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Occhio obliquo
di Valeria Francese
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Sentivo l’esigenza di una postura diversa, di un incontro discontinuo, di prospettive laterali. Quel che restava del mio sguardo di cinquantenne annoiato era una pupilla gelatinosa e molliccia, una lumaca polposa che abbracciava le proprie membra vischiose.
Volevo guardare in direzione di una accidentale causalità, allontanarmi dalla frontalità dei luoghi, magari incontrarli dietro di me o capovolti. Diversi. Non amavo più mia moglie, lei non amava me.
Era una di quelle donne impazzite dalla lacerazione del tempo, dalle pieghe del viso e da quelle dei suoi seni annoiati.Grassoccia e spettinata se ne stava tutto il giorno a pulire casa, con i suoi guanti di lattice e le sue presine antiscivolo per afferrare qualunque cosa le fosse mai sgusciato via, dal piatto sciacquato nel lavabo fino al mio ormai nullo interesse per lei.
Come fosse Emma da giovane, quando la sposai, io non lo ricordavo proprio. Per me lei era nata già così: con quella paglia farinosa dei suoi capelli gialli, i seni appollaiati senza convinzione e le sue presine afferratutto.
Ed anche io ero nato già con questa pancetta gonfia e le spalle mogie, ripiegate sui propri fardelli di impiegato senza troppe responsabilità, con questa fronte malamente lacerata da solchi invincibili. Ero una lumaca strisciante, lenta e bavosa, in perenne desiderio di assecondare la mia forza centripeta, quella che mi spingeva verso un centro umidiccio e palpitante, una ripetibilità originaria, l’eterno ritorno di una schiuma sconosciuta. Volevo risentire com’ero, magari com’era Emma prima che diventasse quel cumulo giallo di grasso, ma c’era quel guscio di lumaca che era attaccato alle mie scapole, ingombro di pietra dura, che faceva di me un fossile senza impronta, una medusa senza acqua.
Smettemmo di parlarci, arrestati all’ingresso dei nostri ricordi acidi mentre le giornate nascevano stanche. Lei s’ arrampicava affannosa lungo i muri, sotto il cigolio di una scala sofferente, in cerca di ragnetti od altri oltraggiosi invasori della polvere; io tacevo impietrito dalla noia, facendo solo disegni di lumaca, ovunque espellendoli con la mia bava, nauseabondo residuo di marcio ulceroso.
Si sparse presto la notizia che fossi uscito di senno. Fu Emma a dirlo a tutti, di certo. Mi guardavano con misurata comprensione. Sul divano ad angolo del mio salotto, a poco a poco arrivarono anche i sepolti dal tempo e volti che non conoscevo. Quelle visite mummificate m’infastidivano, ma capivo che ciascuno voleva compiere la propria azione civile del giorno. Tutti, come membri di una giuria sbiadita, senza stupore né commozione per la mia condizione, tutti uguali nei loro luoghi del viso, complici nella loro omologazione, loro, dalla parte dei sani, a mollo sul mio divano, io al di qua, il folle, il mollusco dalla schiuma ribollente e chiassosa. Eravamo pesci in un acquario addormentato, annoiati anche solo di stare a galla.
Poi ci fu l’incontro, fu come qualcosa che accade nella sospensione del tempo, fu come senza tempo, lei non era il tempo. Fra quei visi che non conoscevo, due occhi fiammeggianti mi chiamarono dal fondo del divano, mi ammiccarono da dietro la barriera corallina, due fiammelle ramate che mi fecero tremare e salivare.
Non c’erano più pagliette gialle e presine afferratutto, c’era lei che era semplicemente incantevole, bella ed elegante, con i suoi riccioli rossi, folletti eccitati che le saltellavano sulla pelle morbida.
Rimasi a fissare quella donna dalle gambe lunghissime e snelle, trasparenti come i prolungamenti armonici di una medusa, e lei rispondeva seducente al mio sguardo, accarezzandosi il collo. Era una collega di Emma, lei era gelosa di quella gattona in calore, l’aveva stanata subito e me ne avvidi da come la guardava stizzosa e da quel suo modo torvo di difendersi dagli attacchi esterni, affondando con tutta quanta la bocca nelle rigate guance decadenti.
