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Non aprite quella porta
di Gianluigi Lancellotti
Pubblicato su PB16


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Ci hanno riunito in questa villa dalle architetture ardite per una dimostrazione. Non la solita dimostrazione dove cercano di rifilarti pentole, materassi in lattice, coperte Merinos o quant’altro. Questa sembra proprio una cosa diversa, e devo ricacciare indietro tutto il mio scetticismo ed ammettere che la bella ragazza in tailleur che mi sta delucidando le meraviglie dell’ultimo ritrovato è uno spreco; al suo posto avrebbero potuto benissimo metterne una qualsiasi, non avrebbe fatto alcuna differenza. Sì perché l’articolo che mi sta proponendo è veramente fuori dall’ordinario.
Io seduto da questa parte della scrivania, lei dall’altra, accanto un portatile, sullo schermo intricati labirinti; fingo d’essere indeciso, un po’ per tirare sul prezzo un po’ per il piacere di intrattenermi con Giulia, così mi ha detto di chiamarsi.
Con i suoi modi precisi e raffinati – me ne accorgo da come piega le dita sfogliando il catalogo quasi carezzando le figure - Giulia emana un fascino tutto particolare. Le parole che pronuncia sono proprio quelle giuste, quelle che vorrei sentire; incasellate tutte quante al loro posto, concatenate a formare strutture ordinate dove ogni variabile è stata predefinita con largo anticipo ed in modo così accurato che i problemi trovano una loro soluzione facile, facile, ed immediata.
Così l’ascolto tutto incantato, seguendo il movimento delle labbra, attratto dalla perfezione dei denti, dalla piega del sorriso; avvolto in un alone magico che sa d’aria rarefatta e di vertigini stratosferiche. E non so come, ma sono convinto che anche lei, in un qualche modo sotterraneo sia attratta da me. Anche se non mi faccio illusioni, in questo momento rappresento la tipologia del suo modello ideale; quello del cliente. E comunque lo stesso quest’attrazione la percepisco dall’ammiccare dei suoi occhi screziati, dal movimento della mano che si ravviva i capelli scoprendo uno spicchio di nuca riservato solo a me; quasi a volermi convincere che il suo collo lungo e flessuoso sarebbe disposto a piegarsi sulla mia spalla ad un mio semplice gesto, come quello di apporre una firma su una striscia di carta chiamata assegno.

«Ecco vede» afferma sollevando impercettibilmente il sopracciglio «L’installazione dell’apparecchiatura è semplicissima, in un pomeriggio i nostri tecnici faranno tutti il lavori necessari, e già il giorno successivo lei potrà usare la porta dimensionale a suo piacimento raggiungendo i luoghi che più le interessano.»
«Vuol dire che una volta installata la porta dimensionale, mettiamo nel garage di casa mia, mi basterebbe digitare un codice, e aperta la porta, mi ritroverei direttamente su… diciamo… alle isole Figi.»
«Certamente. Però faccia attenzione, l’accesso è possibile solo nei luoghi dove abbiamo installato le colonnine di ricezione.»
Rimango immobile con un’espressione perplessa sul volto. «Ma il suo collega mi aveva detto che non c’erano limitazioni per la destinazione.»
Lei in tutta risposta riprende il catalogo e lo sfoglia velocemente fino ad uno quadro riassuntivo dove i disegni sono talmente semplici che anche un bambino li capirebbe «Se osserva bene può farsi un’idea più precisa di come funziona l’intero sistema. Vede porta dimensionale, codice per attivare la destinazione, e colonnina di ricezione installata nel luogo prescelto, e cosa più importante…» Ed eccola di nuovo con gli occhi che brillano piena di premurosa comprensione. Mi spiega tutto per filo e per segno senza tralasciare alcun dettaglio; mi fa capire che lei è lì solo per me, e non per vendere a tutti i costi; e devo essergli proprio simpatico perché invece di cavalcare il mio entusiasmo lo frena, lo delimita dentro il suo casellario preciso e funzionale, e così si guadagna tutta la mia fiducia.
« … per il ritorno è indispensabile raggiungere la stessa colonnina, digitare il codice con il telecomando in dotazione, e attraversare di nuovo la soglia. Se vuole le possiamo installare una colonnina anche in un luogo a sua scelta.»
«Veramente? Sarebbe l’ideale per la nostra casa in montagna, una baita sulle dolomiti, ogni volta mi ci vogliono più di tre ore d’auto per arrivarci, perciò si potrebbe …»
«Ma certamente, anzi, la colonnina gliela installiamo direttamente in soggiorno così può passare da una casa all’altra senza nemmeno rendersene conto.»
