Quando all’inizio della primavera scorsa ho avuto tra le mani l’ultimo libro di Lorenza Colicigno, ho subito percepito che mi trovavo di fronte a un lavoro vasto, ma soprattutto originale e autentico, costruito secondo lo schema classico della tragedia greca (esordio, atti di recitazione dialogati, exudodus o epilogo). “Canzone lunga e terribile”, così il titolo della sua ultima raccolta datata 1997-2003, mi ha accompagnata in uno dei miei viaggi a Roma. Amo leggere viaggiando. Cinque ore di autobus dal Sinni di Isabella al Tevere per sfogliare e attraversare i mutamenti e le trame di un’opera sinfonica alta e sfaccettata, giocata tutta sul recupero della memoria della giovane poetessa Isabella Morra, con cui l’autrice intesse a distanza di quattro secoli un dialogo intimo o meglio un colloquio interiore da donna a donna, intervallato dalla voce fuori campo di un coro che spiega, preannuncia, riassume, enfatizza o semplicemente accompagna “la recitazione”. “In questo quadro contemporaneo – scrive con acume Adele Cambria nella prefazione al libro- Lorenza Colicigno ha forse azzardato la sfida più audace: un dialogo tra ieri e oggi, tra due donne-poete, Isabella e lei stessa, sostenuto da un Coro che ha la funzione classica del Coro nella tragedia greca”.
E così in questo percorso di voci che si incrociano, si intrecciano e si sostengono “la tua carezza cerco che mi accompagni/ il tuo respiro che mi segua nelle pause dell’ispirazione” la voce dell’autrice insegue e accompagna la poetessa di Valsinni in un racconto che osa e va oltre il già detto.
E proprio in quel chiedere, indagare, intuire sul filo di domande e risposte condivise, l’autrice ci restituisce una figura di donna nuova, più interiore, adesa al reale e sicuramente più cosciente e consapevole di se stessa, dei fatti e dell’accadere degli eventi “..pur affamata d’abbracci… mi respinge il mio tempo/ in esili di esili versi”.
Isabella diventa così, metaforicamente, “compagna di pena” di sé stessa e di “innumerevoli voci di donne che scavano/ la loro vita in un solco di solitudine/ -consapevole- per sé e per tutte”, di cui lei come un estremo dono ne raccoglie l’eco. La raccolta richiama infatti alla memoria esperienze comuni e percorsi di storia e di vita di altre donne sottratte alla vita dalla ferocia del pregiudizio: Ester Scardaccione, Silvia Plath, Atonia Pozzi, Giuliana Brescia, Amelia Rosselli, Safiya, accomunate tutte dallo stesso tragico e infimo destino, da una frattura con la vita (estrema e prevedibile) da quella che potremmo più semplicemente definire “la morte annunciata”. Ognuna delle voci femminili è posta ad apertura delle sei stanze che compongono la struttura dell’opera e ognuna di esse assurge a simbolo di un dolore e di una sofferenza “non più taciuta al mondo”, bensì rinnovata, dilatata, condivisa in quel “tutte” che ritorna costantemente e chiude il cerchio “nella mia coscienza/ si rimargina la tua ferita, abisso di tutte,/ lentamente colmato dalle lacrime di tutte”.
Condivisione e pietas, ma non abbandono, né resa nel messaggio di Lorenza, bensì il riscatto salvifico della parola “Siamo in porto, Isabella –recita il coro in conclusione- insieme un lessico, arduo nocchiero/ della diversità, ci conduce/ nell’infinito dominio della poesia,/ dissigillata fonte,/ lì dove nessun castello,/ nessun cervello può confinarci,/ benché disperate./ E mai disperanti.” Un silenzio estremo, lungo e terribile dunque, un libro di voci magistralmente sfondato dalla forza della parola e dalla poesia.