondo, Marco dimentica gli altri.
E’ con “gli altri”, quelli che non la pensano come noi, che si costruisce una società più armonica, meno obliqua.
Certo, vi sono falle vistose nel progetto di costruzione di una società moderna, che spesse volte resta paralizzata di fronte alla perdita dell’onnipotenza.
Il discorso sulla sicurezza non può giustificare la barbarie e l’egoismo, la rottura dei legami di solidarietà più generalizzati; perché, quando una società è in crisi aderisce massicciamente e in modo irriflesso a discorsi in cui non si parla d’altro se non della necessità di proteggersi e di sopravvivere.
Marco e il suo gruppo, risultano così essere depositari di desideri velleitari, che impediscono loro di sostenere legami concreti, che li possano spinger fuori dall’isolamento nel quale la società che dicono di non riconoscere, tende a rinchiuderli, in nome degli ideali individualistici.
Diego Seno non propone alternative valide; anzi, accentua una dimensione di fragilità personale in cui l’immaginario brutale che divide il forte dal debole, è sempre presente, e spinge verso una meta affannosa (…ma l’anarchia che avevo dentro non sarebbe morta) ed incerta (… forse con lei tutta la mia vita sarebbe cambiata).


Una recensione di Salvo Ferlazzo



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