«E’ meraviglioso, ma il costo per ognuna di queste installazioni…»
Lei non batte ciglio, mi guarda dritto negli occhi, poi dall’altra parte del tavolo, con l’unghia laccata e curatissima, piegandosi in avanti, indica delle cifre. In quel movimento apparentemente innocente la giacca del suo tailleur sfiora il bordo della scrivania aprendosi quel tanto che basta per lasciare spazio a due stupendi seni che guarda caso sono perfettamente allineati alle cifre che scorrono davanti a me.
«Cinquantamila euro servono per l’installazione della porta dimensionale da collocare direttamente a casa sua, poi altri venticinque mila per il noleggio di ogni colonnina, queste le può scegliere nei luoghi indicati nel prospetto. Mentre un’installazione personalizzata costerebbe un po’ di più, diciamo intorno ai quaranta mila euro, però in quel caso la colonnina sarebbe esclusivamente sua.»
«Cifre non indifferenti.» Mi sforzo di obiettare per mantenere la contrattazione ad un livello di minima decenza, ma in verità sono pronto a sganciare qualsiasi cifra pur di vedere una di quelle colonnine spuntare tra quei due meravigliosi seni in modo da poterli raggiungere in qualsiasi momento. «Non ci sono agevolazioni?» Cerco di reagire con tutte le mie forze.
«Certamente, con tre installazioni ha diritto ad uno sconto del venti per cento, inoltre sono anche previsti pagamenti rateizzati. Se poi dovesse capitare che la località non risultasse di suo gradimento la può cambiare quando vuole, basta un piccolo contributo per la riprogrammazione della porta e il noleggio di un’altra colonnina.»
«E questo piccolo contributo a quanto ammonterebbe?»
«Un’inezia, circa mille euro e la sua porta dimensionale la può aprire dalla parte opposta del pianeta.»
«Bene allora mi piacerebbe avere una porta proprio su un’isoletta delle Figi.»
Lei mi guarda un poco perplessa sempre con quel suo sorriso compiacente, forse indecisa: o lasciarmi fare quel che più mi piace o condurmi per mano fino alla meta come una mammina premurosa. Poi sembra decidersi.
«Per una scelta ottimale dovrebbe prendere in considerazione il fuso orario, se viaggia verso oriente perde ore utili mentre verso occidente le guadagna. Dalla sua scheda vedo che lei è sposato con due figli. Ecco mettiamo che una domenica mattina desideri passare una giornata al mare, se ha scelto un’isola della Figi, là, in quel momento, sarebbe notte, invece le Antille le calzerebbero alla perfezione. Potrebbe prendersela comoda, superare la soglia anche alle due del pomeriggio e ritrovarsi al mare di prima mattina con tutta una giornata davanti. Se la posso consigliare c’è una spiaggia stupenda, puro stile tropicale sull’isola di Anguilla, farebbe proprio al caso suo, il resort è poco distante con strutture turistiche di prima scelta. Questo tanto per cominciare; si ricordi che se la scelta non dovesse risultare di suo gradimento farebbe sempre in tempo a cambiare.»
Come resistere ad una così esauriente spiegazione, affermazioni di tale premura non possono essere che vere se dette da una bocca come quella. Certo i Caraibi mi hanno sempre affascinato «Allora possiamo far così,» elenco risoluto «casa in montagna collegamento personalizzato. Collegamento su spiaggia all’isola di Anguilla, e poi …» Mi sporgo un po’ indeciso, quasi imbarazzato arrossendo leggermente.
«Su mi dica, non si faccia riguardi, siamo un’agenzia seria, ci teniamo ai nostri clienti e i segreti li sappiamo mantenere.»
Credo abbia già capito. Bene questo mi facilita il compito. «Ecco… sarebbe possibile avere un accesso, non dico segreto, ma conosciuto solo da me, che ne so, a Los Angeles. Sa, lavoro in proprio, gestisco una piccola attività, produciamo sistemi frigoriferi e climatizzatori; una mia filiale si trova proprio a Los Angeles e mi dà un sacco di grattacapi. Però non voglio che lo sappia mia moglie. Già si lamenta dicendo che lavoro troppo.» Solo in quel momento mi rendo conto che la scusa risulta più che plausibile, e a ragione perché in fondo non ho fatto che dire la verità. E’ il mio atteggiamento che mi stupisce, tutti quei rossori, come se morissi dalla voglia di confidarmi con Giulia.
«A Los Angeles abbiamo diversi punti di arrivo, aspetti un attimo….»
Con dita agili corre sulla tastiera. Lo schermo del portatile s’illumina mostrando una mappa dettagliata di Los Angeles.
«Per la precisione la mia filiale si trova a Santa Monica 4° strada.» accenno timidamente.
Lei ingrandisce la mappa seleziona la zona «Abbiamo un punto di arrivo proprio lì vicino, dista solo trecento metri, se per lei non sono troppi…»
«Va benissimo. A questo punto potremo anche concludere. Proviamo a fare due conticini?»
