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Avevo letto i primi giorni di scuola la sua diagnosi, e ne rimasi un po’ perplessa; era la prima volta che mi dovevo occupare di un ragazzino autistico. Sapevo bene, che si tratta di un quadro clinico dei più complessi e chi ne soffre è anche definito: “un bambino sdraiato sul pallone”, perché si trova in una situazione in cui qualunque movimento fa, avverte il rischio di “perdere l’equilibrio” e cadere. Proprio perché ha paura della realtà, il soggetto autistico resta inerte, se non c’è chi lo aiuta a “scendere dal pallone” e a immergersi nel mondo reale. Insegnando in una scuola cosiddetta “a rischio” per mia scelta, fin’ora avevo sempre seguito per lo più soggetti caratteriali, che vivevano in famiglie con un degrado socio culturale elevato, e quindi con problematiche enormi; intolleranti ad ogni disciplina, atteggiamenti provocatori nei riguardi anche dei docenti, atti di bullismo, atti vandalici, insomma la mattina più che a scuola, mi preparavo per andare su un campo di battaglia. Se non avessi avuto il carattere che mi ritrovo, non avrei certamente mai scelto di fare questo lavoro; una pazienza e un autocontrollo incommisurati, fanno di me una persona, molto calma, che raramente urla, esplode; ho una forte capacità di accettazione, insomma una di quelle, a cui difficilmente saltano i nervi. Questo mio modo di essere è positivo per il lavoro che faccio; in più si aggiunge questa voglia di rendermi utile ed aiutare chi ha bisogno, di addentrarmi nei problemi sociali, di portare avanti dei progetti di solidarietà; un bisogno di dare, che riesce a dare un senso alla mia vita, e riempire quei vuoti, che spesso ci portiamo dentro. Passò tutto il mese di settembre, ma ancora l’alunno, che mi era stato affidato, non si presentava. Cominciai però a documentarmi su questa patologia, che conoscevo non a fondo. Tutte le cose che si presentano un po’ complicate, mi danno un maggiore imput per affrontarle, conoscerle in profondità; è una sfida quasi con me stessa, questa voglia di immergermi nelle difficoltà, per poi gustare anche il più piccolo successo; anche un breve passo in più fatto dai miei alunni, per me è sempre motivo di soddisfazione. Purtroppo tante volte, il nostro lavoro viene vanificato da un contesto familiare molto degradato, dove è difficile anche l’intervento degli assistenti sociali, ecco perché in casi estremi, dove la famiglia vive in uno stato di completo degrado, è necessario che questi giovanissimi, vengano allontanati da quel nucleo, per poterli recuperare del tutto. Ricordo il caso di un alunno, che seguii per un anno; intelligente, tranquillo, ma restio ad ogni apprendimento scolastico; la mattina arrivava a scuola come se fosse stanco, dopo un po’, vedevo che quasi sonnecchiava, appoggiato con la testa sul banco. Intraprendevo lunghi dialoghi con lui, cercando di sapere notizie, senza mai forzare più di tanto, su come si svolgeva la vita nella sua famiglia; pian piano, dopo aver instaurato un rapporto di fiducia, il ragazzino cominciò a raccontarmi, che nella sua famiglia, si prostituivano tutti, e lui che era il più piccolo e la sera aveva solo voglia di starsene a dormire, purtroppo doveva sottostare agli ordini della madre, che lo portava con sé, facendogli intraprendere già a quell’età, la strada della prostituzione. Una storia che mi lasciò allibita e tanta amarezza nel cuore, perché risolverla non era poi così facile, nonostante tutto il corpo docente, si prodigasse, per richiamare l’attenzione degli assistenti sociali, o di altri organi competenti. Là dove la famiglia non collabora per niente, e rifiuta ogni tipo di aiuto, è una grande fatica, riuscire ad un ragazzino caratteriale, che vive traumi giornalmente, fargli raggiungere un certo equilibrio. Per me è una grande delusione, quando poi a poco a poco, questi alunni, non frequentano più la scuola, e magari si immettono il più delle volte in compagnie pericolose, o quando aprendo il quotidiano, nella pagina della cronaca, vedo qualcuno di loro arrestato; mi sento sconfitta, mi chiedo cosa si sarebbe potuto fare, e non si è fatto, in cosa abbiamo sbagliato noi insegnanti, ma poi mi convinco, che la scuola da sola non può fare più di tanto, senza la collaborazione della famiglia. Spesso dobbiamo aggiornarci, documentarci, sulle modalità di intervento, sulle tecniche e strategie da mettere in atto, con questi soggetti difficili, ma qualunque tecnica e qualunque strategia, devono essere sempre accompagnate da una grande carica di disponibilità affettiva da parte nostra; loro si devono sentire accettati, amati, almeno nella scuola, visto che in casa, non trovano quella disponibilità di accettazione e ascolto da parte dei genitori. Spesso quello che noto infatti, che quando faccio una carezza, alcuni istintivamente, allontanano il viso, hanno quasi paura; loro sono abituati a vedere una mano che si muove, per