Le offrì il caffè ma agguantava appositamente quella tazzina con le sue presine ostinate, la tratteneva, gliela porgeva senza lasciarla.
“Attenta, credo che ti scotterai, ti scivolerà dalle mani” si gonfiò soddisfatta riesumando in superficie le labbra dalle guance, in segno di attacco. Conoscevo il significato di quel riemergere ostile: nulla le scappava di mano. Fosse stato anche un folle che disegna solo lumache e le sbava nel letto, se era suo, lei lo afferrava nelle presine, e niente e nessuno glielo poteva più sottrarre.
Ma io desideravo quella piccola alga rossa, volevo avvilupparla nel mio guscio e arrotolarla intorno al mio collo come una collana di coralli, poi sfilarla e farmi solleticare sul petto come innocente piuma, nelle serate di un oceano estivo. Ma c’era ancora e sempre quella presina che la teneva imbavagliata al divano, incastonata nel cuscino come un rilievo in calce. Ebbi voglia di toccarle quei folletti ramati, ero quasi vicino al boccolo sulla sua fronte, a quell’alga riccia che sapeva di libertà.
Ma i miei prolungamenti erano destinati pur sempre alla calamita del centro, allungai quanto più potei l’estensione gelatinosa del mio fossile molle, c’ero quasi, spinsi dal dentro del mio liquido amniotico in preda ad un voluttuoso desiderio di fuoriuscita e lei, lei anche, quell’alga rossa si contorceva su se stessa, fluttuava nel corallo, aveva riconosciuto il suo simile, ci eravamo incontrati in quell’acquario senza ossigeno.
Ma non ce la feci. Rimasi muto al di qua del vetro, e lei anche. Come pesci senza branchie restammo a respirare solo di pensiero. Il pensiero della mia schiuma ed il suo, quello della voglia ormai esplicita di diventare la mia collana . Ci volevamo pazzamente e ora lei era proprio sul mio divano e ci nuotava dentro ciondolando come una medusetta trasparente.
“Sono dei bei disegni” ancheggiò sinuosamente, cercò i miei occhi e sorrise per quel mio sguardo melmoso. Ci scambiammo una promessa torbida come l’acqua nella quale io e lei stavamo a galla a fatica. Andò via ed io rimasi ad osservare la sera che scendeva nel mio acquario. Una luce bluastra si stemperò nella mia schiuma bianca e si adagiò sulle mie pareti. La notte divenne silenziosa ma dal salotto sentivo un dondolio di onde di plastica: Emma dormiva su quel divano soffocato dalla pressione, sospeso com’era nel ricordo di una medusa dai seni azzurri.
Fu così, in un momento, che decisi di scappare via, infransi i vetri dell’acquario, caddi sul pavimento, il guscio si fece in mille pezzettini , restai nudo come una pallina di gelatina polposa, il respiro mi si fece pesante, improvvisamente faceva caldo, molto caldo, troppo caldo. Mi gonfiai sputando fuori altri disegni, altri occhi obliqui di lumache ritorte. Avevo paura, paura del salto nell’oceano, sentivo la nausea corrermi dal fondo del mio molle sedere, invadermi le guance e traboccare dalla mia bocca arsa. Pensai all’alga del desiderio e ripresi coraggio, la vidi che ondeggiava come una bambolina esotica, lì sullo sfondo delle palme acquatiche; mi mossi tutto insieme, sputando fuori feroci movimenti intestini, spingendo fra escrezioni variopinte.
Fu allora che vidi un polipetto dalla capoccia di paglia gialla zampillare acre liquido nero, mentre si agitava con tutti i suoi tentacoli più e più volte, davvero inquieto. Mi guardava supplichevole mentre provavo a tenerlo fermo, ma quello s’agitava troppo. Vidi l’acqua farsi rossa, la mia schiuma diventare porporea, e quel polipetto d’improvviso assopirsi. Lasciai la stretta, visto che ora dormiva. Quanto caldo faceva.
Senza guscio ero più leggero, ora. E cominciai a nuotare in una sola direzione, sereno, verso il mio incontro, lì, verso i seni azzurri della medusa.


© Valeria Francese





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