«Certamente.»
Come dal nulla compare una calcolatrice «Vediamo, porta dimensionale, due colonnine in affitto, una di sua proprietà, applicando lo sconto del venti per cento, in tutto farebbero cento dodicimila euro. Naturalmente può scegliere il pagamento a lei più congeniale, anche rateizzato se desidera.»
Decido per un pagamento in due trance, intanto le stacco un assegno da cinquantamila euro e poi l’altro a lavoro concluso.

«Avresti potuto anche consultarti con me prima di prendere una decisione del genere, non ti sembra?» Mi riprende Carla, mia moglie.
«Pensavo di farti una sorpresa, un regalo insomma, non sei contenta?»
«Ma perché proprio l’isola di Anguilla dico, passi per la casa in montagna, ma poi magari a me e ai ragazzi sarebbe piaciuto un altro posto?.»
«Il trasferimento è istantaneo e c’è il problema dei fusi orari.» Replico.
«E con questo.»
«Il fatto è che per ogni decisione anche la più stupida ci sono sempre discussioni a non finire, avremmo passato mesi a litigare senza concludere nulla, così ho deciso per tutti, e poi i soldi li ho tirati fuori io o no?. Comunque se il posto non ci dovesse piacere facciamo sempre in tempo a cambiare.»
«Ah possiamo cambiare.»
«Quando vogliamo, una telefonata e nel giro di qualche ora ci installano una nuova destinazione.»
Carla sembra calmarsi. «Va bene allora facciamo così poi vedremo. A proposito quando vengono ad installare l’apparecchio.»
«Domani mattina. Ma dimmi non sei almeno un pochino contenta?»
Solo adesso si accorge di essere stata troppo brusca, così mi allunga un bacio ruvido; capisco che la scusa del regalo non se l’è bevuta, le brucia ancora il fatto che l’ho scavalcata, che ho fatto tutto per conto mio senza dirle una parola, ma le passerà, appena ci troveremo tutti quanti su una spiaggia tropicale dal mare color smeraldo le passerà tutto quanto.

Ormai siamo abbronzati come carboncini anche a metà dicembre, passiamo intere giornate in spiaggia e alla sera verso le sette ora locale rientriamo oltrepassando la soglia della porta dimensionale che ho fatto installare su di una parete del garage. Mia moglie non ha più niente da ridire e neanche i nostri figli, così l’avverto che un improrogabile impegno di lavoro mi terrà lontano qualche giorno: un palazzo nuovo al Cairo, centocinquanta locali e hanno scelto la mia ditta per installare l’impianto di climatizzazione.
Organizzo la partenza, valige e tutto il resto. Oggi è mercoledì sarò di ritorno con l’ultimo volo alle tre del mattino di domenica.
Arriva il taxi mi faccio portare all’aeroporto, è quasi mezzanotte, aspetto un’oretta poi prendo un altro taxi e mi faccio lasciare ad un centinaio di metri da casa mia. Con la sacca in mano entro nel garage. Davanti alla porta dimensionale digito il codice segreto. La porta s’illumina, dall’altra parte c’è un marciapiede, tre isolati più in là si intravede una spiaggia. Prendo un profondo respiro e supero la soglia, mi aspetto un vento freddo come spesso capita a Los Angeles nel mese di dicembre, invece il clima è quasi primaverile, il cielo limpido e l’aria ha un deciso sapore di salsedine.
Qua ogni cosa sembra gigantesca. Mi dirigo verso Venice Beach, sotto palme altissime, strade extra large, il lungomare infinito, e perso in questa vastità boccheggio in cerca di un punto di riferimento, ma ecco Rebecca appoggiata ad una panchina che mi sta aspettando. Non mi sembra vero, corro, e anche lei appena mi vede comincia a corrermi incontro. Ci abbracciamo a metà strada ridendo e baciandoci mentre la faccio roteare stretta tra le braccia, e come in un sogno mi passano davanti il cielo, le palme, il sole rosso infuocato disteso sull’orizzonte, e lei dalla pelle ambrata, gli occhi scuri, che mi stringe. Sono passati quasi tre mesi dall’ultima volta, un’eternità.
Lei sprofonda la testa nella mia spalla «Mi sei mancato.» Dice.
«Anche tu.» Le rispondo.
«Non mi aspettavo di vederti così presto.» Sussurra.
Non voglio farle capire fino a che punto sono coinvolto così facendomi violenza cambio discorso «Come va il contratto con la Enrowen?» Lei mi guarda tra il risentito e lo stupito. « E’ una commessa importante, se battiamo la concorrenza risolviamo tutti i nostri problemi.» Continuo cocciuto.