dare magari uno schiaffo o per essere picchiati in modo violento. Intanto proseguivano i miei approfondimenti sull’autismo, un quadro clinico, che coinvolge tutta la sfera affettiva, e i processi cognitivi a tutti i livelli. Ogni tentativo di relazione con l’autistico, suscita in lui diffidenza, panico, in quanto il suo mondo è fuori da tutti i problemi concreti, dalle persone che lo circondano, ma è fatto di cose irreali, di illusioni; è il mondo in cui egli si rifugia, quello interiore, confuso, incerto, fatto di immagini evanescenti, fugaci, che il soggetto avverte solo come sensazioni. Egli comunica con il corpo, anche se per lui è un qualcosa che non gli appartiene, così come il tempo per lui non esiste, non c’ è passato, né presente, né futuro, la sua vita è un’ alternanza tra sogno e realtà. Arriva il mese di Ottobre, e una mattina, vedo arrivare in classe, un ragazzone di 13 anni, che di età ne dimostrava molto di più; alto, robusto, il viso paffuto, due occhioni scuri, ma assenti. Accompagnato dalla madre, una donna giovane, alta, con la stessa corporatura del figlio, ma dall’aria molto dimessa e stanca, come se le sue forze, fossero ormai esaurite. Ci presentiamo, parliamo un bel po’, mi racconta della sua vita. Il marito l’ha lasciata con due figli, e pare che anche l’altro, avesse un po’ di problematiche. Alessio, questo il nome del mio alunno, mentre la madre parlava, stava con il capo appoggiato sul petto della donna, e le stringeva la mano; nessuna espressione traspariva dal suo viso, lo sguardo assente. Compiva ogni tanto, dei gesti e dei movimenti incontrollati. Tutto il tempo lo passò tenendo stretta la mano della madre, né lei cercò di svincolarsi; sapeva bene, che abituarlo al distacco, era difficoltoso. Passavamo così, due orette di ogni giornata, insieme alla madre, facendogli prendere conoscenza di tutti gli spazi della scuola, portandolo a passeggiare un po’ nel giardino, che circondava il plesso scolastico; nessuna parola veniva fuori, i suoi erano più che altro dei vocalizzi; l’incedere era incerto, e camminava sollevandosi sulle punte, il camminare sulle punte, è caratteristico dei soggetti autistici, deriva dalla difficoltà di appoggiare il corpo sui piedi, e il desiderio di sentirsi leggero, non ingombrante; sguardo sempre basso, immobile, fisso, quasi in cerca di un punto di riferimento. Intanto la scuola, aveva provveduto, a nominare un assistente, che aveva il compito di accompagnarlo in bagno, dargli da mangiare, pulirlo. Cominciavo gradualmente a cercare un contatto fisico con lui, prenderlo per mano, fargli qualche carezza, e mentre i primi giorni si rifiutava, pian piano, si abituava a questo contatto; gli accarezzavo il viso, e lui stava immobile a ricevere le mie carezze, svincolandosi pian piano dalla mano della madre. Dopo qualche tempo, provammo a fare in modo che la madre si allontanasse per un po’, ed io a distrarlo, in modo che non si accorgesse della sua assenza; si andava avanti così, finché la madre a poco a poco, lo lasciava a scuola e andava via; allora c’erano dei momenti, in cui la situazione diventava critica, Alessio si metteva ad urlare perché voleva la madre, voleva scappare, diventava aggressivo; gestirlo in quei momenti, diventava veramente difficile, ma non mi sono mai persa d’animo; nella mia esperienza di anni di insegnamento con ragazzi difficili, me l’ero sempre cavata discretamente, sia per la mia indole di persona paziente fino all’inverosimile, e anche per la carica affettiva che ho sempre messo, in questo mio lavoro. Sono stata sempre convinta, che con l’amore si risana tutto, “Amore è un faro sempre fisso, che sovrasta la tempesta e non vacilla mai, è la stella guida di ogni sperduta barca”, diceva SchaKespeare; in effetti è proprio così, se ami questi ragazzi, otterrai il meglio da loro, anche se spesso non li recuperi del tutto, perché là dove la scuola finisce, non c’è la continuità di una famiglia pronta a seguirli. Cosa devo fare e in quale direzione muovermi, sono le domande che mi pongo ogni qual volta, si presenta un caso nuovo; ma ho imparato che alla base di ogni progetto educativo, ci deve essere una grande dose di umanità, che comprende serenità, ottimismo, pazienza, benevolenza, come incentivo, affinché l’altro acquisisca la fiducia in sé. Che gioia quando per la prima volta, sentii da Alessio pronunciare il mio nome!! Non avevo fin’ora sentito mai una parola per intero; passeggiavamo spesso nel cortile, in mezzo agli alberi, con la sua mano che stringeva forte la mia; io parlavo, gli facevo toccare gli oggetti, in modo che percepisse la presenza, lui eseguiva il tutto come un automa, all’inizio, poi invece, cominciavo a notare dei segnali di partecipazione, e questi piccoli progressi per me erano motivo di grande gratificazione. Dopo mesi, Alessio, cominciava a prendere conoscenza dello spazio intorno a lui; mentre passeggiavamo nel corridoio, gli