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Pollo alle prugne
di Marjane Satrapie
Pubblicato su SITO
Anno
2009-
SPERLING & KUPFER
Prezzo €
14-
82pp.
ISBN
9788820047870
Una recensione di
Lucia Sedda
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Chi ha apprezzato l’irriverente “Persepolis”, Gran premio della giuria a Cannes e candidato al premio Oscar nel 2008, non può non imbattersi nel suo seguito ideale, “Pollo alle prugne”. L’iraniana Mariane Satrapie, disegratrice minimalista ed arguta, ci porta alla scoperta di una storia semplice ma intrisa, fin dentro il suo scheletro, di poesia. Il protagonista questa volta è un musicista, un suonatore di tar che cade in depressione nel momento in cui sua moglie gli rompe l’ amato strumento. L’uomo va alla ricerca in tutte le botteghe, anche quelle distanti giorni interi di cammino, di un altro che possa rimpiazzare quello vecchio, ma nessun suono rassomiglia minimamente a quello del suo vecchio strumento. Ma non è solo questo. Attraverso otto giorni di flash back nei quali l’uomo rifiuta di mangiare, persino il suo piatto preferito, il pollo alle prugne per l’appunto, e di entrare in contatto con la vita, viene raccontata la sua storia intrecciata, come sempre, con gli accadimenti storici dell’Iran. E così veniamo a conoscenza dell’unica donna che ha amato e che non potè sposare a causa di quella professione poco seria “il musicista” ma che ha ricordato fino alla fine, lontano da lei nel tempo e nello spazio, grazie a quello stesso strumento. La musica è ricordo, lo strumento quella donna, e anche se ha ripiegato su una moglie brutta e poco interessante ma che lo ha sempre desiderato, quel vecchio lontano amore non si è mai spezzato fino a quando è il tar stesso ad essere distrutto. E allora a cosa serve andare avanti alla ricerca di quella musa evocata attraverso le note dolci della sua musica se ella neppure lo riconosce o meglio fa finta, quando lo incontra per la strada? Non rimane più niente di quel lontano amore coltivato all’insaputa di tutti grazie alla sua arte, non rimane neppure una ragione per continuare a sopravvivere tra le mura domestiche di una casa che non ha mai voluto, circondato da figli che ha fatto con la donna sbagliata. Cova rabbia, rancore vendetta. Per sua moglie, ma soprattutto per sé stesso che ha vissuto nella menzogna per tutti quegli anni, ed ora che il velo è calato si ritrova faccia al muro con l’impossibilità di trovare una sola ragione per cui valga la pena di esistere. L’unico modo per scappare con la stessa lentezza dell’arte è quello di lasciarsi morire dentro il suo letto, aspettando che sua figlia smetta di tenerlo in vita con le sue preghiere. Aspetta in silenzio e per otto giorni si rinchiude in un digiuno ed in un silenzio dell’anima ostinato ed impermeabile ai desideri della vita. Una metafora di come l’arte possa far rivivere le scelte mancate, e di come nessuna materialità né di stomaco né di sesso, riesca a sostituire la miccia dell’amore e della libertà. Un capolavora di minimalismo e di ironia sagace, un’arma a doppio taglio finora saputa usare poche volte nella letteratura , fare poesia raccontando un dramma senza essere retorici o peggio ridondanti, ma con una punta di sorriso sulle labbra.
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