«La commessa è nostra.» Risponde assumendo improvvisamente un atteggiamento professional-imbronciato.
«Cosa?» Affermo incredulo
«Abbiamo vinto noi, mi hanno chiamato ieri, ho già firmato i preliminari.» Risponde mentre il suo viso s’illumina d’un gran sorriso.
«Sapevo di poter contare su di te» Le dico al settimo cielo «adesso possiamo allargare il nostro orizzonte, domani devi contattare un’agenzia pubblicitaria, vedi tu la migliore, lanceremo una campagna promozionale in grande stile.»
«Allora è solo per questo che sei venuto fino qua.» Mi fa tenendomi di nuovo il broncio.
«No certo, certo che no, in realtà è per quell’altro problema.»
«Già…anche se ormai ho deciso.»
«Anche se non sono d’accordo.»
«Vogliamo continuare a litigare?»
«Mi avevi detto che te ne saresti liberata.»
«Poi ho cambiato idea, va bene? Voglio tenerlo, e comunque ormai è troppo tardi.» Si chiude a riccio passandosi una mano sul ventre leggermente gonfio. Lo so, è stato un ultimo tentativo da parte mia, tanto per mettermi la coscienza a posto e poter dire che le ho provate proprio tutte.
«Forse hai ragione, ormai è troppo tardi.» Mi arrendo, è inutile insistere, cercare di contrastare eventi ineluttabili; e mi ritrovo anch’io ad accarezzarle il ventre; e quella rotondità mi commuove, in fondo sono così felice… e disperato.
«Non ti devi preoccupare,» cerca di rassicurarmi Rebecca notando la mia espressione confusa. «questo figlio lo voglio, al di là di ogni cosa, è mio, solo mio e posso benissimo arrangiarmi da sola.»
«Ti raddoppio lo stipendio, è il minimo che possa fare.» Sorrido raggiante.
Lei mi guarda con quei suoi occhi da antilope, la testa leggermente reclinata.
«Come vuoi, se questo ti fa sentire meglio.»
In fondo va bene così, ma chi se ne frega «… ti amo.» Le sussurro con un bacio mentre mi chiedo cosa sto combinando. Ormai la mia parte irrazionale ha preso il sopravvento. E non c’è niente da fare, adesso, di fronte all’inevitabile, desidero soltanto condividere con lei i momenti più belli. L’osservo mentre cammina stagliata contro il cielo con quel suo passo leggero. Per me rappresenta una vita tutta nuova, un ricominciare d’accapo, un supplemento di giovinezza. Ho quarantacinque anni e me ne sento venti in meno, come Rebecca, che mi guarda incosciente e ride e si mette a correre scalza, le scarpe in mano, sulla sabbia gelata; e anch’io sono incosciente e felice ancora più di lei. Mi levo le scarpe e corro, la raggiungo, la sollevo. Mi cinge i fianchi con le sue lunghe gambe, la testa reclinata in avanti, i capelli che spiovono dall’alto, le labbra socchiuse, il respiro profondo come quando facciamo l’amore. Rallento, sento la sua bocca aprisi sopra la mia e il suo respiro scendere giù caldo dentro i miei polmoni «Sarò io la tua vita.» ansima
Mi sento rinascere, rianimato come da un alito divino, se non fosse per quella vocina che sale da profondità abissali e mi dice, “si può sapere cosa stai combinando?” ma faccio presto a zittirla, stringo forte Rebecca a me e quella vocina scompare, non la sento più; sì perché così avvinghiati per un attimo siano una cosa sola, come il cielo, il mare, l’universo intero.
«Ci vedremo più spesso di quello che credi.» Esulto estasiato.
«Davvero? Abbandoni la famiglia e ti trasferisci da me?» Reagisce scherzando sapendo che non lo farei mai.
«Non proprio, ma ho aperto una varco, un varco che parte da qua» dico tenendomi una mano sul cuore «e… arriva dritto fino a qua» finisco appoggiandola al suo seno.

Quando la domenica alle tre del mattino rientro, sguscio fuori dal garage senza far rumore, poi trascinando la sacca imbocco il vialetto dell’ingresso ed entro in casa. Per prima cosa salgo da mia figlia Sara, quindici anni appena compiuti. Dorme beatamente abbracciata al cuscino. Poi entro nella camera di Sergio, diciassette, sdraiato nel letto con il telecomando in mano e il televisore acceso, profondamente addormentato anche lui, spengo. Quando sono in camera mia sento Carla salutarmi con un « Sei tu caro.»
«Si certo sono io.» La rassicuro.
«Va bene, buona notte.» Sospira girandosi dall’altra parte.