dicevo di andare da solo in classe, e lui dopo tante perplessità, raggiungeva l’aula; cominciava a bere e mangiare da solo, a salire e scendere le scale, in modo più autonomo; quando mi prendeva per mano, significava che voleva andare fuori della classe, la confusione, il vociferare dei compagni, lo infastidivano. Le uniche parole che uscivano dalla sua bocca, erano: mamma e Rosanna, il mio nome. Gli piaceva andare verso la finestra, e battere le sue dita contro i vetri, poi mi guardava e sorrideva; prendeva certe volte la matita, e la strisciava su un foglio, poi la tirava in aria; era felice, quando gli facevo ascoltare la musica, s’immergeva completamente in quei suoni, come se andasse in estasi, e sorrideva. Alessio era diventato una sfida con me stessa; ogni suo piccolo progresso era per me una vittoria; avrei voluto che instaurasse un qualche rapporto con i compagni, invece i suoi rapporti con questi ultimi, sono rimasti sempre irrilevanti, ma ancora eravamo ai primi mesi di scuola, da qui alla classe terza ero sicura che Alessio di progressi , ne avrebbe fatti tanti. Intanto la madre mi riferiva, con molta disperazione, che a casa manifestava degli atteggiamenti molto aggressivi, verso i componenti familiari; non li faceva dormire, perché urlava di notte, e certe volte li picchiava, insomma la donna era molto provata, la vedevo certe mattine sfinita, trascinava le sue giornate con fatica, per cui le cominciava a balenare l’idea, di mettere il figlio in qualche istituto, e un giorno si sfogò con me. Furono attimi in cui, rifiutai categoricamente la sua idea, “non si può allontanare un figlio, che ha bisogno di aiuto”, mi trattenni dal dirle questo in maniera esplicita, ma le feci capire, che non era una soluzione adatta , di pazientare ancora, portarlo a fare terapia, ma poi riportarlo la sera a casa. Capivo il suo calvario di donna, ma si doveva scegliere un qualcosa, che non avrebbe danneggiato ulteriormente il ragazzo. Questa decisione, che lei andava maturando, mi cominciava a preoccupare. Ho sempre pensato che il distacco dal proprio ambiente familiare, è un qualcosa di molto traumatico; lo si dovrebbe fare, solo nei casi, in cui la famiglia, non è in grado di sopperire ai bisogni di una crescita equilibrata del proprio figlio, altrimenti allontanarli è più dannoso; è come staccare una pianta dalle proprie radici, quelle radici, che anche se non sempre rigogliose, comunque hanno sempre una linfa che nutre. Inoltre avevo già notato, che rispetto ai primi giorni di scuola, Alessio di progressi, ne aveva fatti. Di negativo, c’era il fatto che si assentava frequentemente, e quando verso il mese di Aprile, mi resi conto che queste assenze si erano prolungate abbastanza, telefonai alla madre, la quale mi diede la conferma di quello che io avevo temuto: Alessio era stato portato in un istituto, e in una frazione di secondi, mi venne subito in mente, un film che avevo visto in TV, che trattava proprio, di un bambino autistico, e di cui mi rimase impressa quella scena, quando i genitori lo fanno salire in macchina, per portarlo in una struttura per disabili, come un cane quando viene portato al canile. La sensazione di abbandono e di distacco di un figlio dalla madre, nel vedere quella scena, la rivivevo ora di nuovo. Alessio era stato depositato lì, dalla madre. Mi rimbombavano nelle orecchie, le sua urla quando a scuola cercava la madre, e chissà con quanta disperazione, urlava adesso, che si sentiva imprigionato, in una gabbia, e non riusciva a vedere più il volto di sua madre. Il lungo cammino che volevo intraprendere con lui, si è interrotto. Ricordo l’ultima volta che vidi la madre, le sue parole: “mi sembra ormai d’ impazzire, da quando mio marito mi ha lasciato, io non posso più reggere questo figlio, e poi non lo volevo così..”. Capii quanto doveva essere drammatica l’ esistenza di quella donna sola; i figli spesso, sono soltanto vittime di genitori con vissuti traumatici, di cui pagano le conseguenze. Penso che Alessio, nella sua disperazione, sia sceso da quel pallone, sul quale stava adagiato; stavolta la realtà dalla quale lui fuggiva, aveva avuto una forza tale, da metterlo con i piedi per terra, e fargli provare il dolore dell’abbandono, chissà se riuscirà un giorno a vedere tutti colori dell’arcobaleno, e non un mondo solo in bianco e nero! Quello fu uno degli anni scolastici, che io conclusi, con una grande angoscia dentro. Avrei voluto continuare il percorso iniziato con lui, avrei voluto ancora una volta sfidare me stessa, mettermi alla prova, in questa difficile battaglia, e avere anche questa volta, la conferma, che ogni gesto, ogni intervento educativo fatto con amore, possa dare sempre risultati positivi, perché se Alessio avesse avuto una famiglia unita, oggi non sarebbe in un istituto.
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Rosanna Affronte
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