Mi sveglio presto, mia moglie dorme ancora. Ho sognato tutta notte Rebecca, credevo di averla lì accanto. E c’è mancato poco che stringessi tra le braccia Carla salutandola con un “bel ciao Rebecca”. Infatti ho il cuore in gola e le gambe che mi tremano ancora mentre scendo in cucina con una gran voglia di caffè.
«Ciao Giorgio ben alzato» Invece sento dal fondo della cucina.
Faccio un salto per lo spavento. Ma quella voce è simile… anzi più che simile, proprio uguale a quella di mia suocera. Mi giro di scatto come un gatto a cui hanno appena pestato la coda; è proprio lei, davanti ai fornelli che sta preparando la colazione per tutta la famiglia.
«Ma… ma quando sei arrivata?» Balbetto.
«Poco fa.» Mi fa lei con noncuranza.
Dico, i miei suoceri abitano a ottocento chilometri, una distanza ragionevolmente sicura, e cosa vuol dire quel poco fa? Ottocento chilometri non si percorrono mica in un attimo. A meno che… Corro in camera da mia moglie, la sveglio.
«Ma cosa ci fa tua madre in cucina.» Quasi urlo.
Lei sbadiglia, si stropiccia gli occhi.
«A sì caro, ho chiamato l’agenzia. Sai le porte dimensionali. Ho fatto apportare qualche modifica.»
«C… cosa?.».
«Ho fatto aprire un accesso diretto con la casa di mia madre; sai che comodità, mi risparmierà un sacco di lavoro, qua tocca sempre fare tutto a me, e io sono stufa, stanca, non ne posso più.»
«Ma sei impazzita?» m’infurio, «Così senza neanche consultarmi, e adesso avremo tua madre tra i piedi in ogni momento. Vado all’agenzia e faccio chiudere la porta dimensionale immediatamente.»
«Non credo sarà possibile.»
«Come no; come le ho fatte installare, le faccio chiudere.»
«La porta è nostra, ce la siamo comprata, metà io e metà mia madre, e tu non ci puoi far proprio niente.»
«Ma…ma…» Balbetto paonazzo in volto.
Ridiscendo come una furia in cucina: sul tavolo c’è una tazza fumante di caffè, fette biscottate appena tostate, burro e marmellata.
«Siediti è pronto» mi fa mia suocera.
Ubbidisco ustionandomi la bocca con il caffè bollente e ingollando fette biscottate ancora intere.
Verso le undici incrocio mio figlio in tenuta da spiaggia con un borsone a tracolla.
«Ciao pa’, ci vediamo stasera.»
Scende in taverna e poi si dirige verso il garage. Lo seguo, ma quando arrivo il locale è vuoto e la porta dimensionale aperta; oltre la porta intravedo una spiaggia completamente deserta lambita da un mare verde smeraldo; non sembra la spiaggia che frequentiamo di solito.
Corro in cucina dove trovo mia moglie « Ma Sergio» chiedo «dov’è andato, sempre ad Anguilla spero?»
«Scusa, ma sai Sergio ha detto che c’era un’isola più bella lì vicino, già che avevamo i tecnici in casa abbiamo chiesto se ci potevamo cambiare destinazione, sono stati così gentili, ce l’hanno fatto gratis.»
«Cossaa!» Urlo. Dammi il codice, voglio controllare.
«Ah sì il codice… scusa ma non ce l’ho, per il momento lo sta usando solo Sergio»
Corro in camera di Sergio e comincio a rovistare dappertutto. Finalmente trovo il suo diario, la prima pagina è infarcita con codici d’ogni genere, ci sarà anche quello della porta, presumo.
Davanti alla porta dimensionale, dopo mezz’ora di inutili tentativi, quando ormai dispero, finalmente digito il codice giusto.
M’inoltro lungo il bagnasciuga. Il sole è ancora basso sull’orizzonte e la spiaggia è completamente deserta. Chissà dove sono finito, di sicuro non ad Aguilla, anche se sempre di un’isola si deve trattare, visto che la costa fa un’ampia curva piegandosi su entrambi i lati per poi scomparire, ma di Sergio neanche l’ombra. Alle mie spalle solo alte dune sormontate da una vegetazione rigogliosa. Però mi sembra di sentire delle risa provenire proprio da quella direzione. Supero le dune, poi una specie di recinzione e mi ritrovo in campo coltivato con cura, dove pianticelle alte poco più di un metro si stendono a perdita d’occhio. La forma delle loro foglie non mi giunge del tutto nuova, ne stacco una rigirandola tra le mani, ma sì è proprio lei, inconfondibile, si tratta di canapa. Il posto sembra in tutto e per tutto uguale ad un film che ho visto qualche tempo fa con Di Caprio, come si chiama?… Ah sì The Beach, magari si tratta proprio dello stesso campo. Mi sembra già di vedere i guardiani sbucare brandendo i micidiali Kalashnikov. Corro nella direzione delle risa e vedo mio figlio seduto sotto un albero con altri quattro o cinque coetanei dalla pelle scura, probabilmente nativi del luogo, e un gran cannone fumante di almeno trenta, ma che dico, forse quaranta centimetri stretto tra le mani. Aspira profonde boccate ed emette dense volute di fumo; va bene da ragazzo non sarò stato uno stinco di santo neanch’io, ma cannoni di quelle dimensioni giuro non me ne sono mai fatti.
Mi avvicino senza dire niente, gli sfilo il cannone dalle dita passandolo al suo compagno che scopro essere una ragazza, lo prendo per un orecchio sollevandolo di peso.
«Adesso vieni a casa con me!» Sibilo
«Ma papà…» Comincia a protestare, però s’interrompe subito, capisce che non è aria, che se insiste lo stendo lì sul posto, e senza bisogno di Kalashnikov.
Entriamo in cucina c’è Carla e mia suocera. «Sai dove l’ho pescato, in un campo di marijuana mentre si faceva un cannone lungo un chilometro.»
Mia moglie sembra cadere dalle nuvole «Ma nostro figlio si droga?»
«Temo proprio di sì.»
«Dobbiamo mandarlo subito in uno di quei centri… come si chiamano… quelli che servono per disintossicarsi.»
«Ma mamma …» Si lamenta Sergio
«Non c’è bisogno lo disintossico io a suon di sberloni. E adesso fila in camera tua.»
Mio suocero, che nel frattempo, pure lui è comparso dal nulla, mi fa «ma sì, ragazzate, chi non ha combinato qualche marachella da giovane, vedrete che poi tornerà tutto a posto.» e non so più dove andare a sbattere la testa mentre mia suocera viene in soccorso del marito «ma sì Gianni ha ragione, sono solo ragazzate, stramberie giovanili. Carla non preoccuparti, i giovani d’oggi sono fatti così, rilassati cara che alla cena ci penso io.»
Lei non se lo fa dire due volte, dopo dieci minuti la vedo scendere tutta agghindata «Faccio un salto in centro,» Mi fa «ho un paio di cosucce da sistemare.»
«In centro? Ma se è domenica e tutti i negozi sono chiusi.»
«Guarda che siamo sotto Natale, il Natale del duemila e dieci, anzi tra poco entreremo nel secondo decennio del nuovo millennio, certe volte mi sembri proprio un uomo di un’altra generazione, come se tu fossi rimasto fermo ancora al secolo scorso.»
«E sotto Natale i negozi rimangono aperti anche la domenica.» Sussurro mestamente.
«Bravo, vedo che hai capito al volo. Ci vediamo dopo.» Mi saluta avviandosi verso il garage.
Strano, non sento l’inconfondibile rumore della nostra auto partire.
Corro in garage. La porta dimensionale è aperta, subito al di là noto il didietro di mia moglie che si mescola ad una piccola folla, ho ancora qualche secondo, mi tuffo….
Devo essere finito in un centro commerciale, ma non uno dei soliti centri commerciali, questo è diverso, una cosa stratosferica, enorme, sembra una città sotterranea. Lei scivola con passo spedito su pavimenti lucidati a specchio, costeggia laghetti artificiali, aggira piccole giungle pluviali, attraversa riproduzioni sub tropicali con gruppi di palme slanciate e intorno schermi giganti dove sono riprodotti mari da sogno che vorrebbero catturarti con il loro sciabordare ipnotico; il tutto sormontato da gigantesche cupole, e in questo labirinto mia moglie sembra proprio essere a casa sua, cammina senza ripensamenti passando da un negozio all’altro. Ma dove mi trovo? Osservo le insegne pubblicitarie. Poi noto una scritta enorme campeggiare su tutte le altre “Woodfield, the world’s biggest commercial center”, porcaccia la miseria, impreco mentre un orologio digitale mi avverte che qui sono da poco passate le dieci del mattino. Certo ormai con l’euro sempre più forte conviene fare compere negli USA.
Seguo mia moglie per un paio d’ore, d’altronde non la posso perdere di vista non conosco il codice di rientro, e rimanere bloccato qua potrebbe risultare alquanto spiacevole.
Intanto lei si è munita di un carrello, anche quello gigantesco e l’ha quasi riempito, mi rendo conto che sta spendendo una fortuna, però è anche vero che le occasioni non mancano, vedo una macchina fotografica digitale che costa quasi la metà che da noi, sono tentato, ma non mi posso distrarre.
S’intrattiene a parlare con un rivenditore, alto e muscoloso, capelli lunghi, scuri, raccolti in una coda da cavallo: nel suo genere niente male, sono costretto ad ammettere. Però non sapevo che mia moglie conoscesse così bene lo slang americano, poi mi ricordo che appena laureata, per il dottorato aveva trascorso quattro anni a Boston. Come cambiano le cose, adesso fa la casalinga a tempo pieno. Il tipo le scrive qualcosa su un bigliettino, comincio già a fumeggiare; per fortuna si salutano con una stretta di mano e niente più, ma io già vedo amanti da tutte le parti. Magari sarebbe meglio così, se avesse qualcun altro la mia coscienza troverebbe un po’ di pace: anche se poi la cosa, lo so, mi farebbe incazzare da morire.
Quando apre la porta per il rientro mi metto subito dietro, ed insieme: io, lei e il carrello stracolmo, superiamo la soglia rientrando nel garage.
«Ma cosa ci fai qua?» Quasi urla Carla facendo un salto all’indietro appena mi vede.
«Ah è così ci diamo alle spese pazze.»
«Mi hai seguito?»
«Certo che ti ho seguito. Dimmi quali altre sorprese mi hai riservato?»
«Sai queste porte sono così comode.»
«Certo che sono comode, ma costano anche un occhio della testa, e i soldi dove li hai presi?»
«Forse te lo sei dimenticato ma sul conto in banca c’è anche il mio nome.»
«Così hai usato i miei soldi.»
«Vorrai dire i nostri soldi.»
Emetto un grugnito; certo in teoria i nostri soldi, ma in pratica i miei. Sto per risponderle per le rime quando compare mia figlia tutta agghindata: gonna vita bassa, ombelico di fuori con brillante incastonato, maglietta aderente e giubbotto panchettaro, i capelli impomatati all’indietro e un gran luccichio di paiette intorno agli occhi e sulle labbra. Ha un telecomando in mano.
«Ciao ma, ciao, pa’ ci vediamo dopo.» Fa con nonchalance, come se ci avesse incrociato così per caso. La porta dimensionale si apre all’interno di un locale dalle luci psichedeliche, pieno di effetti speciali con fumogeni turbinanti da cui esce un gran fracasso. La vedo sparire inghiottita dal fumo poco prima che le porte dell’inferno si richiudono lasciandomi là a fissare il riverbero metallico della porta dimensionale ormai disattivata.
«Che storia è questa?» Mi rivolgo indignato a mia moglie.
Carla mi guarda tutta stupita, sorpresa dalla mia indignazione. «Cosa c’è di strano? Ormai nostra figlia è cresciuta; va in discoteca come tutte le ragazze della sua età.»
«C… co… cosa.» Ricomincio a balbettare.
«Così stiamo più tranquilli, sappiamo dov’è, la possiamo raggiungere in qualsiasi momento, e niente stragi del sabato sera.»
«Hai detto che la possiamo raggiungere in qualsiasi momento?»
«Certo perché credi che glielo abbia permesso.»
«Dammi il codice.»
«Cosa vuoi fare?»
«Tu dammi il codice.»
«Le ho promesso che non avremmo interferito.»
«Io no, io non ho promesso un bel niente.»
La seguo in cucina. Appena entrati i suoceri spostano padelle e piatti «Ma dove siete stati, la cena è pronta, ormai si sarà raffreddato tutto quanto.»
Ecco ci mancava solo quello, non li cago nemmeno. Sto incollato a Carla «Dammi il codice.» continuo «Dammi il codice» insisto. Sa che non mollerò la presa finché non cederà.
Infatti dopo dieci minuti di martellamento continuo si arrende.
Supero le porte dell’inferno e subito vacillo stordito mentre un Tir lanciato a tutta velocità m’investe con i suoi centottanta decibel di musica assordante. Osservo la pista da ballo dove una bolgia di corpi seminudi si dimenano tra zaffate di profumi e ondate sature di sudore. Non la vedo. Sfilo davanti ad un bancone lunghissimo, come una circonvallazione, ma sul ciglio solo corpi esangui chini a sorbire flebo alcoliche. Per fortuna mia figlia non è tra loro. Comincio a girovagare un po’ sollevato, ma anche timoroso nelle zone più buie e appartate, schivando tavolini ad altezza di caviglia dove video dai colori sgargianti animano le pareti creando un’indeterminazione onirica che rischia di farmi inciampare ad ogni passo.
Poi noto una coppia stravaccata su di un divanetto; lui sembra un polipo, mani dappertutto, lei sulla difensiva, ma forse è tutta scena; sorrido pensando ai miei tempi, le lotte per conquistare una ragazza per poi finire immancabilmente in bianco. Scuoto leggermente la testa sennonché quella maglietta sollevata, e la gonna tutta alzata sembrano proprio uguali a quelle che indossava mia figlia. Afferro la spalla del ragazzo e lo sposto, sotto mia figlia ansimante e tutta arrossata. Appena mi vede lancia un « ma papà…?!»
L’afferro per un braccio sollevandola di peso. Lui avrà sì e no quindici anni; è fortunato non reagisce, rimane a guardarmi senza dire niente, meglio così.
Trascino mia figlia attraverso la pista da ballo, supero il bancone, poi oltrepasso la porta dimensionale, la teletrasporto a suon di pedatoni fino in camera sua. «Da qui non esci fino a nuovo ordine, capito!» le intimo.
Sono furibondo, ho bisogno di qualcosa di forte, scendo in cantina dove tengo la mia riserva di grappe.
Appena appoggiato il piede sul primo gradino che scende nelle buie viscere della terra sento una mano appoggiarsi sulla mia spalla. Rimango congelato, con tutti quanti i peli che, all’unisono, si rizzano.
«Giorgio… Giorgio sono io.» Sussurra una voce.
Ma quella voce è proprio uguale a… «Rebecca! Cosa ci fai qua!» Boccheggio e questa volta credo proprio di avere anche i capelli tutti ritti in testa.
«Avevo voglia di vederti.» Mi fa lei il viso illuminato da uno spicchio di luce che filtra dalla porta socchiusa.
«Come sei riuscita a…?» La fisso disperato.
«Il telecomando.»
«Il telecomando?»
«Dai, l’ho fatto clonare da un mio amico.»
«Ma tu sei pazza, siamo a casa mia, alle dieci di sera, c’è mia moglie, ci sono i miei figli.»
«Ero curiosa di vederli.» Così dicendo mi prende il viso tra le mani e cerca di baciarmi. «Non sei contento?»
«Contentooo.???»
Poi ci ripenso; forse è meglio assecondarla, in queste circostanze, non si sa mai.
«Certo che sono contento.» Mento spudoratamente mentre la bacio. Lei risponde con passione. La situazione sembra eccitarla da morire.
Sento dei passi nel corridoio, incollo Rebecca al muro tenendole una mano sulla bocca.
«Giorgio, Giorgio dove sei?»
«Qua sotto cara, cosa vuoi?»
«Potresti venire un attimo in cucina?»
«Arrivo subito.»
Per fortuna la sento allontanarsi.
«Aspetta qua, non muoverti. Faccio prima possibile.» Intimo a Rebecca.
Appena entrato in cucina li trovo tutti quanti schierati: sulla sinistra mio figlio e mia figlia, al centro mia moglie, e sull’ala destra i suoceri.
«Sai Angela mi ha raccontato cos’hai combinato in discoteca.» Attacca mia moglie.
«Cos’ho combinato?» Riesco appena a replicare
«Come “cos’ho combinato?”» Mi scimiotta mia moglie «Hai traumatizzato la ragazza, guarda in che stato è, non ha ancora smesso di piangere.»
«Sai cosa stava facendo quando l’ho beccata con quel suo amichetto?»
«Non è un amichetto. Lo amo.» Interviene mia figlia tra un singhiozzo e l’altro infondendo alla voce tutto il melodramma di cui è capace.
Mia suocera fa un passo avanti, un coltello da cucina stretto tra le mani, decisamente puntato contro di me. «Sei il solito, non capisci niente, poverina. Sai quanti anni avevi quando corteggiavi mia figlia qui presente, neanche venti, e non ti abbiamo mai detto niente.» Saltella tutta infervorata agitando la lama.
«Questa poi, ma se l’avevate fatta sparire per due mesi mandandola da una sua zia perché non volevate chela vedessi.»
«Ma dai sono giovani, lascia che vivano la loro vita» Interviene mio suocero.
«Certo sei un tiranno.» Salta su mio figlio.
«Un despota» Segue a ruota mia moglie «Non si trattano così le persone, pensi solo a te, sei un egoista ecco quello che sei.»
A quel punto cominciano tutti quanti a recriminare, ad inveire; le loro voci si accavallano, mi sormontano, ognuno cerca di superare l’altro per farsi sentire tirando fuori anni ed anni di rancori e dissapori mai risolti.
Mi rendo che è una lotta impari. Prima di uscire dalla cucina lancio un «Ma andate tutti quanti al diavolo.»
E via, scendo le scale a tutta birra. Apro la porta della cantina. Rebecca è ancora là appoggiata al muro, mi guarda piena di desiderio, la pelle ambrata, più bella che mai.
La prendo per mano «Andiamo.» Le dico
«Dove?» Fa lei sorpresa.
La trascino in garage e senza rispondere apro la porta dimensionale, «Stanotte dormo da te.» affermo. E insieme saltiamo oltre la soglia, fino a Los Angeles.
«Ma caro…» interviene Rebecca scoppiando a ridere mentre chiudo gli occhi colpito da un sole abbagliante. « sono appena le undici del mattino!»

© Gianluigi Lancellotti





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